LA DENUNCIA DELLE ASSOCIAZIONI PER I DIRITTI DIGITALI «Vengono utilizzati per
facilitare gli omicidi indiscriminati» nella Striscia
Sì, anche i dati. Fornisce soldi e armi per il genocidio, aiuta nella ricerca di
nuovi strumenti per lo sterminio. Ma questo lo sanno tutti, lo conferma la «non
sospensione» dell’accordo di associazione di poche settimane fa. Pochi, però,
sanno che l’Europa fa di più: fornisce, “regala” ad Israele anche i dati dei
suoi cittadini. Che in qualche modo aiutano quel genocidio, sono un “pezzo” del
genocidio.
BENINTESO, la notizia non è nuova. Perché in Europa funziona così: c’è il Gdpr –
la più avanzata delle leggi in materia di privacy e che, non a caso,
infastidisce il comitato di big tech che governa gli Usa – che regola e vieta
nel vecchio continente l’estrazione delle informazioni sugli utenti digitali.
Nel resto del mondo però non ci sono le stesse norme. Così l’Europa – quando i
diritti contavano, all’epoca di Rodotà per capirci – decise che i dati personali
potevano essere trattati da paesi extra europei solo se garantivano gli stessi
standard, la stessa protezione.
Un tema delicatissimo – lo si intuisce – perché i server dei colossi digitali
più usati hanno tutti sede negli States, dove le leggi in materia semplicemente
non esistono. E questo ha dato vita a molti contenziosi, per ora tutti vinti dai
difensori dei diritti, l’ultimo dei quali deve ancora concludere il suo iter.
Ma questo è un altro discorso. Qui si parla di Israele. Otto mesi dopo l’avvio
delle stragi a Gaza, 50 associazioni si rivolsero alla commissione di Bruxelles
perché era già evidente che non esistessero più le condizioni – se mai ci
fossero state – per definire «adeguata» la protezione dei dati europei in
Israele. Di più: le organizzazioni rammentavano che la reciprocità nell’uso dei
dati può avvenire solo – è scritto testualmente – con paesi e governi che
assicurino il «rispetto dei diritti umani».
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Tag - GDPR
Long story short: l'8 marzo 2024 la Commissione Europea, con il supporto
dell'EDPB, il Garante Europeo, ha riscontrato una serie di criticità e
violazioni, 180 pagine per descrivere minuziosamente le ragioni per le quali
office356 fa talmente schifo da non poter essere utilizzato dagli enti,
istituzioni e organi dell'Unione Europea.
Dopo varie interlocuzioni e modifiche, l'11 luglio l'EDPB ha chiuso l'indagine
confermando la risoluzione delle problematiche precedentemente riscontrate.
Oggi, 28 luglio, la Commissione Europea ha emanato un comunicato dichiarando la
conformità di Microsoft 365 alla normativa in materia di protezione dei dati
applicabile (che non è il GDPR ma quasi... qui si applica il regolamento UE
2018/1725)
L'EDPS (che non è l'EDPB ma quasi) ha eslamato giubilante:
"Grazie alla nostra indagine approfondita e al seguito dato dalla Commissione,
abbiamo contribuito congiuntamente a un significativo miglioramento della
conformità alla protezione dei dati nell'uso di Microsoft 365 da parte della
Commissione. La Corte riconosce e apprezza inoltre gli sforzi compiuti da
Microsoft per allinearsi ai requisiti della Commissione derivanti dalla
decisione del GEPD del marzo 2024. Si tratta di un successo significativo e
condiviso e di un segnale forte di ciò che può essere conseguito attraverso una
cooperazione costruttiva e una vigilanza efficace."
Cosa è successo? Cosa potrà mai essere accaduto, nel frattempo, per consentire a
Microsoft Office365 di entrare trionfante nel valhalla, accompagnato dalla
immortale musica di Wagner?
Perché non mi sento affatto tranquillo? Beh, forse io non faccio testo...
Leggi l'articolo di Christian Bernieri
Il direttore degli affari pubblici e giuridici di Microsoft Francia ha
dichiarato, di fronte a una commissione del Senato francese, che l'azienda non
può garantire che i dati dei cittadini francesi custoditi sui server in Europa
non verranno trasmessi al governo statunitense. Si tratta di una dichiarazione
estremamente importante, in particolare nell'ambito del dibattito attuale legato
alla sovranità digitale europea.
Era il 10 giugno scorso quando Anton Carniaux, direttore degli affari pubblici e
giuridici per Microsoft Francia, ha testimoniato di fronte al Senato francese
per parlare degli ordini che l'azienda riceve tramite l'Union des groupements
d'achats publics (UGAP), ovvero un ente che si occupa di centralizzare
l'acquisto di beni e servizi per scuole e comuni.
