Firenze, settembre 2018. il bibliotecario della Marucelliana posa il volume su
un leggio e si allontana con discrezione.cancellature, singole parole,
riscritture formicolano sopra le righe. guardo. guardo e basta, se tocco, tutto
scompare. sono rimasta a lungo su quei primi versi. simili al suo Libro ma
diversi. diversi. il titolo scritto a caratteri più minuti del testo:
“Cinematografia sentimentale”, “La notte mistica dell’amore e del dolore”. poi,
per tutto, fu semplicemente La Notte. non era il Libro. l’uomo non era,
esattamente, lo stesso. contemplando quel supporto pulito pensai a quante volte
Dino fosse entrato in una biblioteca, da anonimo. anonima la sua lungimiranza
nel consultare testi che ancora nessuno in Italia aveva notato. anonimo perché
già oltre. il volume sul leggio si intitolava Il più lungo giorno. l’amico Dino
Castrovilli quella mattina mi aveva detto: “ho una sorpresa per te”. così è
stato, che gliene sia sempre grata. incontrare quella rilegatura così gracile
dopo avere sognato un libro immenso. guardo e penso che tutta la vita di Dino
Campana è stata il più lungo giorno “ne la luce catastrofica”: ogni giorno
l’attesa vitale, urgente. ne la luce catastrofica. queste quattro parole mi
rotolano davanti tra le righe, tra tante altre, impigliate ad altre, ognuna
definitiva, visione autonoma. continuo a guardare. accanto a “stanza” Dino
scrive “piena di sogni”. sopra “scheletrico”, “vulcanizzato”. così apparivano le
coste antracite dei suoi Appennini. in alcuni casi, frasi accavallate: “e nella
vita stellare dello specchio un ricordo d’antica sera d’amore di viola”, segni
in schegge. mentre scrivo ho vicino a me la versione anastatica de Il più lungo
giorno di Vallecchi, la ‘realtà’ di quello che resta. ripenso a quei giorni come
a un sogno fugato.
devo iniziare. mi viene ‘ordine’. la parola che sale per prima percorrendo
questo magnificente lavoro di Gianni Turchetta, atto d’amore. fare ordine,
innanzi tutto. riconoscere la volontà di Dino Campana di affermare un talento
che sapeva, rivendicava, e ribadiva con uno studio continuo rimasto nella
maggior parte della critica sotto traccia, offuscato dalle diagnosi di
nevrastenia, dalle boutades dei momenti di corto circuito, dai pregiudizi di chi
vide in tutte quelle cancellature e riscritture un segno di confusione invece di
un intento lucido di rileggere le varie versioni di uno stesso testo e scegliere
quella che sembrasse migliore, come farebbe ogni scrittore. lineare nel proporsi
al mondo da poeta, tessitore di sogni, di connessioni inesplorate, creatività
pulita. nettarlo dallo stereotipo del matto talentuoso ma caotico, capace di
fulgori ma arronzone, scarpone indesiderato dei piccoli Olimpi letterari.
restituirgli un disegno personale, anche se offeso dal travaglio, e forse per
questo più assetato. l’ordine di Gianni Turchetta si manifesta già nella sezione
introduttiva, L’eterno ritorno dell’immagine e la resistenza della
poesia (Turchetta 2024, XI-CVIII)[i], che in esergo riporta come una
dichiarazione di intenti una frase di Michel Foucault: “dove c’è l’opera non c’è
follia” (da Storia della follia nell’età classica).
questo saggio di apertura è un attento lavoro filologico che mostra con
implacabile affetto verso l’essere umano che Turchetta segue da 40 anni,
attraverso alcuni elementi cardinali, l’intento costruttivo del Poeta rispetto
alla sua esperienza di studio della letteratura e della filosofia, in
particolare tedesca, inglese e belgo-francese, e questo attraverso una reiterata
frequentazione delle biblioteche, suggerendo spostamenti mirati che contestano
l’immagine di un dromopatico che si sarebbe trovato per caso, nel suo moto
perpetuo, anche in una biblioteca. le sedute di studio sono volute, nella
coscienza piena che il suo destino di poeta e letterato fosse stato deviato
dalla volontà della famiglia di farne un farmacista. già la scelta del
titolo, Canti Orfici è un manifesto identitario, una “posture visionnaire”
(Claudel in Turchetta 2024, XXXIX) che vuole discostarsi dal mito orfico
dell’Antichità o dell’Occultismo. l’Orfismo di Dino Campana rivendica il
concetto stesso di arte in quanto “mito della magia dell’artista, del suo
disperato immergersi nei ciechi abissi del cuore e dell’universo, e della sua
speranza e del suo bisogno di farne ritorno per raccontare a tutti il suo
viaggio” (Segal, Ibidem). Orfeo incarna la poesia che può vincere la morte, una
connotazione che Dino attribuisce a Faust, “alter ego del poeta” (XL). l’omaggio
alla poesia si sviluppa attorno a una tensione costruttiva, a un meccano
circolare in cui si alternano i temi della ripetizione e del ritorno, scrive
Turchetta, che nei testi del Quaderno, precedenti i Canti Orfici, si reiterano
attorno a un femmineo che non concerne soltanto la figura della donna ma diventa
uno sguardo sensibile che permea anche il paesaggio: la notte, la montagna,
l’acqua, le navi, la città (XCII). tutto è animato da un fremito cosmico: “Odore
amaro d’alloro ventava sordo dall’alto/Attorno al bianco chiostro sepolcrale:/
Ma bella come te, battello bruciato tra l’alto/ Soffio glorioso del ricordo,
gridai o città,/ (Quaderno, “Oscar Wilde a S. Miniato”, 158). e ancora: “Nave
che soffri e vegli/ Coll’occhio disumano/ E al destino lontano/ Sempre sopra del
vano/ Ondeggiare tu pensi/ E m’arde e m’arde il cuore/ Nella notte serena/
(testo 38, senza titolo). la nave come creatura senziente, quasi che
quell’“occhio disumano” fosse quello di un pesce e che l’ondeggiamento, più che
il beccheggio della prua, un respiro di branchie. rispetto alla figura della
donna, è evidente, scrive Turchetta, una continua oscillazione tra incontro e
perdita, un sentimento d’amore che si tempra e trova le sue note più alte
nell’assenza dell’amata. una volontà di strutturazione, scrive l’autore, si
evince anche dal riequilibrio del rapporto tra versi e prose, che nei Canti
Orfici sono rispettivamente 15 e 14, contro il rapporto di 14 a 4 ne Il più
lungo giorno. e allo stesso tempo questa tensione alla costruzione di
un opus unitario procede per lacerti, correzioni, rimandi, ritorni. Turchetta
espone quasi chirurgicamente il cantiere della costruzione poetica campaniana:
dopo l’Introduzione e la Cronologia, propone una vivida “Nota all’edizione” in
cui esplicita la struttura del volume, organizzato in quattro parti principali
(“macro-sezioni”): la prima dedicata ai Canti Orfici, le due successive ai testi
a stampa e manoscritti che hanno preceduto e seguito il Libro e la quarta alle
Lettere. qui l’autore esplicita il suo intento di far affiorare l’ordine
dell’immenso lavoro di scrittura e riscrittura di Dino Campana, una “tensione
verso la verità” (CXCIII) irraggiungibile per definizione ma continuamente
reiterata, elemento principe della dignità del lavoro campaniano, sia di quello
concepito come privato, come nel caso del Taccuinetto faentino, del Fascicolo
marradese inedito e del Taccuino Mattacotta, che di quello destinato a un
pubblico, come Il più lungo giorno e le Carte Bandini.
