Una settimana di sentenze per il mondo della silicon valley, tanto in Europa
quanto negli Usa. Nonostante Google prenda una multa da quasi 3 miliardi di
dollari per abuso di posizione dominante, non si può lamentare: il "rischio"
antitrust è scongiurato, e l'Unione Europea si mostra più tenera del solito.
Infatti nonostante negli Usa Google sia riconosciuto come monopolista nel
settore delle ricerche sul Web, il giudice ha valutato di dare dei rimedi
estremamente blandi, molto lontani da quelli paventati. Ricordiamo che si era
parlato addirittura di obbligare Google a vendere Chrome.
Anche nell'Ue i giudici sono clementi. Il caso Latombe, che poteva diventare una
sorta di Schrems III, non c'è stato: la corte ha dichiarato che il Data
Protection Framework è valido, e che quindi la cessione di dati di cittadini Ue
ad aziende Usa è legale. È un grosso passo indietro nel braccio di ferro interno
all'unione europea tra organismi che spingevano per questa soluzione (la
Commissione) e altri che andavano in senso opposto (la Corte di Giustizia).
Difficile pensare che i recenti accordi sui dazi non c'entrino nulla.
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Il Tribunale dell’Unione europea, con sentenza del 3 settembre, ha respinto il
ricorso del deputato francese Philippe Latombe diretto ad annullare il nuovo
quadro normativo per il trasferimento dei dati personali tra la UE e gli USA.
Non si sono fatte attendere le prime reazioni alla sentenza.
Il team legale di Latombe ha scelto un ricorso piuttosto mirato e ristretto
contro l'accordo sui dati UE-USA. Sembra che, nel complesso, il Tribunale non
sia stato convinto dalle argomentazioni e dai punti sollevati da Latombe.
Tuttavia, ciò non significa che un'altra contestazione, che contenga una serie
più ampia di argomenti e problemi relativi all'accordo, non possa avere
successo. Latombe potrebbe anche decidere di appellare la decisione alla CGUE,
che (a giudicare dalle precedenti decisioni in "Schrems I" e "Schrems II")
potrebbe avere un'opinione diversa da quella del Tribunale.
Max Schrems, fondatore di NOYB – European Center for Digital Rights, ha
dichiarato: "Si è trattato di una sfida piuttosto ristretta. Siamo convinti che
un esame più ampio della legge statunitense, in particolare dell'uso degli
ordini esecutivi da parte dell'amministrazione Trump, produrrebbe un risultato
diverso. Stiamo valutando le nostre opzioni per presentare tale ricorso".
Sebbene la Commissione abbia guadagnato un altro anno, manca ancora la certezza
del diritto per gli utenti e le imprese"
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Lo ha deciso un giudice al termine di una lunga battaglia legale in cui
l'azienda era accusata di aver violato le leggi sulla concorrenza
Un giudice statunitense ha deciso che Google non dovrà vendere il suo browser
Chrome, come aveva invece richiesto il dipartimento della Giustizia
statunitense, che accusava l’azienda di aver violato le norme su monopoli e
concorrenza. Il processo era iniziato nel 2019 e ad agosto del 2024 Google era
stata dichiarata colpevole, ma la pena è stata stabilita solo martedì.
Chrome rappresenta il 60 per cento del mercato globale dei browser, con circa
3,5 miliardi di utenti: quasi tutti usano il motore di ricerca Google, tramite
cui l’azienda guadagna con la vendita di inserzioni pubblicitarie.
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Il prossimo caso “Schrems III” del 3 settembre 2025 potrebbe invalidare l’EU–US
Data Privacy Framework (DPF), interrompendo nuovamente i trasferimenti di dati
tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti e costringendo le imprese a ricorrere a
soluzioni alternative come le Clausole Contrattuali Standard e le Transfer
Impact Assessments, creando un potenziale momento di panico per molte aziende.
