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Eccoci qui, ancora soli. Sul ritratto fotografico, rito violento e inappellabile
Eccoci qui, ancora soli. Queste parole, con cui Céline apriva il suo romanzo più intimo e sofferto, riempiono l’ideale esergo di ogni fotografia di ritratto. Ci guardiamo in queste foto come in strani specchi, incuriositi da un’immagine che, pur appartenendoci, sembra sempre un po’ troppo estranea. Il volto si staglia nella fotografia, intorno non c’è rumore e lì, inappellabili, restiamo soli con noi stessi. Con indifferenza o curiosità, oppure non senza una certa amarezza, ci rendiamo conto di come, nonostante tutto, siamo ancora soli.  * Guardarsi nelle proprie fotografie può essere un’esperienza spaesante e malinconica. Le righe che seguono costituiscono un commentario a due foto che mi ritraggono e, soprattutto, alla produzione dei fotografi che le hanno scattate. Sono ritratti contingenti, frutto di assolute accidentalità. Mai cercati e mai voluti, eppure, poi, accettati senza riserve, apprezzati come ineludibili attestazioni di me. Divertente l’episodio in cui Ray Banhoff scattò la fotografia: era la prima volta che lo incontravo, una mattina in uno squallido bar di periferia nei pressi del casello di Chiesina Uzzanese – uno di quei luoghi che lui ama tanto (li amo anche io). Mentre ci scambiavamo parole di circostanza Banhoff si interruppe bruscamente. Fattomi cenno di aspettare, tornò dall’auto con la macchina fotografica e mi immortalò davanti a un androgino bersaglio per freccette. Con Gianluca Vitelli fu diverso. La sua foto giunse al termine di una preziosissima estate del 2019, in un verde prato fiorentino, all’imbrunire. La sua foto sigilla un’amicizia che vale un tesoro. Un commentario dunque: un commentario personalissimo e piuttosto incongruo (ma, del resto, potrebbe essere altrimenti?). G. Vitelli, Ritratto di anziana signora ricoverata presso un centro per disturbi cognitivi e demenze di Toronto, 2013. Courtesy: Gianluca Vitelli Nelle fotografie la nostra immagine è mediata dal modo in cui il fotografo ci vede: da come egli pensa che siamo, oppure da come egli vuole che siamo. Ci vediamo attraverso di loro, osservando il prodotto della loro sensibilità che, a sua volta, riflette la nostra più o meno consapevole forza di azione sull’altro. Se non fosse già abbastanza, ci sarebbe anche da considerare la parte di mistero che attiene allo strumento. Esso, nel suo imponderabile inconscio macchinale, ha delle ragioni che non possiamo comprendere. Prima di continuare un’avvertenza: sarebbe facile pensare a queste righe, con cui un autore commenta le foto di cui è ritratto, come a un esercizio di narcisismo. Il narcisismo, almeno qui, non c’entra: Montaigne lo indicava limpidamente scrivendo che l’uomo che conosceva meglio era sé stesso e, pertanto, di sé stesso si sarebbe spesso occupato. In un perverso classico del post-strutturalismo francese si legge che non serve arrivare al punto in cui non si deve più dire “io”, ma bisogna raggiungere quello spazio in cui non ha più nessuna importanza dire o non dire “io”. A volte questo sì che sarebbe il massimo.  * Dei due ritratti, quello scattato da Gianluca Vitelli è il più datato anche se, in fondo, non si tratta che di pochi anni. Il cambiamento fisico non riflette che una minima parte di quello interiore occorso dal giorno della fotografia a oggi. Vitelli è un fotografo sensibile e raffinatissimo che nel 2013, appena diciottenne, presentò un servizio su un gruppo di pazienti malati di Alzheimer. Sono foto meravigliose di cui nel genere non si trova l’eguale: un’anziana signora, una delle pazienti ritratte, ci guarda rigorosa e profonda, in tutta l’irriducibile dignità del suo essere donna. Su questa autorevolezza la malattia non può niente. Nel volto di un uomo, invece, ci commuove uno sguardo ingenuo e vago, e nasce il sospetto che lì ci sia una quiete che la condizione di normalità preclude. G. Vitelli, Panoramica realizzata per Ellen Allien al Galactica Festival di Bologna, 2019. Courtesy: Gianluca Vitelli Quando Vitelli fotografa la città la rende tenera o spietata, felice o malinconica, luminosa od oscura – sempre silenziosa, però. Talvolta ce ne presenta il lato più autentico: un’essenza urbana pura, lo spirito di cosa una città dovrebbe essere se non fosse quello che è costretta a diventare. In queste fotografie Vitelli prende il mistero celato nella quotidianità più spontanea, dove le persone immortalate hanno il fascino di magnetici divi dello schermo (è sempre così per chi sa guardare veramente). Talaltra, invece, la città diventa un luogo affascinante e lievemente sinistro: è l’altra faccia della realtà urbana, quando cala il buio e le strade si popolano di spettri. In queste fotografie il tempo è sospeso e non è difficile ritrovare l’atmosfera della pittura di Hopper. Negli scatti ai grandi eventi musicali, invece, Vitelli restituisce un mondo fantasmagorico e febbrile dove effetti di luce, giochi di fumo e scenografie tecno-barocche creano un futuro capriccioso e ipnotico. Qui, dove saremmo portati a credere che essa fosse più trattenuta, la fantasia del fotografo esplode, immortalando mondi impossibili di luce e di sogno. Diversamente dal caso di Banhoff, con Vitelli ci conosciamo profondamente e siamo uniti da un’amicizia che dura da circa venticinque anni. Anche in forza di questo legame non è un caso che nella sua foto mi riconosca come poche altre volte mi è capitato. Nel ritratto di Vitelli mi vedo giovane e soddisfatto. Non indosso gli occhiali: gli occhiali ti separano dal mondo, ti costringono a guardare tutto da un oblò e finisci per sentirti un po’ più solo. La foto di Vitelli mi fa pensare che sarebbe bello essere giovani per sempre. G. Vitelli, Ritratto di bimba a Cascia, 2015. Courtesy: Gianluca Vitelli * Per quanto la parola possa oggi sembrare insignificante, Ray Banhoff è un vero artista. Lo è in un senso concettuale per cui di artistico, più che le foto in sé, è l’operazione che lui fa con i suoi scatti. Banhoff si interessa al margine, a ciò che è periferico. Luogo di provincia o grande città, è consapevole che, prima di un dato meramente territoriale, la periferia è una condizione dello spirito. In un certo senso la sua è un’operazione di recupero: il tentativo di far resistere ciò che è minimo, bizzarro, anacronistico, inclassificabile e inassimilabile. Dare magistero a ciò che la società esclude, relega ai margini e rifiuta; oppure a ciò che fagocita e, vergognandosene, tenta di nascondere. Si tratta di un’operazione epidermica, condotta senza retorica o compiacimenti nostalgici. Inoltre, pur riconoscendo quanto l’estetica dei Novanta lo abbia segnato, gli faremmo un torto a considerarlo perso in uno sguardo esclusivamente retrò e predigitale. Banhoff è perfettamente ricettivo rispetto alla cultura pop più contemporanea. Capisce il presente come pochi altri e, perciò, talvolta lo rifiuta disgustato. Per uno strano transfert Banhoff diventa egli stesso il perfetto soggetto di una foto alla Banhoff. Del resto, anche fisicamente è un po’ un’opera d’arte, con quell’assurda Facies Christi che si ritrova e di cui è perfettamente consapevole, tanto che in un suo progetto sui sosia si è ritratto come doppio di Gesù. Di vero artista, oltre al talento, ha anche la personalità: mercuriale, egocentrico, eccentrico per snobismo e snob per eccentrismo, irresistibile e insopportabile. Insopportabile: come quando a Cremona, interrompendomi continuamente, ha impedito la mia relazione su Spengler, mancando di rispetto a me, a Spengler, e alla memoria di mio nonno Guido che negli anni Trenta si laureò con una tesi sul Tramonto dell’Occidente.  Ray Banhoff, DJ Franchino con canino, 2020. Courtesy: Ray Banhoff Le sue foto sono importanti per la vita che custodiscono. In ogni suo ritratto il miracolo dell’uomo, nelle sue bassezze e nelle sue ferite, ma anche nella sua impensabile e assurda unicità. Dietro a ogni foto un pezzo di quell’anima incompresa, commossa, consumata, derisa, ma sempre grandiosa, grandiosa e definitiva come soltanto l’anima dell’uomo può essere. Banhoff ha ritratto molte celebrità. Celebrità di un tipo particolare però e, anche in questo caso, si è spesso rivolto alla periferia del mondo dello spettacolo, con i suoi freaks più discussi e vilipesi. Lo scatto a Fabrizio Corona è kitsch fino al sublime, in un ribaltamento per cui la volgarità viene trasfigurata. Corona, a petto nudo e con l’espressione di una carpa giapponese, si punta, languido, un cafonissimo pugnale alla gola. Il fotoritratto di Franchino è commovente, con il vecchio vocalist, fragile e remoto, con la faccia malsanamente scavata e il suo amato cagnolino in braccio. Dietro si intravedono cuffie e consolle, i ferri del mestiere. Morgan, invece, lascia che la sigaretta che tiene in mano si consumi lentamente, e ci guarda con due occhi come quarzi marroni, occhi buoni e vagamente tristi. Ma Banhoff non si interessa solo a personalità ampiamente riconosciute, e il meglio lo dà quando sceglie i suoi soggetti tra la gente comune, come nel progetto sui sosia dei divi dello spettacolo, stanati in improbabili locali di frontiera o in paesini sperduti nella Toscana più squallida. Sono sosia speciali che, come precisa Banhoff, devono incarnare il loro archetipo e non semplicemente somigliarci. Ma è sbagliato parlare di gente comune: i modelli di Banhoff mostrano sempre una loro bizzarria, una fascinosa singolarità, e di comune non hanno niente. Sono vip al contrario: sovrani senza regni, divi in un mondo che non possiamo capire.  Banhoff sa benissimo che, come scrive il suo amato Bukowski, «il miglior spettacolo sono le persone e non devi neanche pagare il biglietto». Per molti aspetti la sua ricerca potrebbe essere avvicinata a quella di Juergen Teller, ma con un senso di verità nettamente più profondo, una verità che non lascia scampo. Compiaciuto di essere stato scelto, vengo alla mia fotografia dove, suscitando lo sguardo spiritato, alzando il colletto della camicia e costringendomi a una tensione particolare, Banhoff mi ha nietzschianamente costretto a diventare ciò che sono, estraendo una componente aggressiva ed elettrica. Il bersaglio alle spalle mi fa martire e carnefice. Qui mi vedo pronto all’annientamento; risoluto fino allo schianto, con l’amaro nodo in gola che precede il silenzio.  Ray Banhoff, Cacciatore con fucile Browning, 2015. Courtesy: Ray Banhoff * Non c’è due senza tre, e qualche giorno fa un terzo ritratto fotografico si è aggiunto agli altri. È ancora presto per parlarne, e ancora devo capirlo. Ha scattato Marco Onofri, un grande fotografo di ritratti. Ha fatto leva sulla mia naturale vanità, lusingandomi con un’offerta che sarebbe stato sciocco rifiutare: si è detto incuriosito dal mio collo molto lungo, cosa di cui non mi ero mai accorto prima. E poi alcuni suoi ritratti fotografici appesi alla parete erano troppo belli per sprecare un’occasione simile. Un grande fotografo come lui è capace di far brillare qualsiasi soggetto.  Se la fotografia di Vitelli potrebbe rappresentare uno stadio di tesi, quella di Banhoff, nella contrazione dell’istante prima di un’esplosione, ne sarebbe l’antitesi. La fotografia di Onofri, almeno per ora, sarebbe la sintesi tra le due fasi, nella determinazione di una maturità raggiunta e precaria. Antonio Soldi *In copertina: Ray Banhoff, “Antonio Soldi come bersaglio umano”, 2024. Courtesy: Ray Banhoff L'articolo Eccoci qui, ancora soli. Sul ritratto fotografico, rito violento e inappellabile proviene da Pangea.