porre come primo documento i Canti Orfici, il cui commento è “intenzionalmente
ampio” (CXCVII) è una scelta assertiva, a dire che dopo infiniti giri attorno al
sole, rovinose cadute, perdite e smarrimenti questo è ciò che doveva rimanere.
un’alternativa sarebbe stata ordinare il materiale secondo un ordine cronologico
ma mettendo i Canti Orfici in prima posizione si vuole ribadire un pieno diritto
di presenza, umana e poetica. scemati i giudizi, i conflitti,
l’incomunicabilità, lo sperdimento, resta l’opera, l’unico Libro, anima salva.
là dove tutto era sembrato perso, mancato, l’opera è salvezza, senso di una
vita. nelle note all’unico Libro (853-1139), eroiche, si sente la meticolosità
di un affetto profondo e sedimentato, un dialogo intimo da cui affiora chiara
l’intenzione di riscattare un uomo ma soprattutto un immenso magmatico poeta.
solo per citare qualche esempio, apprendiamo che l’edizione dei Canti
Orfici proposta è quella che Dino Campana considerava, parlando dell’edizione
Vallecchi del ’28, l’editio princeps, corretta “sul testo di Marradi e delle
riviste che stamparono i miei versi per la prima volta” (853). le dimensioni del
volume 19,5×12,5 sono indicative perché si riscontrano almeno due diverse
partite di carta. informazioni dettagliate riguardano il corpo dei caratteri (10
per la poesia, 12 per la prosa), il numero di esemplari giunti a noi (Roberto
Maini ne avrebbe recensiti 111 cui se ne sono aggiunti nove), forniti o privi di
dedica, la menzione della qualità e del formato della carta, le differenze
riscontrate, dovute a correzioni effettuate sui piombi, segnano passo dopo passo
la qualità dell’analisi filologica dell’autore. egli menziona anche “l’unico,
prezioso reperto del processo di stampa della princeps” (855): le “bozze”
appartenute a Paolo Toschi, che incontrò per la prima volta Dino Campana “una
sera d’estate, a Marradi, in una stanza bassa e soffocante di una piccola
trattoria, negl’anni sereni in cui s’andava addensando il turbine della guerra:
e mi sembrò d’ascoltare una novella di Edgardo Poe”. in un’altra occasione,
nell’estate del ’14, il Poeta gli disse: “Voglio che lo legga anche Lei, il mio
volume: non posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze […] E oggi –
scrisse Toschi – sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo e
a penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero” (Ibidem). malgrado la
stima sincera che Toschi nutrì per la poesia di Dino Campana (“Fra molte cose
illogiche o non completamente realizzate, ma sempre lampeggianti di sprazzi di
poesia, trovo alcune pagine limpide, espressive di tale evidenza e poeticità
quale è raro trovare anche fra i più bravi scrittori d’oggi”), si può immaginare
che molte delle espressioni colorite che usò per descrivere l’uomo andarono a
innaffiare il mito del matto, riportando con dovizia di particolari alcune
imprese occorse per strada o nelle trattorie. “Tale vita avventurosa e
fantastica io l’ho sentita raccontare da lui stesso una sera d’estate” (Toschi
1926). A questo potremmo aggiungere la materialità dei verbali di “Pubblica
Sicurezza” e delle reiterate diagnosi e descrizioni sintomatiche, tra cui la
“Modula informativa per l’ammissione dei mentecatti nel manicomio di Firenze, 9
aprile 1909”, firmate negli anni da dottori e specialisti ai fini dei diversi
ricoveri psichiatrici. a volte sono i Carabinieri stessi a farsi medici: “segni
di pazzia furiosa […] essendo il Campana riconosciuto per matto furioso dal
Dottor condotto del luogo (“legione Territoriale dei Carabinieri Reali di
Firenze, 8 aprile 1909) (CXXXIX). già tre anni prima la Questura di Firenze
l’aveva definito “squilibrato di mente” (CXXV), avviando la catena del profilo
criminogeno ed entrando in sinergia con le diagnosi patogene degli specialisti
che sarebbero seguite e che avrebbero condotto Dino al manicomio di Imola il 5
settembre 1906 a seguito dell’“ordinanza” che attestava la sua “alienazione
mentale” (CXXXI). “il soggiorno nel manicomio di Imola era avvenuto – scrive lo
psichiatra Carlo Pariani – ‘non perché fosse malato di mente ma perché lo
volevano matto per forza’” (Pariani 2002, 21). appare oggi surreale che la
diagnosi che ha sentenziato l’entrata di Dino in manicomio è di “demenza
precoce?” con il punto interrogativo (Idem) e che tra le patologie, che
diventano voci di crimine, risulti anche l’uso di caffè “del quale è avidissimo
e ne fa un abuso eccezionalissimo” (Ibidem). il peccato di avidità fa la colpa,
la frequenza, la malattia. ugualmente vago è il certificato stilato dal Dott.
Cuylitis presso quella che era all’epoca la Maison de santé Saint- Bernard di
Tournay (attuale Tournai, in Belgio), il quale certifica, tra la fine del 1909 e
l’inizio del 1910, di aver personalmente “visto, esplorato e interrogato Campana
Decio (sic) “colpito da una malattia che si caratterizza con i sintomi seguenti:
“tendenza alla pigrizia (?)”, “al caffè”, “alcolismo” (CXLI)[ii]. a Tournai,
dopo aver passato due mesi nella prigione di Saint Gilles, a Bruxelles, Dino
avrebbe incontrato Il Russo, alter ego, scrive Turchetta, dell’“io poetico”,
opposto e complementare a Regolo; il primo vittima del sistema repressivo
pubblico, il secondo, alter ego vincente. eppure Il Russo incarna il sentimento
di persecuzione della poesia, quindi del “boy” innocente e, come in un gioco di
specchi, di Dino Campana stesso (1077). ne è prova anche l’errore, forse non
così casuale, nella traduzione dell’epigrafe da Whitman che chiude i Canti
Orfici, dove Dino ha tradotto: “Erano tutti stracciati e coperti del sangue del
fanciullo” quando l’originale in inglese recita: “I tre erano tutti stracciati e
coperti del sangue del fanciullo”, come a sottolineare la persecuzione di cui si
sentiva vittima, soprattutto da parte di Papini e Soffici. un’ interpretazione
complementare vede i versi di Dino Campana ispirati anche dalle Georgiche di
Virgilio nel passo in cui si narra dell’uccisione di Orfeo da parte delle donne
dei Ciconi, Georgiche che avrebbero avuto un ruolo importante nella diffusione
dei mito di Orfeo. allo stesso tempo, la diffidenza del Poeta verso la forza
pubblica andrà di pari passo con la necessità di trovare ancor più che un
equilibrio un ordine, manifesto d’altronde nell’intenzione di frequentare la
Scuola Ufficiali e poi di entrare in Polizia.