Il 3 settembre 2025 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) emetterà la
propria sentenza nel caso Latombe vs Commissione Europea. In gioco c’è il futuro
dell’EU–US Data Privacy Framework, la decisione di adeguatezza adottata nel
luglio 2023 per ripristinare una base giuridica stabile ai flussi di dati
transatlantici. Se il framework dovesse essere annullato, le aziende si
troverebbero nuovamente ad affrontare l’incertezza regolatoria e operativa che
aveva caratterizzato la decisione Schrems II del 2020. Molti parlano già di
questo scenario come di un “Schrems III”.
Perché il DPF è sotto attacco nel caso Latombe vs Commissione Europea
Il ricorso è stato presentato nel settembre 2023 da Philippe Latombe, deputato
francese, che ha contestato direttamente la decisione di adeguatezza della
Commissione ai sensi dell’articolo 263 TFUE. A differenza di Schrems I e II, che
arrivarono alla CGUE tramite giudizi nazionali e rinvii pregiudiziali, questo
caso prende di mira direttamente la decisione, con la possibilità di accelerare
il controllo giudiziario.
Secondo Latombe, il DPF non garantirebbe una protezione “sostanzialmente
equivalente” per i cittadini europei, come richiesto dall’articolo 45 GDPR e
dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Quali sono i principali argomenti del ricorso e quali i possibili scenari?
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Il direttore degli affari pubblici e giuridici di Microsoft Francia ha
dichiarato, di fronte a una commissione del Senato francese, che l'azienda non
può garantire che i dati dei cittadini francesi custoditi sui server in Europa
non verranno trasmessi al governo statunitense. Si tratta di una dichiarazione
estremamente importante, in particolare nell'ambito del dibattito attuale legato
alla sovranità digitale europea.
Era il 10 giugno scorso quando Anton Carniaux, direttore degli affari pubblici e
giuridici per Microsoft Francia, ha testimoniato di fronte al Senato francese
per parlare degli ordini che l'azienda riceve tramite l'Union des groupements
d'achats publics (UGAP), ovvero un ente che si occupa di centralizzare
l'acquisto di beni e servizi per scuole e comuni.
Carniaux ha affermato, durante la sua testimonianza, che Microsoft non può
garantire che i dati dei cittadini francesi non vengano trasferiti verso gli USA
a seguito di una richiesta del governo statunitense, ma altresì che una tale
richiesta di trasferimento non è mai avvenuta. Il CLOUD Act, diventato legge nel
2018, fa infatti sì che il governo statunitense possa richiedere accesso ai dati
contenuti nei data center delle aziende americane, anche quando tali dati sono
fisicamente localizzati in altri Paesi.
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Il 6 febbraio 2025 il presidente USA Donald Trump ha imposto una serie di
sanzioni alla Corte penale internazionale per le indagini su personale
statunitense e su alcuni alleati, incluso Israele. Le sanzioni sono state
applicate non con una legge, ma con un executive order — una sorta di “potere
speciale” che il presidente USA può utilizzare in casi di estrema gravità senza
dover passare prima dal Parlamento.
In sintesi, dunque, a prescindere dalla possibilità di un controllo da parte
delle corti USA e non di quelle dei Paesi UE, il dato di fatto —e di diritto— è
che l’esecutivo può decidere di bloccare la funzionalità dei servizi erogati da
Big Tech e ha il diritto, o meglio, il potere, di prendere i dati localizzati
nell’Unione.
Al netto delle sottigliezze del linguaggio diplomatico, infatti, in nessuno di
questi accordi è previsto che la UE possa avere voce in capitolo nelle scelte di
homeland security e di politica internazionale degli USA. Dunque, non si capisce
quale sia l’utilità di avere incluso nel regolamento sulla protezione dei dati
personali delle norme da applicare direttamente in altri Paesi quando questi,
come da ultimo dimostra il caso DeepSeek, possono tranquillamente ignorarle in
nome del principio dell’autonomia delle giurisdizioni.