November 26, 2025 / Pangea
Condannati a ridere. Piccolo discorso intorno a dentature guaste e a piccole iene
Qualche tempo fa m’imbattei nell’articolo d’un grande quotidiano nazionale italiano, abbeveratoio della sinistra “illuminata”, che s’incaricava appunto di rischiarare le menti dei lettori sulla ragione per cui la stragrande maggioranza dei ritratti pittorici e fotografici del passato, remoto e più recente, fissano volti privi di sorriso e men che meno di una risata. La soluzione dell’enigma era laconica unica e tassativa: la dentatura guasta o mancante. Avendo i nostri avi una chiostra impresentabile, era giocoforza serrare i labbri per celare il vergognoso scempio. Una rivelazione che se non avessi appresa da quel foglio, avrei pensato a un lazzo di burlone o a un momentaneo oscuramento cognitivo dell’autore, tanto si tratta d’una sonora e proterva imbecillità avvolta in rigore “scientifico”. Vale la pena di spenderci qualche parola, ché essa è segno dei tempi. Anzitutto, ammettendo che il re, o il condottiero, o il compositore musicale, poniamo del Seicento o del Settecento, avesse i denti marci o assenti, non vedo la ragione da parte del pintore di darsi al verismo ante litteram, postoché volesse serbare la committenza e magari anche il capo sul collo. E mi sento più fesso di quel giornalista a dover osservare tanto: ma a un’idiozia si deve replicare, non potendo con pedate nel didietro, con altrettali banalità, come si fa coi bambini tardi. Meno, assai meno c’è – a proposito – da ridere o sorridere, se non di commiserazione, traducendo il discorso dalla pittura alla fotografia: giacché non c’era alcunché da celare. Eh sì. Se l’estensore di quell’articolo rivelatore avesse letti buoni libri o anche soltanto scartabellato “in rete”, si sarebbe sùbito accorto che le dentature dei nostri antenati erano più che complete sane e non di rado bellissime. Chi avesse avute magagne dentarie aveva di poi alla disposizione diversi tipi di protesi, le quali risalgono – si aprano bene gli occhi – al 2500 a.C. Delle condizioni di molari e incisivi nelle epoche “arretrate” si trova ampia traccia ovunque. Penso a esempio ai Colloqui con Arthur Schopenhauer o a qualche buona biografia di Abramo Lincoln, il quale, come riferisce John Kleeves (Stefano Anelli) in Un Paese pericoloso, possedeva una protesi di denti umani. Leggendo di poi l’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova si trovano non poche descrizioni di splendide dentature naturali, anche presso le classi meno abbienti, così mirabili che il Gran Veneziano si sente in dovere di rilevarlo. Spostandoci nel tempo arriviamo a Gabriele d’Annunzio, del quale molti non mancavano di far notare una dentatura infelice; segno, l’osservazione, che ancòra cent’anni fa una bocca guasta, per di più in una persona alla quale non mancavano di certo conoscenze e danari per farsela arrangiare, attirava l’attenzione (e anche gli scherni di qualche tanghero). Ci sostiene anche Totò, cantando per di più d’una popolana, l’acquaiola, nella poesia eponima, che «se chiamma Teresina, – sì e no tene vint’anne, – capille curte nire nire e riccie, – na dentatura janca comm’ ‘a neve». Sulle epoche antiche o antichissime basterà sfogliare qualche volume di archeologia per ammirare teschi con denti originali perfetti, nonostante le migliaia d’anni trascorse. Un archeologo che interpello conferma: al massimo manca qualche dente ogni tanto, ma sono in stragrande maggioranza bocche intatte, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi èra. Brutte dentature in qualche passato, beninteso, ce ne saranno state; ma non certo nella misura imaginata da certi scribacchini perdigiorno. Proseguiamo. È falso che i nostri avi, celebri o meno, si facessero ritrarre pressoché sempre col cipiglio. Ci sono intiere biblioteche di imagini di contadini, e operai, e bottegai sorridenti (e, peraltro, talora sdentati); così come non è inferiore il novero di figure fissate nell’abbozzo o nello spiegamento d’un sorriso. Almeno in un paio di ritratti fotografici si vede proprio Schopenhauer con la faccia mossa in un lieve sorriso sarcastico. Come dunque si vede, l’analisi di quel rappresentante dell’intellettualità progressista, che verisimilmente avrà ripresa la grande rivelazione da qualche ricercatore americano o inglese, è, per adoperare un proverbio giusto di quelle parti, una cagata nel ventilatore (acceso). Ma di dove viene una simile boriosa sicumera? Credo di avere la risposta, che è duplice. Per cominciare, da un pregiudizio tipicamente moderno, della modernità più corriva e ottusa, per la quale tutti, sino al giorno avanti in cui il progressista pensa e (purtroppo) parla, erano dei cavernicoli. Pei progressisti la storia è composta di grandi magagne e orridi sociali tecnici artistici politici, che solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e vieppiù nella seconda metà del XX, sono stati colmati e spazzati via. Sicché anche solo l’esistenza di una dentiera prima d’avantieri è letteralmente impensabile. Il che significa anche ignoranza e poltronaggine. Ma dietro a questo pregiudizio materiale, se ne staglia uno morale, che è la seconda scaturigine della cialtronata in esame. Una ‘testa di carattere’ di Franz Xaver Messerschmidt (1736-1783) Il tono dell’articolo in fatti (che peraltro consuona, per la mia esperienza, con numerose chiacchierate avute con svariate persone, non necessariamente progressiste, segno che il lavaggio del cervello e la tassidermia cranica sono efficaci e democratici), il tono dell’articolo mostra stizza e contrarietà per quella schiera di facce serie e compunte. Che noia, che tristezza, mai un sorriso, e ridete una volta ogni tanto!, sembra di udire. È l’andazzo odierno, uno dei segni più eloquenti e agghiaccianti dello spirito del nostro miserabile tempo. Ridere più che sorridere e, ancor meglio, sghignazzare, magari con le fauci spalancate, è segno di vitalità, di gioia, ci aiuta a dimenticare che la vita è cosa seria.Guardate le fotografie sugli apparecchi telefonici, sui “social”, guardatevi d’attorno, al lavoro, in famiglia, sul treno: quasi mai si vedono facce serie, in ispecie se sono adunati due o più individui. Tutti (e tutte) squadernano la chiostra e più volentieri ancòra divaricano le mascelle (non di rado mostrando qualche otturazione…). Ed è in questi casi che costoro, e non i nostri antenati, dimostrano di essere più prossimi ai nostri (del tutto presunti) progenitori scimmie. Se oggi solo provi a farti scattare una fotografia restando più o meno serio, il Cartier-Bresson di turno – un amico, un collega – ti rintuzzano: «Uh, ma come sei seriooo…! Non siamo mica a un funeraleee… Ridi un po’!». A me è capitato anche durante la breve seduta dal fotografo per la carta di identità. Cosa accidenti poi ci fosse da ridere per uno che di lì a poco si sarebbe infilato in un ufficio pubblico, ignoro. Oggidì la risata, sopra tutto se a sproposito e ostentata, è un segnacolo di riconoscimento obbligatorio, come la targa dell’autovettura, come il tatuaggio, altro emblema, quest’ultimo, della mutazione antropologica in atto. Vi racconto questa. Non molto tempo fa sostavo per una pausa sul portone d’una grande biblioteca. A un metro dietro le mie spalle c’era un quartetto di donne tra i trenta e i cinquant’anni, ben conciate e del tutto sobrie, intente a discutere di questioni ordinarie, figli famiglia vacanze lavoro, quindi nulla che potesse suscitare risate, men che meno di quelle a cui per venti minuti abbondanti volli assistere con discrezione. «Com’è andata al mare?»: giù risate di tutte. «E tu col bambino? È guarito?»: altre risate. «Sì sì, per fortuna»: risate. «Massì, dài, insomma», eh eh eh ah ah ah. Era tuttavia ammirevole che quelle donne riescissero a ridere anche mentre “articolavano” le parole, che in effetto talvolta mi diventavano oscure. Avrò limiti, ma quando rido della grossa (lo faccio, tranquilli, lo faccio) mi è impossibile parlare, e viceversa. Temo però che quelle risa, come moltissime altre, oltreché fuor di luogo e inutili, e anche moleste, siano di natura isterica. E certi contenuti del “dialogo” al quale assistetti me lo