le Note ai Canti Orfici sono un lavoro di alta oreficeria, con infiniti spunti
di riflessione e approfondimento. soltanto per citare un esempio, La Notte,
Turchetta sottolinea come essa designi un percorso iniziatico dove si sentono
gli influssi degli Inni alla Notte di Novalis nella misura in cui il buio
notturno rappresenta il tempo della rivelazione e della verità “che la luce del
giorno nasconde”: “E la notte fu il grembo possente/delle rivelazioni – là
tornarono gli dei” (869). a questo elemento si intreccia “l’assoluta centralità
del tema dell’amore” (Ibidem) incarnato dall’incontro con la donna. amore,
scrive Gianni Turchetta, che dal singolo individuo passa a una verità cosmica,
in un contesto di sacralità laica. speculum ne è per l’autore La Verna, seconda
lunga prosa dei Canti Orfici. là dove ne La Notte si intravede l’ombra del V
canto dell’Inferno dantesco, la Lussuria, La Verna fa da contraltare, con i suoi
riferimenti a San Francesco e gli scenari all’aperto che implicano “ascesa” e
“purezza”, “pellegrinaggio da espiazione” (Ibidem). a giusto titolo Turchetta
esplicita il carattere altamente cinematografico de La Notte al fine di rompere
l’andamento cronologico e intesserlo di scorci, flashback e paesaggi onirici.
tutto per restituire, fondamentalmente, la dimensione di un viaggio
introspettivo che solo in questo modo avrebbe potuto accogliere l’immensità
dell’esperienza d’amore che attraverso la grazia della poesia si fa stato
d’amore universale. in questo senso, aggiungo, torniamo, anche se in una
declinazione laica, all’esplicitazione dell’intento di luce e amore del viaggio
dichiarato nel Paradiso: “poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte/ sembianze
femmi perch’io spandessi/ l’acqua di fuor del mio interno fronte. ‘La Grazia che
mi dà ch’io mi confessi’/ comincia’ io ‘da l’alto primopilo,/ faccia li miei
concetti bene espressi’”[iii].
*
la seconda parte del volume, Prima dei “Canti Orfici”, raccoglie diverse
sezioni[iv]. la prima, “Testi pubblicati da Campana”, conta tre scritti poi
rielaborati nel Libro: “Montagna – La Chimera”, “LE CAFARD (Nostalgia del
viaggio)” e “DUALISMO – Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita
Tchegarray”. segue il Quaderno, ritrovato dal fratello di Dino, Manlio,
consegnato a Enrico Falqui, che nel 1942 ne curò la pubblicazione di cinque
pagine per l’editore Vallecchi nel volume Inediti di Dino Campana.questa sezione
raccoglie la totalità dei testi del Quaderno, 42, di cui 15 senza titolo.
Silvano Salvadori aveva già scritto, nel suo saggio sul Quaderno, di un afflato
universale del quotidiano. segue una breve sezione di tre “Testi contenuti nelle
lettere”, poesie, scrive Turchetta, che Dino Campana copia in una lettera
destinata ai periodici “La Lettura” e “Corriere della Domenica” (Lettera 4,
febbraio 1912), prima di arrivare al Taccuinetto faentino, acquistato in una
cartoleria di Faenza, “del tipo di quelli sui quali i clienti si fanno segnare
dal bottegaio i debiti della spesa giornaliera”, scrive Domenico De Robertis
nella Nota al Testo dell’edizione Vallecchi. un “quadernuccio” che “non ha un
principio e neppure una fine – nel senso che, essendo scritto nei due versi,
comincia senza terminare e l’uno s’intreccia e si confonde con l’altro”,
scriverà Falqui nell’introduzione all’edizione Vallecchi del 1960. quest’ultimo
si preoccupa dell’immagine da “scartafaccio” dell’opera, composta da testi
scritti in momenti diversi, forse già dal 1912 (1227), che si dipanano in
verticale e in orizzontale, a penna e a lapis, come aveva già sottolineato De
Robertis. e malgrado questo, Falqui sottolinea l’intento preparatorio di Dino,
in vista dei Canti Orfici, in cui farà confluire nove testi del Taccuinetto, che
attraverso quest’ultimo ci fa capire “quanto lungo e minuzioso e accanito e
cosciente sia stato il lavoro di Campana, […] quasi che chieda e cerchi e
aspetti e aneli di trovare e godere presso di noi il perfezionamento ideale”.
dopo il Taccuinetto Turchetta pone le Carte Ravagli con il “Fascicolo
marradese”, donato da Manlio Campana a Federico Ravagli, da questi pubblicato
tra il 1950 e il 1951 su Portici, e le Carte Bejor, che Turchetta restituisce
attraverso non il volumetto di Bejor ma dal volume del ‘42 di Ravagli. segue Il
più lungo giorno. Turchetta sottolinea come il manoscritto dimostri che, anche a
riscontro degli innumerevoli rimaneggiamenti, riscritture e sovrapposizioni dei
testi campaniani in nome di una poesia del movimento, i Canti Orfici non furono
una copia del primo manoscritto; al contrario, l’autore attesta l’esistenza di
un “antigrafo comune a PLG e a CO, da cui sarebbero stati copiati entrambi”
(1261). contrariamente alla credenza che il supporto cartaceo del manoscritto
fosse di poco conto, Turchetta ricorda che Dino Campana si avvalse di un “antico
volumetto rimasto bianco, trovato chissà dove, la cui composizione si può far
risalire alla prima metà del secolo XVIII” (De Robertis, Ibidem). le note
dell’autore alla sezione de Il più lungo giorno (1259-1293) sono di estremo
interesse: egli afferma che, per la presenza di inesattezze e irregolarità, il
manoscritto è probabilmente la riscrittura di un testo antigrafo; dubita
dell’affermazione, ormai radicata, che Il più lungo giorno costituisca due terzi
dei Canti Orfici, come affermato da De Robertis, e mostra dettagliatamente come
questo manoscritto che anticipa il Libro sia fondamentalmente provvisorio nelle
sue parti, tale da non poter costituire un’opera compatta sovrapponibile per i
suoi due terzi all’Opera. secondo l’autore, benché il manoscritto non fosse allo
stadio di appunti personali, Dino Campana non avrebbe mai consegnato a una
tipografia il testo de Il più lungo giorno nella forma in cui lo aveva redatto.