I fatti e la storia hanno dimostrato come free software e open source
rappresentano un modello alternativo ed efficace per la gestione della sovranità
su dati, informazioni e programmi.
Utilizzare questo approccio alla proprietà intellettuale consente di avere il
controllo pieno sul modo in cui funzionano le infrastrutture e di alimentare la
creazione di un mercato dei servizi alle istituzioni pubbliche e private che non
dipende necessariamente da soggetti stranieri, e lascia le risorse investite nel
territorio della UE.
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Quando a fine anni ’80 Deng Xiaoping affermò che “il Medio Oriente ha il
petrolio, la Cina le terre rare”, in pochi diedero il giusto peso alla
dichiarazione dell’allora leader della Repubblica Popolare cinese.
Come invece sempre più spesso accade, il Dragone asiatico dimostrò di avere la
capacità di immaginare e mettere in atto strategie di lungo termine: le terre
rare, infatti, rappresentano oggi uno dei maggiori motivi di frizione
geopolitica nel mondo, a causa dell’elevata richiesta e del loro complesso
approvvigionamento, di cui la Cina detiene il monopolio.
Praticamente nessun settore industriale ad alta tecnologia può farne a meno, da
quello militare – per missili guidati, droni, radar e sottomarini – a quello
medico, in cui sono impiegate per risonanze magnetiche, laser chirurgici,
protesi intelligenti e molto altro ancora.
Non fa eccezione il settore tecnologico e in particolare quello legato allo
sviluppo e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Come spiega Marta Abbà,
fisica e giornalista esperta di temi ambientali, le terre rare possiedono
qualità magnetiche uniche e sono eccellenti nel condurre elettricità e resistere
al calore, e anche per questo risultano essenziali per la fabbricazione di
semiconduttori, che forniscono la potenza computazionale che alimenta l’AI, per
le unità di elaborazione grafica (GPU), per i circuiti integrati specifici per
applicazioni (ASIC) e per i dispositivi logici programmabili (FPGA, un
particolare tipo di chip che può essere programmato dopo la produzione per
svolgere funzioni diverse).
Sono inoltre cruciali per la produzione di energia sostenibile: disprosio,
neodimio, praseodimio e terbio, per esempio, sono essenziali per la produzione
dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche.
Senza terre rare, quindi, si bloccherebbe non solo lo sviluppo dell’intelligenza
artificiale, ma anche quella transizione energetica che, almeno in teoria,
dovrebbe accompagnarne la diffusione rendendola più sostenibile. Insomma, tutte
le grandi potenze vogliono le terre rare e tutte ne hanno bisogno, ma pochi le
posseggono.
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Da culla del progressismo a cuore dell’industria bellica a stelle e strisce:
Meta, OpenAI, Microsoft, Anduril e l’inarrestabile crescita della defence tech.
“C’è un sacco di patriottismo che è stato a lungo tenuto nascosto e che adesso
sta venendo alla luce”, ha spiegato al Wall Street Journal, Andrew Bosworth,
direttore tecnico di Meta.
Bosworth – assieme a Kevin Weil e Bob McGrew, rispettivamente responsabile del
prodotto ed ex responsabile della ricerca di OpenAI, ai quali si aggiunge Shyam
Sankar, direttore tecnico di Palantir – è infatti uno dei quattro dirigenti tech
assoldati in quello che è stato ironicamente chiamato “Army Innovation Corps” -
Corpo degli ingegneri degli Stati Uniti (il nome ufficiale del programma è
Detachment 201).