confermano. Una risata sincera è suscitata da una scena o da un motto di spirito e si manifesta in tutt’altro modo. Durante quei lunghi ma istruttivi minuti mi venne alla mente, come ogni volta che mi imbatto in scene analoghe, un frammento dei Griffin, il cartone animato famoso, con protagonista un gruppo di donne al ristorante intente a ordinare un dolce. Non anticipo alcunché; ma vi assicuro che avrete la rappresentazione plastica della scena della quale fui abusivo spettatore. E se persino Seth MacFarlane e i suoi impietosi (e talora diabolici) collaboratori, progressisti spinti, quindi non tacciabili di bigottismo, si sono sentiti in dovere di isolare la mostruosità di certi contegni, occorre che gli altri progressisti – e non – svolgano una seria riflessione su loro stessi e sul mondo in cui viviamo e che hanno contribuito a forgiare. Tornando ai nostri avi, la ragione in forza della quale essi si facevano ritrarre perlopiù serii e in pose composte era una soltanto, indipendentemente dal soggetto: dare e tramandare di sé e magari della loro categoria e del loro ceto sociale, qualunque fosse, un’imagine decorosa esemplare e persino nobile, sopra tutto se ricoprivano ruoli, pubblici o privati, dai quali dipendevano e ai quali riguardavano magari migliaia o milioni di persone. Ma di più: non solo volevano essere serii, ma lo erano, non si sforzavano di esserlo per il tempo della seduta davanti alla macchina fotografica per poi scomporsi una volta lontani. A conferma e rafforzamento di questa verità basterà guardare libri fotografici o documentarii dagli anni Quaranta ai Settanta del secolo scòrso con qualsiasi persona a protagonista. Vedrete sùbito l’abissale e irriducibile divergenza di contegno dall’oggi. Ciò però non significa che un tempo non sapessero ridere anche le persone i cui volti ci sono arrivati composti. Si pensi a Hegel, i cui ritratti possono essere l’incarnazione della severità e della compostezza. Ma basta leggere una paginetta dalla biografia del filosofo scritta dall’allievo e amico Karl Rosenkranz per apprendere che il grande pensatore di Stoccarda sapeva anche ridere di gusto. L’ultima volta fu davanti a una locanda in cui si era intrattenuto con alcuni amici, che testimoniano della giovialità del filosofo, il quale peraltro di lì a pochissimo tempo sarebbe morto, pare assai serenamente, a causa del colera che aveva colpita Berlino. Ma chissà che cosa direbbero certi partigiani della risata se sapessero che, in tanti anni di assidua frequentazione, un suo amico ha veduto sorridere Coetzee soltanto in un’occasione. Beninteso: non sto tessendo un elogio della mutria. Ma si converrà che una persona normale (sì, ho detto normale: e quindi?) si senta più al sicuro davanti a qualcuno di composto che non a una “iena ridens”. Mi domando di poi, guardando tutte quelle bocche spalancate e sentendo tutti gli inviti a «ridere un po’», quale valore rappresenti di per sé ridere, in quella maniera sguaiata e berciante poi, che cosa aggiunga a un individuo. Non è affascinante e rassicurante il sorriso della Gioconda o dell’Auriga di Delfi? E forse non gli è che sommi artisti – un Bosch, un Kranak – hanno castigata la sguaiataggine? Ricordiamoci poi l’imbarazzo (penso ancòra a Schopenhauer) dinanzi alla bocca del Laocoonte, che sembra, anziché gridare, nemmen ridere ma solo sbadigliare. Se poi vogliamo “buttarla in religione” ecco san Tommaso d’Aquino, che annovera il risus superfluus addirittura tra i peccati, benché veniali:  > «Talora invece la volontà del peccatore si volge verso cose che contengono in se stesse un certo disordine, senza però opporsi all’amore di Dio e del prossimo: tali sono le parole oziose, le risate smodate [risus superfluus] e altre cose simili. E questi peccati sono veniali nel loro genere». > > (Somma teologica, I-II, 88, 2) Tuttavia non si commetta l’errore di leggere la parola «peccato» in senso moralistico, come purtroppo molto spesso, se non quasi sempre, anche gli stessi cristiani inclinano. «Peccato» in greco antico – che è la lingua ufficiale degli Evangeli – è «amartía», letteralmente «mancare il bersaglio, andar fuori strada», che può essere inteso anche in modo estensivo. E in effetto, se ci pensiamo, quando ridiamo in modo eccessivo è come se escissimo da noi stessi, e così quando straparliamo sospinti da un eccesso emotivo dicendo fesserie o parole che possono nuocere ad altrui ovvero ritorcersi contro di noi: anche Schopenhauer, non certo un partigiano del cristianesimo, raccomanda di contenere le parole affine di non incorrere in qualche guaio. Ricordiamoci che «non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo; ma è ciò che esce dalla bocca, che contamina l’uomo» (Mt 15,11). Le Scritture sono molto eloquenti. Forse che Sara non rise quando udì che avrebbe avuto un figlio nonostante l’avanzata età (Gn 18,12)? Risero anche di Gesù quando questi disse che la figlia di Iairo «non è morta, ma dorme» (Lc 8,52). E forse i soldati romani non irridono Gesù? Ma «guai a voi che ora ridete, perché farete cordoglio e piangerete» (Lu 6,25), e perché «io ho detto del riso: “È una follia”» (Ec 2,2). Contemplando quelle schiere di bocche scontorte, gli elogi della sguaiataggine, gli stimoli a ridere ridere ridere, mi vien da pensare al Batman di Tim Burton, quando Jocker, interpretato da Jack Nicholson, sbuffa nell’aria di Gotham City un gas verdognolo che stermina la popolazione e la irrigidisce in un ghigno simile al suo, derivatogli dal bagno in una vasca di acido e dalle manovre imperìte d’un chirurgo clandestino. Un ghigno, quello di quei morti, che è l’antifrasi dell’animo di Jocker e dei tristi cittadini, morti prima di morire, di quell’oscura città: «Anche ridendo, il cuore può essere triste» (Pr 14,13). Gli abitanti di Gotham City erano condannati a ridere. Proprio come voi. Luca Bistolfi *In copertina: Conrad Veidt in “L’uomo che ride”, 1928 L'articolo Condannati a ridere. Piccolo discorso intorno a dentature guaste e a piccole iene  proviene da Pangea.
November 14, 2025 / Pangea
Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione
È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi, invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era, brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida. La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.  Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.  Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati, corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per rivestire un vuoto, il nulla.  I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le “Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza, pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso di disincantato incanto – uno schianto.  Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su “Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver “fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”. Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23 giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a “Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di «Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a spingerlo al sequestro”. Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del 1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi – gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’ che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.  Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini, Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads. Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.  Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella nudità.  Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello spirito.  Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi, puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è stato offerto per sempre.  Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre *A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8 dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi – di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni. L'articolo Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione proviene da Pangea.