Carniaux ha affermato, durante la sua testimonianza, che Microsoft non può
garantire che i dati dei cittadini francesi non vengano trasferiti verso gli USA
a seguito di una richiesta del governo statunitense, ma altresì che una tale
richiesta di trasferimento non è mai avvenuta. Il CLOUD Act, diventato legge nel
2018, fa infatti sì che il governo statunitense possa richiedere accesso ai dati
contenuti nei data center delle aziende americane, anche quando tali dati sono
fisicamente localizzati in altri Paesi.
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Per conformarsi a un ordine esecutivo del presidente americano Donald Trump, nei
mesi scorsi Microsoft ha sospeso l’account email di Karim Khan, procuratore
della Corte penale internazionale che stava investigando su Israele per crimini
di guerra. Per anni, scrive il New York Times, Microsoft ha fornito servizi
email al tribunale con sede a L’Aja, riconosciuto da 125 paesi tra cui l’Italia
(ma non da Stati Uniti, Israele, Cina, Russia e altri).
All’improvviso, il colosso di Redmond ha staccato la spina al magistrato per via
dell’ordine esecutivo firmato da Trump che impedisce alle aziende americane di
fornirgli servizi: secondo il successore di Biden, le azioni della Corte contro
Netanyahu “costituiscono una inusuale e straordinaria minaccia alla sicurezza
nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”. Così, di punto in bianco,
il procuratore non ha più potuto comunicare con i colleghi.
[...]
Le conseguenze non si sono fatte attendere. Tre dipendenti con contezza della
situazione hanno rivelato al quotidiano newyorchese che alcuni membri dello
staff della Corte si sarebbero rivolti all’azienda svizzera Protonmail per poter
continuare a lavorare in sicurezza. Il giornale non chiarisce il perché della
decisione, né se tra essi vi sia lo stesso Khan. Una conferma al riguardo arriva
dall’agenzia Associated Press. Protonmail, contattata da Guerre di Rete, non ha
commentato, spiegando di non rivelare informazioni personali sui clienti per
questioni di privacy e di sicurezza.
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Meta AI è comparsa su WhatsApp senza preavviso, generando polemiche e
preoccupazioni sulla privacy. Inoltre, l’assistente virtuale introdotto
forzatamente dal gruppo Zuckerberg non può essere disattivato e fornisce
istruzioni fuorvianti per la rimozione.
Avete notato quel pulsantino bianco con un cerchio blu comparso di recente nella
schermata di Whatsapp sul vostro smartphone? Si tratta dell’icona di Meta AI,
l’intelligenza artificiale sviluppata dal gruppo di Mark Zuckerberg. Il sistema,
progettato per essere semplice e intuitivo, garantisce un accesso immediato alla
chatbot, la finestra di conversazione alimentata da Llama 3.2, la versione più
avanzata di AI di Meta, dotata di capacità multimodali.
Violazione della privacy?
Nulla di male, in apparenza. Il problema è che Meta AI è entrato a far parte
della nostra quotidianità, su milioni di schermi, senza alcuna notifica
preventiva, né esplicito consenso.
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Edward Snowden, la gola profonda che nel 2013 ha svelato il programma di
sorveglianza di massa organizzato dall’agenzia di spionaggio civile degli Stati
Uniti, sosteneva che la macchina della tirannia automatizzata fosse già pronta e
che fossimo a un giro di chiave dal suo avviamento. Gli eventi recenti negli Usa
sembrano tristemente confermare questa profezia. E in Europa?
“Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. Non voglio che
scacciate i tiranni e li buttiate giù dal loro trono; basta che non li
sosteniate più, e li vedrete crollare, […] come un colosso a cui sia stato tolto
il basamento”. Étienne de La Boétie, “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576.
Giorgio vive a Roma ed è un militante a tempo pieno. Fa parte di un sindacato di
base della scuola, è segretario del circolo di uno dei tanti partiti della
diaspora della sinistra, è femminista, appassionato praticante dell’inclusione
dei suoi allievi con disabilità e non. La sua vita, a parte i rari momenti in
cui riposa o in cui si dedica ai suoi genitori molto anziani, è dedicata a
cercare di ricostruire quel “tessuto collettivo” in cui è cresciuto, negli anni
tra il sessantotto e il settantasette, e che lo ha visto prendere parte poi,
giovanissimo, al movimento ecologista e nonviolento dei primi anni 80.
Leggi l'articolo di Stefano Borroni Barale
La dipendenza europea dall’infrastruttura cloud americana solleva preoccupazioni
sulla sicurezza. Il Cloud Act permette agli USA di accedere ai dati globali,
mettendo a rischio la privacy e la sicurezza nazionale dell’Europa
Cinque settimane di Donald Trump e gli europei stanno scoprendo per la prima
volta quello che Vasco cantava 46 anni fa: non siamo mica gli americani. E non
solo non siamo gli americani, improvvisamente scopriamo che i loro interessi non
coincidono con i nostri. E non solo i loro interessi non coincidono con i
nostri, presto scopriremo che spesso sono opposti.