e se Papini e Soffici avessero accettato il manoscritto egli vi avrebbe
certamente apportato cambiamenti. quindi, anche per l’evidente sviluppo dei
testi campaniani pubblicati come “Autografi lacerbiani”, consegnati
probabilmente insieme a Il più lungo giorno e per la presenza di pagine vuote,
quest’ultimo non può essere considerato ‘il Libro’ di Campana (1263-65).
le Carte Papini contano due fascicoli con quattro testi nuovi rispetto a Il più
lungo giorno che confluiranno nei Canti: “Il Russo (storia vera)”, “(Crepuscolo
mediterraneo”), “Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)” e “Pampa”.
probabilmente i testi consegnati a Papini erano più numerosi, visto che Campana
aveva consegnato altri testi per Lacerba insieme a Il più lungo giorno (1294).
in ogni modo emerge l’evidenza di una stesura di gran parte dei Canti
Orfici precedente la consegna de Il più lungo giorno, che nel suo insieme appare
ponderata, lontana dall’ipotesi diffusa di una ricostruzione frettolosa a
memoria. le Carte Bandini testimoniano una cura per la comprensibilità della
redazione, evidente nelle numerose rifiniture delle lettere, come se i testi
fossero destinati a ipotetici lettori. è interessante notare, scrive Turchetta,
che la sequenza dei Notturni combacia quasi interamente con la versione
dei Canti Orfici mentre altri testi presentano delle varianti, attestando un
percorso che va dagli “avantesti” de Il più lungo giorno alle diverse versioni
dei Canti Orfici, “elaborando i testi nelle direzioni di addensamento semantico
e di esasperazione iterativa che meglio caratterizzano il suo stile” (1303).
seguono Altri inediti, di influenza nietzschiana e baudelairiana, in parte
consegnati a Enrico Falqui dai parenti di Dino Campana. la parte Dopo i “Canti
Orfici” riprende “Versi e prose sparsi”, testi pubblicati tra il novembre 1914 e
il maggio 2016, tra cui tre prose estratte dai Canti Orfici. gli altri testi
verranno pubblicati nel 1928 da Attilio Vallecchi nella sezione “Inediti” del
volume Liriche. essi testimoniano la nuova direzione della scrittura campaniana,
sempre più orientata su un’integrazione tra poesia e pittura, e indicano la
volontà di Dino di arrivare a una seconda edizione del Libro, forse rivolgendosi
a un altro editore. alla luce di questo progetto di riedizione in vista di
un’ulteriore piallatura dei testi potrebbero essere lette anche le reiterate
pressioni, nel 1916, su Papini e Soffici affinché restituissero il manoscritto
de Il più lungo giorno. ne è prova una lettera in cui Emilio Cecchi nel maggio
1916 suggerisce a Dino Campana lo Studio Editoriale Lombardo per far “rivivere
il libro in un’edizione bella, corretta, etc con unite Olimpia, Toscanità e le
altre cose nuove” (1323). è evidente che questa fase in nuce della creazione
campaniana procedeva intrecciata al difficile percorso personale del Poeta,
evidente dal tenore delle Lettere: “Scrivere non posso, i miei nervi non lo
tollerano più, per ora”, confida all’amico Mario Novaro nell’aprile del
1916 (CLXVIII; 601). in questa fase di “sofferta monotonia” la mattina del 3
agosto 1916 Dino incontra per la prima volta, a Barco nel Mugello, Sibilla
Aleramo. a lei sono destinati alcuni dei Versi sparsi, testi scritti a mano
negli spazi liberi di alcune copie del Libro donate o vendute agli amici, tra
cui appunto Aleramo, Bejor, Cecchi e Ravagli. lungi dall’essere il risultato di
una mania correttiva, questi testi, scrive Turchetta, testimoniano di una
coerenza stilistica che Dino Campana voleva imprimere alla sua opera in vista di
una riedizione. ne è prova il fatto che quando Cecchi propone di far confluire
nella futura edizione una selezione dei Canti Orfici più “le ultime cose”, egli
risponde che sarebbe “la cosa più dolorosa che si potesse fare” (1323) a
testimonianza del fatto che considerava le sfumature apportate attraverso la
limatura o l’aggiunta di testi nuovi come parte integrante di un unico disegno
poetico del Libro. tra i Versi sparsi spicca “Arabesco-Olimpia”, che Turchetta
considera, “un arabesco sonoro”, per le fitte corrispondenze fonetiche e la
presenza di “colorismo”, “un testo capitale non solo di questa fase, ma di tutta
la produzione campaniana” (1326)[v]:
> Oro, farfalla, dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un
> tramonto di torricelle rosse perchè pensavo ad Olimpia che aveva i denti di
> perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori bianchi e
> rossi sul muro sono fioriti. Perchè si rivela un viso, c’è come un peso
> sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.
il Taccuino Mattacotta, che segue i Versi sparsi, è un “quaderno di lavoro”, che
consiste nel “fare e rifare un numero relativamente limitato di componimenti”
in italiano, inglese e francese, avendo Dino riscritto, soprattutto a matita
copiativa e a penna a inchiostro nero, sulle stesse pagine da due a quattro
volte, databile tra gli ultimi mesi del 1914 e l’estate del 1916 (1341-1343).
il Taccuino fu donato a Sibilla Aleramo che in seguito l’avrebbe donato a Franco
Mattacotta durante la loro relazione.
> I announce the justification
> of candour and the
> justification of pride
> (se devo annunciar qualche
> cosa)
nella sezione Altri manoscritti, sono riunite le “Carte
Aleramo-Gallo-Mattacotta”, il “Manoscritto Orlandi”, le “Carte Gallo”, le “Carte
Novaro-Falqui” e “Poesie per Sibilla Aleramo”. nel primo fascicolo appare il
luminoso frammento L’infanzia nasce, che Turchetta attribuisce, benché non sia
autografo, a una sorta di testamento spirituale:
> L’infanzia nasce da un ritorno di se stessi giacchè in uno strano eco
> s’immobilizza e s’allontana dai giorni: anzi nasce proprio da una cosa
> “specchiata” con le ridenti spighe gialle e con i campanili: conoscenza eterna
> (di poco tempo) e sempre a sapersi da un tempo infinito come a stare sempre
> sulla riva del giorno.
nelle “Carte Gallo” affiora Giulietta e Romeo, un testo spedito a Sibilla
Aleramo a metà dicembre del 1916, forse uno dei “biglietti cinici” di cui
Sibilla dice a Leonetta Pieraccini, moglie di Emilio Cecchi. a Niccolò Gallo,
scrive Turchetta, si deve la prima edizione, nel 1958, del carteggio tra Sibilla
Aleramo e Dino Campana. qui torna il tema reiterato dell’innocenza: “e infine
della/lotta delle passioni/il trionfo dell’innocenza/, quasi a sottolineare il
baratro tra il cuore intatto del Poeta e le intemperie che lo colpiscono.