September 17, 2025 / Pangea
Don McCullin, l’uomo che ha fotografato il cuore di tenebra del secolo
Don McCullin nasce a Londra nel 1935, crescendo durante la guerra, fra case diroccate e bombardamenti, nel quartiere popolare di Finsbury Park, dove scatterà le prime fotografie, a vent’anni, dopo aver svolto il servizio militare per la Royal Air Force, ritraendo una banda di Teddy Boy, i Guvnors. La sua prima fotografia pubblicata mostra i Guvnors in un palazzetto distrutto dalla guerra. Gliela compra l’“Observer”, stampandola a mezza pagina e chiedendogliene altre. Don McCullin diventa così un fotografo freelance, lavorando per l’“Observer” e il “News Chronicle” e la rivista “Town”, viaggiando per l’Inghilterra in cerca di scatti e abbandonando Finsbury Park, il suo quartiere d’infanzia.  Nel 1961 la Repubblica Democratica Tedesca comincia la costruzione del muro di Berlino, e lui decide di andarci a proprie spese, realizzando un portfolio che sarà premiato dalla British PressAward e che gli frutterà il primo contratto da professionista, sempre con l’“Observer”. Intanto si è sposato, e di lì a poco diventerà padre. Ma non rimarrà molto in famiglia, troppo irrequieto per vivere a lungo nello stesso posto. Nel 1964 parte per Cipro, dove copre l’invasione turca; qui farà i suoi primi, grandi scatti di guerra, che l’anno successivo saranno premiati dal World Press Photo. È il suo primo incontro con l’orrore della guerra. In uno scatto un miliziano turco esce da una casa, di corsa, con il fucile fra le mani: un’immagine oggi famosa. In un altro una donna piange due uomini morti, riversi in una pozza di sangue, il marito e il fratello. Don McCullin scoppia in lacrime, muovendosi a fatica intorno ai cadaveri, componendo le fotografie “nella stessa maniera in cui Goya dipingeva o abbozzava i suoi disegni di guerra”, come racconterà anni dopo nella sua autobiografia, Unreasonable Behaviour, Un comportamento irragionevole, scritta con Lewis Chester.  Lui è Don McCullin Le immagini si susseguono. Una donna piange il marito morto, con il figlio accanto, stringendo le mani ossute; degli uomini trascinano il cadavere di un vecchio lungo una strada, di fianco a un carro armato; una ragazza turca cammina imbracciata a un fucile, decisa a vendicare la morte del fratello. Sono scatti in bianco e nero, istantanee della morte e del dolore che testimoniano la ferocia e l’insensatezza della guerra, di ogni guerra. È lo sguardo delle vittime, la loro disperazione e la loro forza, il loro urlo contro gli assassini. > “Speravo di aver catturato nelle mie fotografie un’immagine duratura che si > sarebbe impressa nella memoria della gente” ha detto Don McCullin. “Cercavo un > simbolo – anche se allora non mi sarei espresso in questi termini – che > potesse rappresentare l’intera vicenda e avesse la forza d’impatto dei riti e > delle icone religiose.” Negli anni successivi Don McCullin continua a viaggiare, di guerra in guerra: Vietnam, Congo, la Guerra dei sei giorni a Gerusalemme, ancora Vietnam, dove tornerà oltre quindici volte, Nigeria, per la guerra di secessione del Biafra, di nuovo Vietnam, nella cittadina di Hue, dove scatterà la sua fotografia forse più conosciuta, quella del marine traumatizzato, con le mani strette intorno alla canna del fucile.  Ogni sua immagine è una storia, un momento che si racconta attraverso gli sguardi o i gesti, le posizioni delle mani e delle braccia e le smorfie sui volti. Viene in mente la poesia Torture, di WisławaSzimborska: > “Il corpo si torce, si dimena e divincola,  > fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,  > illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.”  Gli uomini piangono e si disperano o fissano semplicemente l’obiettivo, cioè Don McCullin che fotografa, oppure sono morti, come il soldato vietnamita riverso al suolo, nella cittadina di Hue, con le sue fotografie di famiglia sparse accanto a sé.  Fra una guerra e l’altra, di viaggio in viaggio, Don McCullin trova il tempo di fotografare anche i Beatles, a Londra, e di passare per la Cuba di Fidel Castro, dove conosce la scrittrice Edna O’Brien, che diviene sua amica e gli dedica una poesia, First the lions, then the vultures, Prima i leoni, poi gli avvoltoi. È il 1968. Don McCullin è ormai un fotografo rinomato, fra i migliori fotografi di guerra al mondo, anche se odia quest’espressione, “fotografo di guerra”, dicendo che suona come un’accusa di comportamento mercenario. Le sue immagini, in un chiaroscuro fatto di ombre e luci, sempre composite, ritraggono la miseria, la disperazione, la fame, la malattia, la guerra, ma non solo: alcuni suoi scatti sono momenti di rara bellezza, come il ritratto di Patience, nel Biafra, una ragazza sedicenne denutrita eppure bella, che guarda il fotografo con uno sguardo pieno di dignità e dolcezza.  Nel 1970, in Cambogia, Don McCullin viene ferito alle gambe, da una raffica di mitra. Cerca di salvarsi, trascinandosi con le braccia fra cumuli di cadaveri e soldati in fuga, strisciando nel fango.Finalmente lo caricano su un camion, portandolo via. Riuscirà a tornare in Inghilterra, anche se non vi resterà a lungo, nonostante le ferite, ripartendo quasi subito per il Bangladesh, in India, dove farà un reportage su un’epidemia di colera. Qui le fotografie sono terribili, come nelle guerre. Una famiglia piange la madre morta, in un campo deserto. Dei malati di colera si rigirano sul pavimento, in preda al dolore, come insetti schiacciati. “Nessuna salvezza, in quegli scatti” ha scritto Guido Ceronetti, in Ti saluto mio secolo crudele, “l’uomo è privo di ali, l’uomo è senza il soccorso divino, l’uomo è solo.” L’uomo è solo anche nella guerra. Don McCullin torna in Vietnam e in Cambogia, poi in Medio Oriente, per la guerra del Kippur. È come una droga, dice in un’intervista: non può fare altro che partire, di guerra in guerra, accumulando orrori.  “Quando tornavo in redazione con le mie fotografie” racconta, “il caporedattore esclamava: ‘Che orrore! Sarà una buona doppia pagina!’, o: ‘Povera gente! Che grande copertina!’. E io accettavo il loro gioco, non chiedevo altro che di ripartire per la prossima guerra, era diventata la mia droga.” E poi:  > “Non è finita, non lo sarà mai. Non ci sarà un giorno senza questi flashback > nella mia testa. Non posso attraversare una via di Belgrado, o entrare da > Harrods, o passeggiare sulle colline del Somerset, senza che queste immagini > ritornino, come gli spot alla televisione. Delle persone nell’ingresso di un > palazzo di Beirut, in lacrime, mentre i miliziani ricaricano le loro > mitragliatrici. Li hanno massacrati qualche minuto dopo, davanti a Gilles > Caron e a me. Ci siamo scambiati uno sguardo, stringendo le palpebre, e non > abbiamo detto una parola per il resto della giornata.”  Gilles Caron era uno dei più cari amici di McCullin, anch’egli fotografo di guerra, scomparso in Cambogia nel 1970, probabilmente ucciso dai Khmer rossi.  Nel 1972, in Uganda, Don McCullin viene arrestato dai soldati del dittatore Idi Amin Dada. Lo rinchiudono in prigione, lo picchiano, lo torturano, per poi espellerlo a vita dal paese. Più tardi, prefaendo un suo libro di fotografie, Hearts of Darkness, John Le Carré scriverà:  > “Don McCullin ha conosciuto tutte le forme di paura e ne è diventato un > esperto. È tornato indietro Dio sa da quanti precipizi, e nessuno assomigliava > all’altro. Le sue esperienze in una prigione ugandese basterebbero a far > perdere per sempre il senno a un uomo, di certo a un uomo come me. Dice di > essersi giocato la vita più volte di quante riesca a ricordare, ma non se ne > vanta.” Seguono altri orrori, specie il massacro dei palestinesi a Beirut, in Libano, a Sabra e Chatila, nel 1982, o la guerra civile in Salvador, dove sarà ferito ancora, cadendo da un tetto. Ma ormai Don McCullin è stanco. Ha visto troppe guerre, troppo dolore, e poi sente che la sua fortuna sta per esaurirsi e non vuole finire come il suo amico Gilles Caron o come Dana Stone o Sean Flynn o il giapponese Kyoichi Sawada, tutti morti o scomparsi; non vuole morire.  Nel 1985 fotografa i riti religiosi dei pellegrini lungo le sponde del fiume Gange, in India, dove si reca da anni, uno scenario di quiete; poi comincia a ritrarre paesaggi e nature morte, in Inghilterra, nel Somerset, nei dintorni di casa sua. “La mia ora preferita è il crepuscolo” spiega, “non posso non desiderare che tutto divenga sempre più scuro.” Passa ore intere nel suo laboratorio, sviluppando immagini. Sono paesaggi cupi, come scattati alla fine del mondo, nei confini dell’animo umano, fatti di silenzio e oscurità. Sembrano un epilogo a tutte le guerre che ha vissuto.  > “Immagina di guardare negli occhi di una persona che sta per essere > giustiziata davanti a te e che ti implora di aiutarla” dice Don McCullin, “ma > tutto quello che puoi fare è scattare una fotografia e andartene. Quando te ne > vai, se hai ancora un briciolo di umanità, il tuo cuore è pesante come una > pietra. Non stiamo parlando di fotografia, ma di una responsabilità molto più > grande. Io mi porto dietro il peso di quel senso di responsabilità, e di > colpa. Per questo cerco di alleggerirmi da quel carico facendo fotografie di > nature morte e di paesaggi. Fotografando i campi allagati, gli alberi spogli, > il paesaggio antico come le leggende di re Artù ai margini del mio villaggio > nel Somerset, ho la sensazione di purificarmi da quella colpa.” Non andrà più in guerra, Don McCullin, con l’eccezione di un breve viaggio in Iraq, nel 1992, a quasi sessant’anni. Le sue fotografie ormai sono esposte nelle gallerie di tutto il mondo, a Londra, a Parigi, a Berlino, a New York; nel 1993 la regina Elisabetta lo nomina commendatore dell’Impero britannico e dottore honoris causa dell’Università di Bradford: una bella rivincita, per uno che non poteva pagarsi gli studi e che è stato bocciato all’esame di fotografia della Royal Air Force.  Nei suoi libri di fotografie (The Destruction Business, Hearths of Darkness, Open Skies, Sleeping With Ghosts, Don McCullin in Africa, Don McCullin in England) si vedono cadaveri trucidati e divelti e volti sfigurati, figli mutilati e deformi e madri in lacrime e manicomi deserti e bambini legati ai letti, a Sabra, sotto i bombardamenti israeliani, oppure la sua Inghilterra – il cimitero della famiglia Brontë avvolto dalla foschia, un collezionista di teschi londinese, un gruppo di skinhead adolescenti che prendono il sole, dei pescatori che giocano a calcio su una spiaggia, un gregge di pecore che si avvia al macello, all’alba, immagine di finitudine, un barbone malinconico e selvaggio, simile a Nettuno, che fissa l’obiettivo con grande dignità.  Don McCullin è uno dei grandi testimoni del nostro tempo, non solo per le fotografie di guerra, immagini dell’orrore e della miseria umana, ma anche per i suoi scatti dell’Inghilterra e per i suoi paesaggi, le terre deserte e cupe del Somerset o i campi di battaglia della Somme, in Francia, una delle sue prime fotografie del nuovo secolo, quasi un monito a ogni guerra presente e futura. Il suo percorso di fotografo, dai sobborghi di Londra al Vietnam al Biafra a Gerusalemme fino alle tribù primitive delle isole Mentawai, esplora le profondità umane e disumane del Novecento, il cuore di tenebra del secolo ventesimo e forse, da ultimo, la nostra colpevolezza, nelle lande desolate di una terra ormai priva dell’uomo, senza più guerre, nel silenzio di ogni cosa, fin dove si spinge lo sguardo – cioè l’obiettivo – di Don McCullin, e forse ancora più oltre.  Edoardo Pisani *In copertina e nel testo: fotografie di Don McCullin L'articolo Don McCullin, l’uomo che ha fotografato il cuore di tenebra del secolo proviene da Pangea.