Indice degli argomenti
* La fine dell’alleanza transatlantica e le conseguenze per l’Europa
* L’incontro Trump-Zelensky e la vera natura della politica estera americana
* Terre rare: l’estorsione di Trump all’Ucraina e il destino dell’Europa
* Il problema dell’infrastruttura cloud e la dipendenza europea dagli Usa
* Il Gdpr e i fallimenti degli accordi per la protezione dei dati
* La soluzione per liberarsi dal cloud americano
* Il ritorno all’hosting come alternativa praticabile
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Dopo le rivelazioni di Snowden, sappiamo che gli Stati Uniti sono impegnati
nella sorveglianza di massa degli utenti dell'UE, raccogliendo dati personali
dalle Big Tech statunitensi. Il "Privacy and Civil Liberties Oversight Board"
(PCLOB) è la principale autorità di controllo statunitense per queste leggi. I
media statunitensi riportano orache i membri democratici del PCLOB sono stati
rimossi e i loro account di posta elettronica sono stati chiusi. Questo porta il
numero di membri nominati al di sotto della soglia necessaria per il
funzionamento del PCLOB. Il fatto che il Presidente degli Stati Uniti abbia
semplicemente rimosso delle persone da un'autorità (presumibilmente)
indipendente, mette in dubbio l'indipendenza di tutti gli altri organi di
ricorso esecutivo negli Stati Uniti.
L'Unione europea si è basata su queste commissioni e tribunali statunitensi per
ritenere che gli Stati Uniti offrano una protezione "adeguata" dei dati
personali. Basandosi sul PCLOB e su altri meccanismi, la Commissione europea
permette ai dati personali europei di fluire liberamente verso gli Stati Uniti
nel cosiddetto "Quadro transatlantico sulla privacy dei dati" (TADPF). Il PCLOB
è l'unico elemento di "supervisione" rilevante dell'accordo. Gli altri elementi
fungono solo da organi di ricorso. Migliaia di aziende, agenzie governative o
scuole dell'UE fanno affidamento su queste disposizioni. Senza il TADPF,
dovrebbero smettere immediatamente di utilizzare i fornitori di cloud
statunitensi come Apple, Google, Microsoft o Amazon.
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La Commissione irlandese per la protezione dei dati (Dpc) ha emesso una sanzione
di 251 milioni di euro nei confronti di Meta, la società madre di Facebook, per
aver trasgredito le normative europee sulla privacy dei dati (Gdpr).
La multa, annunciata martedì 17 dicembre, è il risultato di un’indagine su una
violazione di sicurezza risalente a luglio 2017, che ha compromesso oltre tre
milioni di account nel territorio dell’Unione Europea.
“Gli individui sono stati esposti a rischi significativi per i loro diritti
fondamentali a causa della mancata integrazione dei requisiti di protezione dei
dati”, ha affermato Graham Doyle, vice commissario del Dpc irlandese.
La falla è stata causata da un errore di progettazione nella piattaforma
Facebook, che ha consentito a soggetti non autorizzati di accedere a profili
utente non altrimenti visibili.
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Sta circolando un’accusa pesante che riguarda il popolarissimo software Word di
Microsoft: userebbe i testi scritti dagli utenti per addestrare l’intelligenza
artificiale dell’azienda. Se l’accusa fosse confermata, le implicazioni in
termini di privacy, confidenzialità e diritto d’autore sarebbero estremamente
serie.
Questa è la storia di quest’accusa, dei dati che fin qui la avvalorano, e di
come eventualmente rimediare. Benvenuti alla puntata del 25 novembre 2024 del
Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie
e alle storie strane dell’informatica.
Le intelligenze artificiali hanno bisogno di dati sui quali addestrarsi. Tanti,
tanti dati: più ne hanno, più diventano capaci di fornire risposte utili.
Un’intelligenza artificiale che elabora testi, per esempio, deve acquisire non
miliardi, ma migliaia di miliardi di parole per funzionare decentemente.
Procurarsi così tanto testo non è facile, e quindi le aziende che sviluppano
intelligenze artificiali pescano dove possono: non solo libri digitalizzati ma
anche pagine Web, articoli di Wikipedia, post sui social network. E ancora non
basta. Secondo le indagini del New York Times, OpenAI, l’azienda che sviluppa
ChatGPT, aveva già esaurito nel 2021 ogni fonte di testo in inglese
pubblicamente disponibile su Internet.
Per sfamare l’appetito incontenibile della sua intelligenza artificiale, OpenAI
ha creato uno strumento di riconoscimento vocale, chiamato Whisper, che
trascriveva il parlato dei video di YouTube e quindi produceva nuovi testi sui
quali continuare ad addestrare ChatGPT. Whisper ha trascritto oltre un milione
di ore di video di YouTube, e dall’addestramento basato su quei testi è nato
ChatGPT 4.
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