Lunga puntata dedicata ad un racconto, attraverso molti report di 7amleh -
centro di ricerca arabo sui social media - e non solo, dell'uso della tecnologia
da parte di Israele come strumento di oppressione e di genocidio.
Il primo frammento di audio è dedicato al tema della distruzione
dell'infrastruttura di rete; e alle difficoltà di comunicazione delle persone
palestinesi in un contesto di censura che, in più, richiede a chi subisce un
genocidio di performare il ruolo della vittima nei modi richiesti dai social
media.
Proseguiamo con una rassegna delle tecnologie militari che non sarebbero
possibili senza il coinvolgimento delle solite grandi imprese.
Infine, risultati delle campagne di boicottaggio e lotte per fermare i rapporti
tra queste aziende e Israele.
Ascolta l'audio nel sito di Radio Onda Rossa
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L’azienda Usa è privata ma lavora per i governi.
Il potere, militare e non, oggi parla in codice. Palantir, la società fondata
vent’anni fa a Palo Alto, è diventata la piattaforma che governi e eserciti
usano per mettere ordine nel caos dei dati. Non produce armamenti, ma costruisce
il software che li guida, nelle missioni e nelle decisioni. Ma soprattutto è lo
strumento attraverso cui Peter Thiel, imprenditore e investitore, allarga la sua
influenza sulla politica di Washington e sulla nuova amministrazione Trump.
Un unicum diventato imprescindibile per ogni esercito. I prodotti principali di
Palantir hanno nomi evocativi, funzionali per far comprendere in fretta la loro
utilità marginale. Gotham, usato da intelligence e forze armate, integra basi
dati classificate e scenari operativi. Foundry, pensato per imprese e
amministrazioni civili, costruisce copie digitali dei processi per ottimizzare
logistica, forniture, ospedali. Apollo gestisce la distribuzione del software
anche su reti isolate e ambienti critici. L’ultima evoluzione è AIP, la
piattaforma che incapsula modelli di intelligenza artificiale nei contesti più
sensibili, evitando fughe di dati e garantendo tracciabilità. L’obiettivo è
ridurre la distanza tra analisi e decisione, riducendo i rischi collaterali.
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In nemmeno 50 anni le aziende della Silicon Valley sono passate dal sognare la
pace al realizzare sistemi in grado di sorvegliare silenziosamente qualsiasi
smartphone e sistemi d’arma automatici che uccidono con un minimo o nessun
intervento umano, i “killer robots”. E sembrano ben felici di mettere queste
tecnologie a disposizione di nazioni in guerra e dittatori alla ricerca di
sistemi di controllo del dissenso. La rubrica di Stefano Borroni Barale
Qui in Italia non è così noto, ma la controcultura hippie degli anni Sessanta,
di cui San Francisco era divenuta la capitale, è stata uno degli ingredienti che
ha contribuito, nel decennio successivo, alla creazione di quei gruppi di
appassionati di elettronica, come l’Homebrew computer club, in cui hanno mosso i
primi passi personaggi come Steve Wozniack e Steve Jobs, i fondatori della
Apple.
Il sogno naïf di quella generazione era che i piccoli personal computer
avrebbero distribuito il potere di calcolo, cambiando la società. Il poeta
Richard Brautigan arrivò a cantare di questa utopia nel suo poema del 1967 “All
watched over by machines of loving grace” che conobbe per questo una discreta
fortuna.
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Edward Snowden, la gola profonda che nel 2013 ha svelato il programma di
sorveglianza di massa organizzato dall’agenzia di spionaggio civile degli Stati
Uniti, sosteneva che la macchina della tirannia automatizzata fosse già pronta e
che fossimo a un giro di chiave dal suo avviamento. Gli eventi recenti negli Usa
sembrano tristemente confermare questa profezia. E in Europa?
“Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. Non voglio che
scacciate i tiranni e li buttiate giù dal loro trono; basta che non li
sosteniate più, e li vedrete crollare, […] come un colosso a cui sia stato tolto
il basamento”. Étienne de La Boétie, “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576.
Giorgio vive a Roma ed è un militante a tempo pieno. Fa parte di un sindacato di
base della scuola, è segretario del circolo di uno dei tanti partiti della
diaspora della sinistra, è femminista, appassionato praticante dell’inclusione
dei suoi allievi con disabilità e non. La sua vita, a parte i rari momenti in
cui riposa o in cui si dedica ai suoi genitori molto anziani, è dedicata a
cercare di ricostruire quel “tessuto collettivo” in cui è cresciuto, negli anni
tra il sessantotto e il settantasette, e che lo ha visto prendere parte poi,
giovanissimo, al movimento ecologista e nonviolento dei primi anni 80.
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