September 13, 2025 / Pangea
“Nello smarrimento”. Mario Giacomelli, il demone scapigliato che ti viene a cercare in sogno
Milano, fine luglio. Cielo altero, immacolato. Piazza Duomo è sommersa, more solito, da policromi sciami umani, torme di piccioni quasi addomesticati, esagitazioni vocali e sorrisi posticci a beneficio di autoscatto. Noi scegliamo Palazzo Reale, una retrospettiva di oltre trecento opere dedicata, in occasione del primo centenario dalla sua nascita, a Mario Giacomelli (Senigallia, 1 agosto 1923 – Senigallia, 25 novembre 2000), fotografo radicale fra i più influenti del Novecento. Il titolo della mostra è emblematico: Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta. Ci immergiamo senza esitazione nella nera carena della prima sala. Le luci al soffitto sono cecchini discreti puntati sulle immagini incorniciate. Immagini o illusioni, non si sa ancora. E non si sa nemmeno se avvicinarsi o scegliere la visione d’insieme, a distanza, lo sguardo che erra, si confonde, naufraga in uno smarrimento in bianco e nero. Quante saranno le raffigurazioni che tracciano ogni parete in un’avvicendarsi di chiazze d’oscuro e di lume?  Ci fermiamo, al centro della sala, socchiudiamo gli occhi e poi li riapriamo, accostandoci ai segni di materia che promanano dalle cornici: sembianze vaghe, talora invece nettamente profilate, in ogni caso, sempre definite soltanto dal nostro sguardo. Non dal Suo, che è già oltre, nel movimento che tende all’infinito, all’indistinto.  Lo sguardo di Mario Giacomelli è sempre oltre, anche prima di scattare, anche dopo, nella camera oscura, quando la materia diventa irreale, il visibile tracima nell’invisibile, nel sembiante della trascendenza. Lui cerca quella. Cerca di afferrare la trascendenza, senza fermarla, respinge il tempo, rifiuta l’idea di sospensione radicata in un certo concettualismo fotografico; attualizza, semmai, il passato, riesuma ciò che è finito, restituendogli nuova vita: “le mie foto” – scrive in un appunto – “sono il presente e il passato: lo spazio ed il tempo ridotti ad un segno unico”[1]. E che sia buio, luce, cranio brulicante di farfalle-stelle o campo arato, che siano preti, gatti, uccelli, bocche sdentate o scheletri arborei, che siano case a mucchi o semplici macchie, che sia vita o morte, nulla cambia. Il fermento, il moto sulla soglia – fra ciò che è e ciò che non è più, ma in altro modo comunque sarà – è il sigillo con cui Mario Giacomelli lavora sull’immagine, e prima ancora sui luoghi, sugli oggetti, sui volti, predisponendoli, arruffandoli, spostandoli, inventandoli, per valicare l’implacabile leopardiano “orizzonte che lo sguardo esclude”, e tendere all’ἄπειρον (ápeiron), riconciliando così materia ed evanescenza, presente e passato, memoria e immaginazione.  Mario Giacomelli riesce, nell’epoca della fotografia analogica, a penetrare e oltrepassare la materia, dunque il reale, indegno della complessità della vita, e riesce a farlo partendo – fra l’altro – dalla poesia, il gesto che, forse più di tutti, ha accesso all’invisibile e che, in ogni caso, accompagna tutta la sua vita.  Non è un poeta stricto sensu, Giacomelli, anche se si cimenta nella scrittura di versi, ma di certo incorpora lo spirito dei poeti a lui cari (Leopardi, Cardarelli, Dikinson, Masters, Montale, Corazzini, Luzi, Borges, Caproni, Permunian) e impara, col tempo, a tradurlo in immagini, sperimentando le più svariate tecniche fotografiche: “lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco mangiato, il nero chiuso, sono come esplosione del pensiero che dà durata all’immagine, affinché si spiritualizzi in armonia con la materia”[2]. È nel cenacolo di Giuseppe Cavalli, fotografo e intellettuale raffinato, che il giovane Mario – costretto al lavoro in una tipografia da quando ha tredici anni, dopo aver perso il padre a nove – riceve l’iniziazione, si accosta alle più svariate forme d’arte, ascolta Bach, legge Eliot e Croce, orienta la propria indole romantica e decadente verso l’apprendimento, da autididatta, della fotografia artistica. Fa propri i dogmi dei maestri per domarli, sconcertando sin da subito l’ambiente fotoamatoriale: i suoi primi lavori (come la serie Vita d’ospizio, cui si dedica a partire dal 1956, e che è ispirata all’ospizio di Senigallia dove lavora la madre) vengono puntualmente scartati ai concorsi, poiché Giacomelli infrange i dictat dell’epoca, le regole del reportage bressoniano, intervenendo nella realtà e alterandola, prima e dopo la cattura (si pensi ai bianchi e ai neri bruciati dal flash, alle cesure, alle sovraimpressioni). Interventi che allontanano il Nostro dal realismo in voga in quegli anni e dalla ricerca della purezza stilistica dello scatto. Nel parallelismo fra animato e inanimato, l’ospizio ritratto da Giacomelli svela i volti e i corpi dei vecchi, ripresi in posture oblique e traballanti, la pelle-corteccia fessurata dalle stesse crepe dei campi arsi dal sole, il buio delle cavità oculari che mangia lo sguardo predisponendolo alla mèta ctonia, e somiglia a quello delle fosche finestre dei casolari diroccati ritratti in altre fotografie della serie.  Quel lavoro segna l’inizio del viaggio nella fotografia metafisica, anzi poetica, di Mario Giacomelli, che insegue l’uomo, pencolante tra forze contrapposte, con la sua tragica fragilità, e lo ritrova sulla soglia di una perenne metamorfosi, lo trova fra ruderi isolati, annidato fra gli anni di un tronco, in suggestioni di caligine, fra contorsioni di ferri neri e pezzi di cemento, o ancora issato a cieli consunti, accecanti. L’uomo di Mario Giacomelli pulsa nei controluce, nei profili di un masso strangolato dal buio, o ancora in una folla di teste illuminate come cerini accesi nel nero. Nello sguardo di Giacomelli, come in quello del poeta, il paesaggio (legato, nel suo caso, al mondo contadino dal quale proviene) si fa esperienza interiore, attraverso l’uso del simbolo, ed è, come annota lui stesso:  > “atto di espressione totale dove sento lievitare la natura, il flusso > traumatico del tempo. È la dimensione dello spazio ridotto a una emozione > unica, ad una estensione della mia esistenza dove il quotidiano, il ripetitivo > viene come filtrato dal fluente dell’immaginazione”[3]. Non si può dire che Giacomelli ritragga il paesaggio; semmai, come sostiene sempre lui, raffigura “i segni, le memorie della esistenza di un ‘mio’ paesaggio. Non voglio che sia subito identificato, preferisco che si pensi a certi segni, alle pieghe che l’uomo ha nelle sue mani.”[4] È una fotografia meditativa, immaginifica, quella di Mario Giacomelli, fatta di lacerti figurativi, di tensioni fra luci e ombre, di audaci frammenti e composizioni radicali, in cui anime e oggetti si accordano per proiettare i segni dell’inconscio. “…segni”, osserva sempre il Nostro, che “vengono come vivificati per una loro architettura e costruzione visiva, come a sfidare le cose reali.”[5] Ce ne accorgiamo subito, sin dalle prime sale dedicate alla retrospettiva. Qui proveremo a soffermarci su alcune di esse e a dare una lettura (istintiva, dunque, senz’altro inadeguata) di alcuni dei lavori esposti, invitando il lettore a regalarsi un’esperienza immersiva di formidabile intensità nell’arte di Mario Giacomelli. * La serie L’infinito (1986-1988), ispirata all’omonima lirica leopardiana[6], viene realizzata in seguito all’incontro di Giacomelli con Luigi Crocenzi (1923-1984), eclettico fotografo e intellettuale con cui il Nostro intrattiene un epistolario negli anni Sessanta e da cui apprende le teorie del fotoracconto e del montaggio per immagini, cominciando a praticare la fotografia come concatenazione di immagini destinate alla narrazione.  La lettura del celeberrimo componimento è innesco potente, un ponte verso la trasposizione metamorfica della parola in immagine. L’infinito, per Leopardi, è una percezione che scaturisce dall’incontro con un’area tangibile e circoscritta (il colle di Recanati, la siepe), oltre la quale si staglia la sconfinata ouverture dell’immaginazione, della memoria. Ecco, Giacomelli traduce tale percezione poetica in una precisa tensione fotografica, combinando, da un lato, materie solide e impenetrabili (strade asfaltate, muri, finestre profilate di luce, campi geometricamente arati, linee lignee), dall’altro, suggestioni evanescenti (ombre di solitudini, paesaggi sui quali piovono aghi di luce o bagliori simili a stelle, volti sfocati, stormi di uccelli su sfondi nuvolosi in dissoluzione), queste ultime ottenute grazie all’effetto del mosso o delle doppie esposizioni. L’astrazione è la cifra della serie, che si apre con il bianco assoluto e si chiude con il nero assoluto (per usare le espressioni di Alessandro Giampaoli, uno dei curatori del catalogo uscito, proprio sul lavoro fotografico in commento, per Silvana Editoriale[7]); ma ciascuna delle tinte si definisce attraverso il suo opposto, a testimoniare quella circolarità e quella ciclicità che Giacomelli individua come caratteristiche precipue dell’infinito. Una parete ci stordisce: su di essa campeggiano sedici catture incorniciate, una visione d’insieme lisergica, fatta di righe e geometrie inusuali che si confondono in un’unica figura: il confine. Ma poco più in là, la materia perde peso, il bianco e nero si sfuma, e lo sguardo può tornare, infine, al dolce naufragare. Prima di lasciare la sala, sussurriamo ripetutamente l’ultimo verso della lirica, nella suadente traduzione di Philippe Jacottet: Et m’abîmer m’est doux en cette mer. * Bando è il titolo di una lirica[8] di Sergio Corazzini, poeta amato in gioventù da Giacomelli per la sua tragica vulnerabilità, e alla cui opera complessiva si ispira l’omonima serie in esposizione a Milano. Il lavoro, realizzato fra il 1997 e il 1999, omaggia i temi cari al poeta romano, che hanno a che fare coi tessuti costitutivi dell’essere, come l’innocenza profanata, la malattia, la morte, la fragilità, la preghiera monca al cospetto dell’inaccessibilità di Dio.  