Turchetta propone una grafia emotiva, evidente nel “disordine convulso della
scrittura” (1369), in cui coabitano aggressività e pentimento. segue “Poesie per
Sibilla Aleramo”, testi iconici della poesia campaniana dove la rabbia sfuma nel
passo che incede del ricordo, nella dolce ripetizione che fissa l’eterno:
> Più pura nell’azzurro è la luce d’argento
> Più bella la tua figura.
> Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi
> Più bella della bionda Cerere la tua figura
nella sezione seguente, Altri testi, sono raccolte due delle quattro prove
d’esame per docente in Lingue straniere che Dino affrontò, senza successo,
nell’aprile del 1911 presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. si tratta
del tema di italiano, “A zonzo per Firenze” e della redazione in francese, “Le
repentir”, da cui traspaiono, malgrado siano state redatte in un frangente
particolare e con un tempo limitato a disposizione, tòpoi familiari all’opera
campaniana, tra cui l’attenzione al paesaggio. le quattro “Traduzioni” che
seguono, da Verlaine, Ward Howe, Goethe e Heine, sono solo una parte del lavoro
effettuato da Dino Campana su testi stranieri.
*
Cercavo idealmente una patria non avendone
l’ultima parte del Meridiano è dedicata alle 290 Lettere 1903-1931, di cui la
maggior parte scritte tra il 1915 e il 1917. come nota Gianni Turchetta si
attesta una grande differenza tra il numero di lettere che precede i Canti
Orfici e quello che segue il Libro. la Lettera 7 indirizzata a Giuseppe
Prezzolini (6 gennaio 1914) riporta una versione de “La Chimera” molto vicina a
quella dei Canti Orfici. lo stesso è per una versione dei “Notturni” che appare
nella Lettera 13, destinata a Luigi Bandini. il lavoro di ricerca sulle Lettere
non è esaustivo. Turchetta ci dice, ad esempio, che ne mancano molte inviate
all’amico Mario Novaro (“siamo un po’ fratelli, non è vero?”, Lettera 93, aprile
1916) e a Sbarbaro. una recente pubblicazione a cura di Costanza Geldes da
Filicaia e Marcello Verdenelli rivela che Alessandro Pavolini avrebbe continuato
a scrivere a Dino Campana anche dopo l’internamento a Castel Pulci, stemperando,
seppure con cautela, l’immagine di una solitudine totale del Poeta durante i 14
anni in manicomio. le Lettere sono forse il contributo d’affetto per Dino
Campana più evidente dell’alacre lavoro di Gianni Turchetta, che rispetto alle
edizioni precedenti elimina la separazione tra la corrispondenza con Sibilla
Aleramo e le altre. qui lo studioso si fa da parte, e mentre egli tace la vita
di Dino si dipana, affiora il bisogno di essere riconosciuto, di percepirsi,
scrive Turchetta, attraverso lo sguardo degli altri. tra le epistole più
toccanti ci sono certamente quelle scambiate con Sibilla. l’abisso di una
passione limpida mista a rovina, “il cupo bagliore del miracolo”, scrive la
scrittrice al suo Dino “fatto per il sole”, coagulando forse un’intuizione[vi].
la reiterazione implacabile tra speranza e delusione, ira e dolcezza. due cuori
bambini che la vita ha portato lontani l’uno dall’altro. il continuo tentativo
di farsi capire votato all’incomprensione, la solitudine infera per un disamore
subίto che Dino sentiva destinale, ferita di abbandono che a sua volta diventa
lama acuminata che giudica e abbandona.
> Pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la tua
> grazia […]. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi abbandoni
> col pensiero[vii].
eppure forse il dolore più cupo, l’affanno più lancinante di questa continua
ricerca di presenza al mondo affiora dalle lettere mandate ad amici e
intellettuali, tra cui spiccano Boine, che sente per Dino una sincera empatia:
“Ma lei dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che si
appiatti?” (Lettera 60, 15 novembre 1915), Novaro, Cecchi, Cardarelli, Carrà.
“Un po’ di coltura di pensiero veramente e vivamente moderno la posseggo
anch’io”, scrive il Poeta alla Direzione della rivista “La difesa dell’arte”
nell’estate del 1910 (Lettera 3). con Papini, con cui aveva ingaggiato una
tenzone a senso unico mesi prima, si firma nel dicembre 1913 “Suo uomo dei
boschi” (Lettera 6), chiedendogli di portare la sua “piena solidarietà” agli
“altri indimenticabili compagni”, compagni che certamente non avevano pensieri
per lui. Dino vuole riconoscersi altro dalla sfilata di “filibustieri”,
“bluffisti”, “nemici”, “chacals”, “mangiapane” dei circoli letterari soprattutto
fiorentini ma allo stesso tempo chiede a Mario Novaro: “Se à notizia di qualche
recensione per me la prego dirmelo” (Lettera 83, 25 febbraio 1916). alcuni
furono sinceramente toccati dall’aderenza piena alla vita di Dino. Francesco
Chiesa scrive: “Le sue parole mi commuovono e mi affliggono” (Lettera 61, 19
novembre 1915); Emilio Cecchi gli dice che le ore passate insieme erano state
“una ripresa di energia e fiducia” e si firma “aff.mo” (Lettera 84, 27 febbraio
2016). nella risposta di Dino affiora tutta la sua prostrazione per il
sentimento di incomprensione che avvertiva sia dai compaesani di Marradi, dai
quali si sentiva perseguitato “con un’infamia e una ferocia tutte
lazzaronescamente italiane e clericali” che dalle presenze immanenti di Papini e
Soffici, “ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto” (Lettera 85, 1-2 marzo
1916). è quasi una lettera ultima in cui Dino si raccomanda affinché Cecchi non
dimentichi le ultime parole dei Canti Orfici, i versi di Whitman: They were all
torn and covered with the boy’s blood, “che sono le uniche importanti del
libro”. se è possibile che la solitudine di Dino Campana sia stata oltremodo
accentuata dalla critica, sicuramente questa lettera a Cecchi è una di quelle in
cui, forse anche a seguito delle sue condizioni fisiche e psichiche, si avverte
il senso di isolamento e di incomunicabilità: “Mi lascio vivere in un disgusto e
una noia mortale” (Lettera 88 a Cecchi, 28 marzo 1916). Cecchi appare come un
interlocutore amico, amico che cercherà di riconfortare il Poeta esprimendogli
da una parte stima e comprensione, pur avendo attraversato egli stesso “giorni
buj terribili… ore e ore di violenza e prigionia”, e consigliandogli dall’altra
di non dare troppa importanza al comportamento di Papini, di non “soffrire di
certe cose che francamente non valgono la pena per il fatto che non possono più
toccarla” (Lettera 86, 13 marzo 1916). è chiaro invece che l’indifferenza di
Papini rispetto all ‘assassinio’ di aver perso la copia de Il più lungo
giorno rimase per Dino una spina nel cuore. anche Boine registra la sua
sofferenza e a sua volta lo mette a parte delle proprie difficoltà economiche e
di salute: “Caro Campana, Le sue lettere sono sempre così dolorose! Non so mica
che cosa risponderle…Non pigli mai per inimicizia il mio silenzio: le voglio
bene, Campana, e ho grandissima stima di lei e delle sue cose [.]. Ma sono un
amico inutile. Suo Boine” (Lettera 99, 22 aprile 1916). da Margherita Carnecchia
Lewis, che lo chiama “Infelice Fratellino” (Lettera 124, 30 giugno 1916) a Emma
Cima, molti rispondono al suo disagio esistenziale, a loro volta provati da
vicissitudini personali, quasi che la sofferenza di Dino rappresentasse una
condizione umana condivisa, trascinata silenziosamente nei giorni. un diluvio
per tutti.