Il clima che si respira oggi nella Silicon Valley è molto differente, la
maschera progressista che le Big Tech hanno a lungo indossato è stata infine
calata (come mostrato plasticamente dall’ormai storica foto che ritrae i
principali “broligarchs” celebrare l’insediamento di Donald Trump), e adesso
nessuno sembra più farsi scrupoli a seguire la strada tracciata dalle due più
note realtà del settore “defence tech”: Palantir e Anduril, aziende fondate
rispettivamente dall’eminenza grigia della tech-right Peter Thiel e dal
guerrafondaio Palmer Luckey (già noto per aver fondato Oculus, poi acquistata da
Meta, e per rilasciare dichiarazione come: “Vogliamo costruire tecnologie che ci
diano la capacità di vincere facilmente ogni guerra”).
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L’ascesa di Palantir, la controversa azienda di sorveglianza co-fondata da Peter
Thiel e guidata da Alex Karp, sta ridefinendo il rapporto tra tecnologia,
governo e sorveglianza. L’azienda, da sempre legata a contratti, appalti e
legami con il governo federale, sotto l’amministrazione Trump sta godendo del
rapporto di Thiel con il Presidente, avendolo sostenuto finanziariamente e
politicamente. Le accuse di aggregazione massiva di dati personali dei cittadini
statunitensi da parte delle agenzie governative, senza un’adeguata supervisione,
hanno scatenato allarmi su un potenziale strumento di spionaggio centralizzato.
Nonostante queste preoccupazioni, che avrebbero dovuto causare un problema
all’azienda tecnologica, Wall Street ha risposto con un’impennata del prezzo
delle azioni di Palantir, consolidando l’azienda tra i giganti.
Un modello di business tra profitto e controversie
Alex Karp, CEO di Palantir, durante una recente chiamata con gli investitori, ha
apertamente celebrato il successo finanziario dell’azienda, collegandolo a
operazioni che, con discutibile retorica, ha definito «omicidi di massa».
«Palantir è qui per sconvolgere e rendere le istituzioni con cui collaboriamo le
migliori al mondo e, quando necessario, per spaventare i nemici. E a volte,
ucciderli» ha dichiarato Karp, esprimendo «super-orgoglio» per il ruolo
dell’azienda in «luoghi di cui non possiamo parlare», e ha persino predetto
«un’interruzione» sociale che sarebbe stata «molto buona per Palantir»,
suggerendo che la sua tecnologia potesse aiutare le élite a mantenere il
controllo durante periodi di disordini.
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Nelle ultime settimane, hanno suscitato grande scalpore alcune applicazioni
sviluppate per segnalare alle autorità competenti i cittadini stranieri che
vivono illegalmente negli Stati Uniti. In particolare, secondo The Verge, a
ricevere il sostegno di Donald Trump e dei filotrumpiani è stata ICERAID, un’app
che promette di premiare con una criptovaluta proprietaria, il token RAID, “i
cittadini che acquisiscono, caricano e convalidano le prove fotografiche di otto
categorie di sospette attività criminali”. Tra queste i maltrattamenti di
animali, i rapimenti, gli omicidi, le rapine, gli atti terroristici e,
naturalmente, l’immigrazione clandestina.
[...] La tecnologia per difendersi dalla politica di Trump
Con l’intensificarsi delle azioni, politiche e non, messe in campo da Donald
Trump per combattere l’immigrazione clandestina, anche i migranti stanno
ricorrendo alla tecnologia per sfuggire ai raid delle forze dell’ordine e
assicurarsi una permanenza nel paese. Secondo quanto riferito da Newsweek, nelle
ultime settimane sta riscuotendo un buon successo SignalSafe, un’app di
community reporting usata dai migranti o chi li aiuta per segnalare le
operazioni degli agenti federali e della polizia locale. Una piattaforma che
dichiara di non voler ostacolare le attività dell’ICE (United States Immigration
and Customs Enforcement), ma che ha l’obiettivo di “dare potere alle comunità
fornendo ai cittadini uno strumento per segnalare e condividere quello che
accade negli spazi pubblici”, come riferiscono gli sviluppatori
dell’applicazione, che per il momento hanno preferito mantenere segreta la loro
identità.
[...]
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