La serie (composta da gruppi di quattro opere, lo spazio fra le quali delinea il segno di una croce) ci permette di intravedere nella cattura dei singoli istanti le tracce del rituale cui si consacrava il fotografo prima dello scatto, ossia la fabbricazione concettuale e materiale dell’immagine. Giacomelli, si è poc’anzi osservato, trascorreva ore ad apparecchiare lo spazio, raccimolando materiali e detriti, operando spostamenti, inventando installazioni; tutto allo scopo di aprire un varco che favorisse la connessione fra il mondo esterno e quello intimo che passa attraverso lo spirito, dunque lo sguardo. Uno sguardo visionario, il suo, come si evince dalle immagini astratte e potenti che declinano questa serie; immagini che raffigurano l’ingrandimento del caos della materia, appositamente allestita per la cattura, e successivamente disintegrata, smarginata, e finanche scarabocchiata, in ogni caso sempre manipolata nel rituale postumo della camera oscura, attraverso le tecniche più svariate e l’utilizzo di particolari carte fotografiche.  In un appunto vergato a mano da Giacomelli ed esposto in bacheca, leggiamo:  > “Credo che la stabilità di una immagine sia nello smarrimento del fotografo di > fronte all’oggetto”.  Ma ora, nell’assenza dell’artista, è tutto nostro lo smarrimento al cospetto di immagini che somigliano a lacerti di sogno rappezzati, specchi di un inconscio arreso alla luce. * La serie forse più conosciuta di Giacomelli mutua, invece, il titolo da un verso di Padre David Maria Turoldo, Io non ho mani che accarezzino il volto[9], e ci presenta un simposio di giovani seminaristi ripresi nella loro quotidianità, in attimi di gioco e di danza; da un certa distanza, girotondi di nere talari spiccano a contrasto con la terra innevata ed evocano nugoli di uccelli librati nel cielo. Netta è l’intenzione di Giacomelli di dissacrare la sacralità in favore dell’uomo, denudato sino all’incoscienza del bambino balordo di gioia, facendo a pezzi il simbolo, fotografando l’altro, l’oltre. L’installazione restituisce una dinamica potente, e la circolarità di certi movimenti traccia suggestioni sospese fra il sacro e il profano. L’azione risiede, com’è ovvio, nel movimento dei corpi, ma noi la avvertiamo anche nelle parole, forse persino nelle grida di diletto, che immaginiamo squarciare il silenzio claustrale di una nevicata inattesa, mentre un poeta, “salvatore di ore perdute”[10], da qualche parte si fa silenzioso custode delle solitudini del mondo. * Nella stessa sala dei seminaristi, troviamo il celeberrimo Bambino di Scanno, scatto che appartiene a una collezione esposta al MOMA di New York. Scanno è un borgo abruzzese, fiabesca colonia di case di pietra, scale e angiporti, e meta di artisti del calibro di Henri Cartier-Bresson e Gianni Berengo Gardin (da poco scomparso). Il celebre scatto di Giacomelli raffigura, fra due donne-sentinelle a capo chino, in abiti neri come da usanza, e che sembrano avanzare verso l’esterno dell’inquadratura, un fanciullo con le mani nelle tasche, che si staglia netto nella sfocatura pervasiva dell’immagine. Il colletto della camicia abbacina, creando attorno al corpicino un’aura che si sparge sino ad altre due figure femminili sullo sfondo. E noi che lo guardiamo sappiamo che la solitudine non si confonde mai, salta agli occhi, e illumina i suoi impotenti testimoni.  * C’è poi l’amore, un tema che percorre trasversalmente qualsiasi meditazione. Giacomelli ne fa quasi una composizione teatrale nella serie intitolata A Caroline Branson da Spoon River (1967-1973)[11], ispirata, appunto, all’omonimo componimento di Egard Lee Masters. Il lavoro trae origine da una sceneggiatura di foto-racconto a cura di Luigi Crocenzi, destinata alla televisione. Giacomelli, tuttavia, rifiuta la trasposizione fedele del testo lirico in immagini e, in un secondo momento, riprende le fotografie scattate per il progetto (dal 1971 al 1973), sovvertendole – in particolare, attraverso la tecnica della sovrimpressione – in modo da esprimere un universo emotivo non già supino al testo poetico, ma traslato.  La serie rappresenta una passione amorosa che affonda nei corpi degli amanti e nell’immenso assoluto corpo della Natura. In un sogno di spighe in controluce, oppure al riparo di fronde nerastre, sotto nivee nubi, nella danza fluttuante dei capelli dell’amata[12] e nel moltiplicarsi dei volti, lì pulsano le bocche, gli occhi e gli abbracci degli amanti; pulsano sino alla tragica consapevolezza che “la rapita estasi della carne”[13] un giorno sarà alle loro spalle, “come un cantico finito”[14]. Per questo i duei cuori che un tempo avevano passeggiato “come stelle alla deriva”[15], scelgono il patto mortale: “Uno stelo della sfera terrestre, / fragile come luce stellare, / in attesa di esser di nuovo gettato / nel flusso della creazione”[16].  Una passione, quella narrata in questa serie, che rifiuta le monotone mura di una stanza e la distratta condivisione di un caffè, anche a costo della morte. E di questa passione Giacomelli ci offre, fra le altre, una cattura dall’alto, nella quale campeggiano due vaste bianche stratificazioni, come due morbide onde, cremose, che si inseguono, allo stesso modo in cui, in altri scatti, gli amanti si rincorrono, verso la terra nera, che sembra voler fuoriuscire dall’inquadratura; e, al di sopra, come spesso accade nell’immaginazione del fotografo, al di sopra di ogni delimitazione spaziale, si libra, in un cielo smangiato dai contrasti, un nugolo di uccelli neri, punteggiatura di un confine che si scompagina, come accade talvolta anche all’amore. * Il teatro della neve è il titolo di un componimento di Francesco Permunian[17], due esili terzine che dicono di una solitudine senza sogni, di una rassegnazione e di un “vento malsano [che] “sbatte / e ribatte” giorni che sono “bandiere di sconfitta”. Il poeta ci offre di quei giorni arresi un’immagine icastica, li paragona a “bianchi lenzuoli in un labirinto di specchi”. Giacomelli traduce questi versi in una serie di raffigurazioni il cui l’astrattismo è fatto di rimandi, di richiami simbolici: ci troviamo infatti immersi in un avvicendarsi di paesaggi, spigolosi, geometrici, le cui sembianze sembrano voler suggerire proprio quel gioco di specchi che viene evocato nella lirica. L’uomo è assente, o forse lo si può immaginare come una figura in filigrana sovrapposta a quegli scenari naturali desolati, testimonianza della sua irrimediabile solitudine. Iconico, su tutti, è lo scatto che raffigura alcuni teli così sottili da sembrare garze, appesi a una siepe di rovi, sventolanti in uno squarcio di nubi che abbacinano, e trafitti come da una luce sovrannaturale che ne evidenzia spettrali trasparenze. È lì, al cospetto di quella immagine, che sentiamo anche noi sfilare i giorni, ripetitivi nell’assenza di sogni, e per questo disorientanti, è lì che ci sentiamo in balia, così fragili da poter essere trapassati e lacerati persino da una scheggia di luce. * Muore la madre nel 1986, e la matrice del senso della vita si disfa, i sentimenti e lo sguardo s’interrano. La fotografia di Mario Giacomelli si orienta verso una dimensione ancora più intima, amoreggia con la biografia, s’intrama sempre più nella poesia.  