poi arrivò Sibilla.
*
T’ho avuto tutto nel primo sguardo, così interamente.
già nella Lettera 128 del 24 luglio 1916 si sente l’urgenza di
raccontarsi. Sibilla Aleramo va contro il galateo di ruolo dell’avvicinamento
amoroso. si muove per prima verso Dino, senza conoscerlo. cammina
nell’essenziale suo, fin dall’inizio in un’intimità spalancata, sovversiva
perché anti-strategica, aderente solo a quell’evento di piena che quattro anni
prima le aveva fatto scrivere in Corsica la sua prima poesia:
> e penserò allora a queste notti in paese straniero
> a queste luci vivide nel vento
> che volteggia dolce su le rupi,
> a questa mia anima
> che ancora una volta si risolleva,
> si risolleva avida,
> penserò a questo ch’è ancora nelle mie vene
> palpito di giovinezza,
> ardore forte
> volontà più grande d’ogni mio grande pianto,
> e stupirò allora,
> o notte di stelle, di vento, di anelito solitario[viii]
“Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso siamo
più vicini… Forse m’avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v’ha toccato
qualche mio piccolo accento – e tutto il resto vi confonderà”. Lei già vicina.
si racconta tutta insieme, rotolando cose disparate, come se quel primo
riconoscimento fosse già maturo, pregno, già oltre. come se le parole dicessero
di un plurale. il giorno dopo dedica a Dino una poesia. e un giorno è un
lunghissimo tempo per chi ha capito. “Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,/
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,/ liberi singhiozzando, senza
mai vederci,/ né mai saperci, con notturni occhi… Cuor selvaggio,/ musico cuore”
(Lettera 129, 25 luglio 1916). Dino le risponde in francese: “Je vois que nous
pourrons être des amis si vous le voulez…Voilà donc une âme comme il en
manque…comme il en manque…je me suis dit. – Votre première lettre était vraiment
trop belle pour moi et je me suis mis à douter, mais maintenant j’ai
compris. Pardonnez-moi” (Lettera 133, 27 luglio 1916). segue un invito a
“condividere” la sua ammirazione per la linea “severa” e “musicale” degli
Appennini, ad andare insieme a Marradi e per le montagne
circostanti. “Aimeriez-vous de vivre un peu sous la tente?… Ce qui m’a le plus
touchez a été [sic] le souvenir de votre enfance. Comme je vous aime quand vous
écrivez cela ! Je vous baise les deux mains. Votre Cloche”. Sibilla accetta
l’ironico invito in tenda parlando come si parla alla vigilia di una vita
insieme: “Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a
quelli che bisogna ignorare” (Lettera 134, 28 luglio 1916). “Si vous venez ici
je n’oublierais pas, jamais, votre grace” (Lettera 135, Campana a Aleramo, 30
luglio 1916). dopo scivolarono. nell’amore. nel buio. l’ultima lettera per Lei è
dal manicomio di San Salvi, a Firenze, anticamera del destino: “Cara, Se credi
che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia
vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo, Dino” (Lettera 282, 17 gennaio 1918).
Sibilla non rispose. tace, il dolore.
dopo l’ingresso al manicomio di Castel Pulci, le rare lettere, indirizzate allo
psichiatra Carlo Pariani, all’amico Bino Binazzi e al fratello Manlio, indicano
una volontà di distrazione dal mondo, cioè uno sguardo ormai orfano d’innocenza
sul mondo, in cui tuttavia soggiace uno spirito vigile: “La suggestione regna
largamente in Italia e fa ottimi affari. Io sono un solitario e non mi piace
ammetterla” (Lettera 284 a Carlo Pariani, 30 aprile 1927). e allo stesso tempo,
Pariani riporta che qualche giorno prima gli avrebbe detto: “C’è il mezzo di
ringiovanire, di rivivere; c’è la suggestione. La suggestione può influire sul
carattere, può arrestare lo sviluppo del tempo, può lasciare uno nello stato in
cui è anche sempre. Può continuargli la vita anche per cento anni, la
suggestione (Pariani 2002, 26-27). a leggere oggi la testimonianza di Pariani si
resta in silenzio. lo psichiatra costruisce sistematicamente, commento dopo
commento, il profilo psicotico di Dino Campana con deduzioni proprie: “Del
secondo colloquio si riportano le idee vane […], si trascriveranno le stoltezze
principali e così dell’ultimo, tutto insensato, per manifestare intera la
personalità patologica” (25-26), e con scambi di questo tenore: “Sarà come lei
dice, ma gli avvenimenti che narra, signor Dino, non sono credibili. Lei passa
qui il tempo senza costrutto. Si troverà vecchio col dispiacere di averlo
sciupato” (25). non sapremo mai fino a che punto Dino giocasse con Pariani allo
‘spostato’ per proteggersi da tutto questo. sappiamo quasi niente. di quanto il
pensiero di Sibilla lo accompagnò in tutti quegli anni, “nel velo attraverso il
quale tutte le cose eterne vibrano e sorridono” (Aleramo in Turchetta 2020,
395). gli ultimi giorni non sono chiari ma Gianni Turchetta esprime chiaramente
l’ipotesi, condivisa da altri, tra cui lo scrittore e psichiatra Mario Tobino,
che non sia stata l’infezione all’inguine in un tentativo di fuga a uccidere
Dino ma che si sia trattato di un tentativo di autolesionismo immediatamente
insabbiato dalla Direzione di Castel Pulci.
resta il Poeta, come indica la lapide nella chiesa di Badia a Settimo,
nascosta, sotto il pavimento della navata sinistra: “Dino Campana, poeta,
1885-1932”.
in quei giorni di settembre, qualcuno aveva portato sulla tomba dei fiori
gialli.
i viali deserti di San Salvi imbevuti di notte fresca rimandavano ombre buone,
sussurri rappacificati. non c’è più nessuno, tutto è rimasto fedele.
Cristiana Panella
*
Riferimenti bibliografici
Alighieri, D. La Divina Commedia. A cura di A. Vallone e L. Scorrano. Napoli:
Editrice Ferraro, 1987.
Campana, D. Il più lungo giorno. Riproduzione anastatica del manoscritto
ritrovato dei Canti Orfici. Archivi, Arte e cultura dell’età moderna in
collaborazione con Vallecchi editore: Roma e Firenze, 1973. Copia numerata.
Pariani, C. Vita non romanzata di Dino Campana. A cura di C. Ortesta. SE:
Milano, 2002. Titolo originale: Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e
di Evaristo Boncinelli scultore, 1938.
Sitzia, S. “Per ua nuova edizione del “Quaderno” di Campana. Testimoni e
varianti di tradizione. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiano
Otto-Novecentesca (OBLIO), I (2-3), 2011. Testo disponibile
su https://www.campadino.it
Toschi, P. “Il Rimbaud della Romagna”, Il Resto del Carlino, Bologna, 27
novembre 1926. Testo disponibile su https://www.campadino.it
Turchetta, G. Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta. Giunti/Bompiani:
Firenze e Milano, 2020.
Turchetta, G. Dino Campana. L’opera in versi e in prosa. I Meridiani. Milano:
Mondadori, 2024.
Vèroli, L. pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo.
Associazione Melusine e La Vita Felice: Milano, 2020.
--------------------------------------------------------------------------------
[i] Tranne laddove indicato, tutti i riferimenti in corpore al testo sono da
Turchetta 2024.
[ii] La traduzione dal francese è dell’autrice.
[iii] Paradiso, XXIV, 55-60.
[iv] Per una nota critica sulle prime pubblicazioni dei testi del Quaderno,
Sitzia 2011.
[v] Magistrale l’analisi dell’autore su “Arabesco-Olimpia” (Turchetta 2024,
1326-1329).
[vi] Lettera 139 di Sibilla Aleramo a Dino Campana, 6-7 agosto 1916.
[vii] Lettera 208 di Dino Campana a Sibilla Aleramo, 4 gennaio 1917.
[viii] Aleramo in Vèroli 2020, 91.
*In copertina : Max Kllinger, Una vita, 1885 ca.
L'articolo “…ne la luce catastrofica”. Attorno al Meridiano Campana di Gianni
Turchetta proviene da Pangea.
Tag - Dino Campana
Tutto, in Dino Campana, è leggenda, vince la legge dell’ebbrezza, vige una
specie di angusta agiografia, l’artigliata del mito. In sostanza, è tutto, per
lo più, reso al frantoio del frainteso. Così, il personaggio Campana ha finito
per sostituire, malauguratamente, il poeta; l’Orfeo di Marradi ha preso il posto
dei Canti Orfici, il “libro” assoluto del secolo. Campana è stato, di volta in
volta, eroe da romanzo – nel libro di Sebastiano Vassalli, La notte della
cometa, ad esempio – e icona di brutti film – Un viaggio chiamato amore (2002),
con Michele Placido alla regia –, amante selvaggio (l’infoiato di Sibilla
Aleramo) e matto, l’uomo elettrico di Castel Pulci. Il tutto tenendo a premurosa
distanza un’opera unica: prenderla sul serio – e non come un repertorio di
folgoranti ‘mattane’ – avrebbe significato riformulare i canoni della poesia
italiana del Novecento. Se Dino Campana è “uno dei pochi davvero grandi del
nostro Novecento” (così Edoardo Sanguineti in Poesia italiana del Novecento,
Einaudi, 1969), l’iniziatore del canone ‘inverso’ della nostra lirica (rispetto
alle linee consolidate, aperte da Ungaretti-Montale-Saba), oscuro bombarolo del
linguaggio, lettore barbarico che rifugge dagli infingimenti letterari non in
virtù di una presunta ingenuità ma di una geniale presunzione dello sguardo
‘all’infinito’, oltre il metronomo dell’ombelico, del cuore, dell’anima in
ghiaccio, i nostri giudizi letterari vanno scardinati.
Dino Campana – “il solo esempio radicale, nella poesia novecentesca, di un’arte
tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie”, Sanguineti – è il punto di
scaturigine, il Mosè e il profeta, di una genia di ribelli al linguaggio che
tiene insieme, in ordine sparso – per dire –, Onofri, Boine e Rebora, Lorenzo
Calogero e Dario Villa, Ivano Fermini e Alessandro Ceni. Non avanguardisti,
bensì lirici inadempienti ai modi del mondo, immondi alle mode, spesso nutriti
di letture aliene – additare a ‘provinciale’ uno come Dino Campana, lettore di
Whitman e Nietzsche, di Baudelaire, di Edgar Allan Poe e di John Ruskin, fu
avventatezza da provinciali. In questo senso, la critica letteraria ha da
lavorare con la cazzuola e il martello.
Ma tutto è frainteso quando si parla di Dino Campana. Il gadget del ‘poeta
pazzo’, l’etichetta da “Rimbaud italiano” (Sanguineti) per non dire da “Rimbaud
della Romagna” (così Paolo Toschi nel 1926), il poeta “passato come una cometa”
(Cecchi) hanno arricchito le chiacchiere minando l’assunzione critica. Un
significativo istrionismo del caso ha fatto sì che una delle fotografie più
divulgate di Dino Campana non gli appartenga: raffigura un compagno di classe,
Filippo Tramonti, poi cancelliere di tribunale. L’ultimo appello del Centro
studi di Marradi “per rimuovere la foto dal web” è stato diffuso dal “Corriere
Fiorentino” il gennaio scorso. Dino Campana pare sempre sfuggire a chi vuole
circoscriverlo in aggettivi, immagini, giudizi.
Così, fino a ieri Campana era additato a poeta per lo più ottocentesco,
dannunziano (la tesi, in sintesi, di Pier Vincenzo Mengaldo, che chiude le
paginette dedicate a Dino nei Poeti italiani del Novecento con una battutaccia:
“Probabilmente si può dire di lui quello che Debussy disse – a torto – di
Wagner: che era un tramonto che poté sembrare un’alba”). Ci è voluto lo studio
trentennale di Gianni Turchetta per avere un degno ‘Meridiano’ Mondadori a
raccogliere L’opera in versi e in prosa di Dino Campana, strumento decisivo (son
quasi duemila pagine) per leggerlo come si deve, così com’è. Molti poeti con
l’alloro si sono nutriti dell’orfico canto di Campana (Eugenio Montale – “In lui
nulla fu mediocre”, scrisse in un saggio del 1942 – e Mario Luzi tra gli altri).