Intorno al 1924, Eugenio Montale scrive una lirica intitolata Felicità raggiunta…[18]; in due sole strofe (composte da cinque versi ciascuna), il poeta restituisce l’essenza del mistero della vita, racchiuso nella perenne inconciliabilità fra la pienezza della felicità, così difficile da raggiungere, e l’inesorabilità di certi dolori, capaci di annientarla, di farne desiderio dimidiato anche nell’istante dell’appagamento. Montale ci offre l’immagine di una disperazione infantile, quella del bambino che vede fuggire il pallone fra le case, e sa di non poterlo più riavere. Giacomelli rovescia la prospettiva e cattura il momento della felicità infantile: il volo indimenticabile dell’altalena, promessa di cielo. Tutto, nello scatto che stiamo osservando, prospetticamente si abbassa, al cospetto della felicità raggiunta: le montagne, la linea spezzata dei tetti di un paese in controluce. Ma occorre il contraltare, poiché la felicità è manichea, la felicità non è senza il suo lato antinomico: intorno all’altalena, altre immagini traducono il peso e la frattura del dolore. E allora ecco che osserviamo un esterno in cui domina la sfumatura di un nero lugubre e lì in mezzo notiamo l’immota e consapevole solitudine di due uccelli appollaitai su rami filiformi, o forse inspiegabilmente sospesi in un nulla. Poi gli occhi deviano sopra un terreno innevato di un bianco arso e abbacinante, crepato e bucherellato, dal quale sorgono vecchie griglie ornamentali abbandonate, in mezzo a tronchi d’alberi. E infine scorgiamo il peso sfumato della pena nell’ombra di una trilogia arborea che sembra tremare su di uno sfondo, ça va sans dire, bianco, ancorché sporcato da un fumo che non ne intacca il dramma.  La felicità spicca nel contrappeso, nella sostanza palingenetica del dolore. * L’ultima serie di cui vogliamo lasciar qui traccia riguarda lo sradicamento, la perdita delle origini che si fa esiziale, come è accaduto, fra gli altri, a Franco Costabile (Sambiase, 27 agosto 1924 – Roma, 14 aprile 1965), poeta meridiano assoluto, “disperato di Sud”, morto suicida a soli quarant’anni. Costabile, calabrese, è il trauma stesso della sua Calabria, il trauma dell’allontanamento forzato. Poesia rabbiosa e tragica, la sua, connotata da uno sguardo sul e nel dramma, che ben si apparenta a quello di Giacomelli.  L’incontro fra i due, in effetti, è fatale: Il canto dei nuovi emigranti[19], inno fluviale e spietato scritto da Costabile nel 1964, narra, attraverso una versificazione convulsa, e l’uso di una lingua scabra ed esatta, la diaspora del grande esodo calabrese del secondo dopoguerra; un esodo che, come è noto, si fece cogente per sfuggire al suicidio di una terra incapace di redenzione, nell’indifferenza barbarica delle istituzioni. Ebbene, quel poema struggente e furioso marchia lo spirito di Giacomelli che decide di visitare i borghi in esso sceneggiati.  Giacomelli s’inerpica così nel buio di un annichilimento apparente, dove l’assenza dell’uomo non è soltanto partenza definitiva, ma sfondo nel quale si vive ancora contro la sgretolazione di una terra misteriosamente ossimorica. Fra segni d’attaccamento e diserzione, fra miseria e generosità, la Calabria di Costabile sfila, implacabile, davanti agli occhi del fotografo, straniato e sospeso nell’immobilità di un tempo quasi morto.  > “Pentedattilo mi ha colpito, perché vedi un paese – dove gente ha vissuto, è > nata, ha sofferto, ha goduto – ora abbandonato. E ricordo di essere stato per > il corso, sembrava tutto abbandonato. Poi sono arrivato in cima a questa > strada, guardo sotto da un belvedere e vedo che avevano piantato > dell’insalatina, cipolle… e allora qualcuno sicuramente era a un passo da me. > Sembrava un posto abbandonato, come chiuso al mondo, e invece ho trovato > inaspettatamente la vita. […] Poi ho voluto passare per il cimitero. Qui ho > trovato ogni loculo d’argento lucido, pulito. Poi i fiori, ho pensato “saranno > di plastica” e invece mi sono avvicinato, li ho toccati, ed erano freschi. E > ho pensato: c’abbiamo messo mezza giornata per arrivare qui e non abbiamo > incontrato una persona, sembrava tutto fermo, tutto morto, e invece c’è vita. > E allora sentivo che c’era qualcosa di strano. Queste montagne con questi > buchi enormi… io cominciavo a vedere nei buchi le persone, nell’immaginazione, > perché: dove erano queste persone? E allora è nato dentro di me qualcosa come > di misterioso, come magico, come tragico, come qualcosa che non sapevo > decifrare. Attraverso le foto vedi queste case che stanno già perdendo > qualcosa, ti accorgi che la muratura e le case stesse stanno quasi per > divenire pietra, cioè divenire montagna, sopraffatte. Il paese si sta > sgretolando. Anche questa luce che ho messo in questa immagine, dà l’idea del > sole che sta corrodendo i buchi delle case, e invece c’è la luna nella notte, > e hanno il sapore della morte.”[20] In queste parole scorgiamo già le immagini ricavate dal vissuto di una quotidianità quasi irreale, in cui l’uomo gravita attorno a un centro di vita fatto di pensieri lenti e desolazione, di costernazione e sorrisi, un centro che è, in realtà, un crinale sul quale la vita lentamente scivola verso una vecchiaia consumata, dove la crudeltà non sopisce il bene della pietra calda cui poggiarsi quando le gambe tremano e negli occhi si annida il buio.  Ecco, allora che, nella sala, si susseguono immagini in cui è ritratto, attraverso inquadrature strette e ravvicinate, un mondo contadino, di cui si intuisce il mormorio affaticato, un mondo in cui si è complici nella miseria e nel dramma. I personaggi che incontriamo – vecchi o bambini, poco importa – abitano spazi decontestualizzati dalla marchiatura abbagliante del flash, sono sagome arrese a un interludio perenne di vita.  Ci soffermiamo davanti al ritratto di Pentedattilo, mucchio di case fortemente inclinate che sembrano collassare verso il centro della terra. Ma forse, ci piace pensare, la rupe sulla quale il borgo sorge è davvero la gigantesca mano a cinque dita di un ciclope, che misericordiosamente sostiene, e proietta verso la sfolgorante promessa del cielo. * Ci fermiamo qui con questa lettura parziale della retrospettiva dedicata a Mario Giacomelli, ospitata nelle sale di Palazzo Reale fino al 7 settembre, sperando di non averne tradito lo spirito.  In ogni caso, noi ne siamo emersi con una convinzione: Mario Giacomelli è come un demone scapigliato che ti viene a cercare in sogno, e ti lascia lì, fra le coperte e la notte, a tremare nel dramma del bianco, e a desiderare paradossalmente l’eterna vedovanza del nero. Non sappiamo se davvero nasca un solo poeta al secolo, come disse quel tale. Quel che è certo è che cent’anni fa ne è nato uno. Maura Baldini -------------------------------------------------------------------------------- [1] Da appunti autografi di poetica, anni Ottanta-Novanta, Archvio Mario Giacomelli, Senigallia, in “Mario Giacomelli – Giacomo Leopardi, l’Infinito, A Silvia”, a cura di Alessandro Giampaoli e Marco Andreni, Silvana Editoriale, pag. 56, figura 62. [2] Ibidem, pag. 56, figura 63. [3] Da un appunto del fotografo inserito fra i lavori fotografici della retrospettiva a Palazzo Reale (Milano). [4] Ibidem (nota 3).  [5] Ibidem (nota 3).  [6] Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete / Io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si spaura. E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei. Così tra questa. / Immensità s’annega il pensier mio: / E il naufragar m’è dolce in questo mare. (Giacomo Leopardi, L’Infinito, da Gli Idilli, 1826) [7] Si cfr. nota 1. [8] Avanti! Si accendano i lumi / nelle sale della mia reggia! / Signori! Ha principio la vendita delle mie idee. /Avanti! Chi le vuole? / Idee originali / a prezzi normali. / Io vendo perché voglio /raggomitolarmi al sole /come un gatto a dormire /fino alla consumazione / de’ secoli! Avanti! L’occasione / è favorevole. Signori, /non ve ne andate, non ve ne andate; vendo a così poco prezzo! / Diventerete celebri / con pochi denari. /Pensate: l’occasione è / favorevole! / Non si ripeterà. Oh! non abbiate timore di offendermi / con un’offerta irrisoria! / Che m’importa della gloria! E non badate, Dio mio, non badate / troppo alla mia voce / piangevole! (Sergio Corazzini, Bando, da Libro per la sera della domenica, 1906) [9] Io non ho mani / che mi accarezzino il volto / (duro è l’ufficio / di queste parole / che non conoscono amori) / non so le dolcezze / dei vostri abbandoni: / ho dovuto essere / custode / della vostra solitudine: / sono salvatore di ore perdute. David Maria Turoldo, Io non ho mani, dalla raccolta Io non ho mani, Bompiani, 1948. [10] Estratto dell’ultimo verso della lirica di David Maria Turoldo, trascritta nella nota precedente. [11] Caroline Branson è il titolo di uno dei componimenti inclusi nella raccolta di Edgard Lee Masters, Antologia di Spoon River, i cui estratti sono qui riportati nella traduzione di Fernanda Pivano (che ha curato l’edizione Einaudi da ultimo ristampata nel 2014). Di seguito il testo integrale: Oh i nostri cuori come stelle alla deriva – se noi avessimo soltanto passeggiato / come un tempo, nei campi d’aprile, finché la luce stellare / con garza invisibile rendesse serico il buio / sotto la balza, nostro luogo di convegno nel bosco, dove il ruscello svolta! dalle carezze passando, / come note di musica che fluiscono insieme, al possesso / nella ispirata improvvisazione d’amore! / per lasciarci alle spalle come un cantico finito / la rapita estasi della carne, / nella quale i nostri spiriti piombassero / dove non c’era il tempo, né lo spazio, né noi – / annientati dall’amore! / Ma lasciare queste cose per una stanza illuminata: / e starcene con il nostro Segreto, beffardo / e nascosto tra fiori e chitarre, / che tutti fissavano fra l’insalata e il caffè. / E vedere lui tremante, e sentire me / presaga, come uno che firma un contratto – / non avvampante di doni e di pegni accumulati / con rosee mani sopra la sua fronte. / E poi, la notte! prefissata! villana! / Ogni nostra carezza cancellata dal possesso, / in una stanza stbilita, in un’ora a tutti nota! / L’indomani sedeva così smarrito, quasi freddo, / così stranamente mutato, chiedendosi perché io piangessi, / finché, presi da nausea disperata e voluttuosa follia, stringemmo il patto mortale. // Uno stelo della sfera terrestre, / fragile come luce stellare, / in attesa di esser di nuovo gettato / nel flusso della creazione. Ma la prossima volta esser creato / assistito da Raffaele e san Francesco / nel momento che passano. / Poiché io sono il loro fratellino, / riconoscibile a viso / dopo un ciclo di nascite a venire. / Potete conoscere la semente e il terreno; / potete sentire la pioggia fredda cadere, / ma soltanto la sfera terrrestre, soltanto il cielo / conoscono il segreto del seme / nella camera nuziale sotto terra. / Gettatemi di nuovo nel flusso, / datemi un’altra prova – / salvami, oh Shelley! [12] I capelli sono quelli della figlia Rita, sovrapposti ad altre immagini. [13] Ibidem (nota 8). [14] Ibidem (nota 8). [15] Ibidem (nota 8). [16] Ibidem (nota 8). [17] Luna vedova per strade di mare / io non ho più sogni da dormire / nel bianco mattatoio di casa mia. // Bianchi lenzuoli in un labirinto di specchi / sono i giorni che un vento malsano sbatte / e ribatte quali bandiere di sconfitta. (Francesco Permunian, Il teatro della neve, da Il teatro della neve. Poesie per Mario Giacomelli 1983-1986, L’Obliquo, 2006) [18] Felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lama. / Agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede, teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti tocchi chi più t’ama. // Se giungi sulle anime invase / di tristezza e le schiari, il tuo mattino / è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. / Ma nulla paga il pianto del bambino / a cui fugge il pallone tra le case. (Eugenio Montale, Felicità raggiunta… da Ossi di seppia, edizione a cura di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely, Mondadori, 2003) [19] Ce ne andiamo. / Ce ne andiamo via. // Dal torrente Aron / Dalla pianura di Simeri. // Ce ne andiamo / con dieci centimetri / di terra secca sotto le scarpe / con mani dure con rabbia con  niente. // Vigna vigna / fiumare fiumare / Doppiando capo Schiavonea. // Ce ne andiamo / dai campi d’erba / tra il grido / delle quaglie e i bastioni. //  Dai fichi / più maledetti / a limite / con l’autunno e con l’Italia. // Dai paesi / più vecchi più stanchi / in cima / al levante delle disgrazie. // Cropani / Longobucco / Cerchiara Polistena / Diamante / Nao / Ionadi Cessaniti / Mammola / Filandari… / Tufi. / Calcarei / immobili / massi eterni / sotto pena di scomunica. // Ce ne andiamo / rompendo Petrace / con l’ultima dinamite. / Senza / sentire più / il nome Calabria / il nome disperazione. // Troppo tempo / siamo stati nei monti / con un trombone fra le gambe. / Adesso / ce ne scendiamo / muti per le scorciatoie. // Dai Conflenti / dalle Pietre Nere da Ardore. // Dal sole di Cutro / pazzo sulla pianura / dalla sua notte, brace di ucccelli. // Troppo tempo / a gridarci nella bettola / il sette di spade / a buttare il re e l’asso. / Troppo tempo / a raccontarci storie / chiamando onore una coltellata / e disgrazia non avere padrone. // Troppo / troppo tempo / a restarcene zitti / quando bisognava parlare, basta. // Noi / vivi / e battezzati / dannati. // Noi / violenti / sanguinari / con l’accetta / conficcata / nella scorza / dei mesi degli anni. / Noi / morti / ce ne andiamo / in piedi / sulla carretta. / Avanzano le ruote / cantano i sonagli verso i confini. // Via! / Via / dai feudi / dagli stivali dai cani / dai larghi mantelli. // Ussahè… / Via / Via! / Via / dai baroni. / I Lucifero / I conti Capialbi / I Sòlima gli Spada / I Ruffo / I Gallucci. // Usciamo / dai bassi terranei / dal sudario / dei loro trappeti / dai parmenti / della vendemmia / profondi / a lume di candela / e senza respirazione. // Via / dai Pretori / dalla Polizia / dagli uomini d’onore. / Non chiamateci. / non richiamateci. // È scritto / nei comprensori / È scritto / nei fossi nei canali /È scritto / in centomila rettangoli / alto / su due pali / Cassa del Mezzogiorno / ma io non so / che cosa / si stia costruendo / se la notte / o il giorno. // Ci sono raffiche / su vecchie facciate / che nessuno leva: l’occhio / del Mitra / è più preciso / del filo a piombo della Rinascita. // Addio, / terra. / Terra mia / lunga / silenziosa. // Un nome / non lo ebbe / la gioventù / non stanchiamoci / adesso / che ci chiamano col proprio cognome. // Noi // Noi / ce ne siamo / già andati. / Dai Catoi / dagli sterchi orizzonti. // Da Seminara / dalle civette di Cropalati. // Dai figli / appena nati / inchiodati nella madia / calati / dalle frane / dall’Aspromonte / dei nostri pensieri. / Spegnete / le lampadine della piazza. // Scordiamoci / delle scappellate / dei sorrisi / dei nomi segnati /e pronunciati per trentasei ore. // Cassiani / Cassiani / Cassiani // Cassiani / Foderaro Galati / Foderaro / Antoniozzi / Antoniozzi / Cassiani / Cassiani / La croce / sulla croce, /diceva l’arciprete. / E una croce / sulla croce, / segnavano le donne. / andavano / e venivano. /Foderaro / Antoniozzi / Antoniozzi // È stato / sempre silenzio. // Silenzio / duro / della Sila /delle sue nevicate a lutto. // È stato /il pane a credenza / portato /sotto lo scialle /all’altezza del cuore. / Sono stati / i nostri occhi stanchi / guardando / le finestre illuminate / della prefettura. // Carabinieri, / fermatevi. / Guardate, / giratevi / non c’è nemmeno un cane. / Siamo / tutti lontani  / latitanti. // Fermatevi. / Restano / gli zapponi / dietro la porta, / i cieli, / i vigneti. / La pietra / di sale sulla tavola. // I vecchi / che non si muovono / dalla sedia, soli / con la peronospera nei polmoni. // Le capre / la voce lunga / degli ultimi maiali scannati. / L’argento / a forma di cuore, nella chiesa. // Le ragnatele / dietro i vetri, le madonne. / La ragnatela del Carmine /la ragnatela di Portosalvo / la ragnatela della Quercia. / Restano le donne /consumate da nove a nove mesi / con le macchie / della denutrizione / della fame. / Le addolorate / Le pietà di tutti gli ulivi. // Lavando / rattoppando / cucinando su due mattoni / raccogliendo / spine e cicoria. // Cancellateci / dall’esattoria. / Dai municipi / dai registri / dai calamai / della nascita. // Levateci // Scioglieteci / dai limoni / dai salti / del pescespada. / Allontanateci / da Palmi e da Gioia. // Noi / vivi / Noi / morti / presi e impiccati / cento volte / ce ne siamo già andati / staccandosi dai rami / dai manifesti della repubblica. // Di notte / come lupi / come contrabbandieri / come ladri. // Senza un’idea dei giorni/ delle ciminiere degli altiforni. // Siamo / in 700 mila / su appena due milioni. / Siamo / i marciapiedi / più affollati. / Siamo / i treni più lunghi. / Siamo / le braccia / le unghie d’Europa. / Il sudore Diesel. / Siamo / il disonore / la vergogna dei governi. // Il Tronco / di quercia bruciata / il munumento al Minatore Ignoto. // Siamo / l’odore / di cipolla / che rinnova / le viscere d’Europa. / Siamo /un’altra volta / la fantasia / il 1° giorno di scuola / senza matita / senza quaderno / senza la camicia nuova. // Toglieteci / dalle galere. / Non ubriacateci. // Liberateci / dai coltelli di Gizzeria / dal sangue dei portoni. / Non chiamateci / da Scilla / con la leggenda del sole / del cielo / e del mare. // Siamo / bene legati / a una vita / a una catena di montaggio / degli dei. // Milioni di macchine / escono targate Magna Grecia. / Noi siamo / le giacche appese / nelle baracche nei pollai d’Europa. // Addio / terra. / Salutiamoci, / è ora. (Franco Costabile, Il canto dei nuovi emigranti, Jaka Book, 1989) [20] Mario Giacomelli, in una video-intervista di E. Castagna, tratta dal sito internet archiviomariogiacomelli.it *Nel testo: fotografie di Mario Giacomelli tratte dalla mostra in atto a Palazzo Reale, Milano; in copertina: Mario Giacomelli a Senigallia, photo Giovanna Calvenzi, Archivio Mario Giacomelli L'articolo “Nello smarrimento”. Mario Giacomelli, il demone scapigliato che ti viene a cercare in sogno proviene da Pangea.
August 29, 2025 / Pangea