Giovanni Boine ne riconobbe il timbro immediato, inaudito (leggendo Campana,
scrisse nel 1915 su “La Riviera Ligure”, “entri in un’atmosfera d’ansia, sei a
balzi via trascinato di là dai confini del tuo consueto andare, chissà dove,
chissà dove per disperazioni d’irrealtà”); Bino Binazzi, nel 1922, sul “Resto
del Carlino”, trasse dal precipizio di Campana un monito:
> “Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un
> tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo
> anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu
> ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti”.
Quell’anno, in altri luoghi, con altri esiti, uscivano La terra desolata di
Eliot e l’Ulisse di Joyce. Libri destinati, come si dice, ‘a fare la storia’.
Campana, inesausto al proprio tempo, inesauribile, deve ancora compiere la
propria storia. Nasce oggi.
Lei apre il ‘Meridiano’ dedicato a Campana con una asserzione che pare
provocatoria: “ancora aspettiamo una sua serena assimilazione al canone della
poesia italiana del Novecento”. A cosa si deve l’ispida solitudine critica
attorno a Campana? Ricordo che Edoardo Sanguineti, tuttavia, nella
folgorante Poesia italiana del Novecento, aveva issato Campana nel cuore del
canone. Non è forse lui, al di là della nota trimurti – Saba-Ungaretti-Montale –
l’eroe di un canone ‘alternativo’ della nostra lirica, il cui ‘effetto’ è più
pervasivo di quanto non appaia?
Non credo che la mia affermazione sia provocatoria. Mi pare abbastanza evidente
che Campana non è stato assimilato in modo sereno e organico alle
interpretazioni più consuete della nostra storia letteraria e conseguentemente
non ha ancora trovato una serena collocazione nei manuali del triennio delle
superiori. Certamente questo è avvenuto per svariate ragioni. La prima è
sicuramente una ragione di tipo culturale: Campana ha una formazione decisamente
atipica rispetto a quella più consueta dei nostri letterati, una formazione
Internazionale, fondata su vastissime letture dei testi originali,
complessivamente non ben decifrata dalla maggior parte degli intellettuali
italiani. Certo ha poi influito in negativo l’interpretazione, solo
apparentemente ovvia, della sua biografia in chiave di maledettismo,
un’interpretazione che ha confuso il territorio, ostacolando una rigorosa
lettura formale dei suoi testi e schiacciando Campana sulla sovrapposizione tra
poesia e follia: stereotipa, e di fatto profondamente fuorviante. Infine, da
questo punto di vista mi pare che la critica abbia fatto troppa fatica a
cogliere nei procedimenti della sua poesia, e soprattutto nella proliferazione
capillare dei procedimenti di ripetizione, non una dissoluzione dei significati
(come ipotizzato più per ragioni biografiche che per un’attenta lettura dei
testi), ma, tutt’al contrario, una tecnica a suo modo rigorosa di costruire
significati molto complessi e sfumati, ad alta densità, dove la dimensione
verbale si fonde organicamente con la costruzione sonora, diciamo pure con la
musicalità.
“Canti Orfici”: un titolo al contempo leopardiano e profetico (penso ai Sonetti
orfici di Rilke). Le chiedo dunque: come dobbiamo intendere l’orfismo di
Campana?; in che senso Campana è leopardiano?
Direi che dobbiamo anzitutto intendere l’orfismo di Campana come aspirazione
a un sapere assoluto, di natura intuitiva e irrazionale, una specie di
misticismo laico, che ha al centro la poesia come strumento di una conoscenza
superiore. In questo senso, l’orfismo campaniano si riallaccia al recupero della
tradizione magica ed esoterica avviato col Romanticismo e proseguito con il
Simbolismo: Novalis, Nerval, lo stesso Rimbaud. Su questa linea l’Orfismo si
incontra con la sperimentazione avanguardistica. Per altri versi, è
vero, Campana è profondamente leopardiano: ma il suo leopardismo ha ben poco
della dimensione “orfica”. La dimensione di verità assoluta e irrazionale,
portante nella poesia campaniana, mette radici nel Romanticismo, ma è molto
lontana dal peculiare Romanticismo di Leopardi, intriso profondamente di
razionalità illuministica. Se può servire una formula: Campana è un nietzschiano
coerente, e come tale non è illuminista. Per molti altri aspetti, tuttavia, la
poesia di Campana è tutta intrisa di Leopardi, che funziona, insieme a Dante,
come il principale raccordo con la tradizione poetica italiana. Per Campana,
Leopardi è inoltre anche un esemplare modello di moralità, una moralità che fa
tutt’uno con la vocazione rigorosa alla poesia. D’altra parte, proprio la
dedizione alla poesia permette di mettere in scena l’indefinito, la lontananza,
se vuole anche l’infinito e la grandiosità del cosmo. In questo penso che
Campana debba molto a Leopardi. Campana ha inoltre assimilato in profondità e
ripreso con rigore e originalità proprio la musica leopardiana, intesa anche in
senso strettamente tecnico, come metrica: l’analisi dei testi evidenzia una
presenza costante, profondissima, del modello della canzone libera leopardiana,
cioè di una libera alternanza di endecasillabi e settenari, con una presenza
assai variabile della rima. In questo senso va dato un peso davvero molto
considerevole alla presenza leopardiana, che compare un po’ dovunque nella
poesia campaniana.
Gioco con le W doppie. Ergo: in Campana agisce, per ammissione, la forza di Walt
Whitman – ma anche quella di Wagner. Come questi due ‘titani’ entrano
nell’immaginario di Campana?
Comincio da Wagner, che certo ha contato molto come suggestione musicale, e
anche con la poetica del Gesamtkunstwerk (Opera d’arte totale), in linea con una
prospettiva di rimescolamento di parole, musica e immagini. Inoltre Campana
condivide con Wagner e Nietzsche l’idea della necessità di un incontro fra
la Kultur tedesca e la Civilisation francese, e più in generale fra la
dimensione della mediterraneità, del Meridione, e quella della germanicità o del
Nord, con cui deve convivere. Sappiamo però che Campana legge molto presto (in
tedesco) gli scritti tardi di Nietzsche, dove Wagner viene attaccato duramente:
certamente li apprezza, ed è probabile che ne derivi qualche tratto di critica
al wagnerismo e alle sue mitologie: si legga per esempio una lettera all’amico
Aldo Orlandi, dove parla di “paradisi asfittici wagneriani”. Il discorso su
Whitman è ancora più complesso, perché il grande Bardo americano è per Campana
un modello capitale, come dichiarato più volte, e come testimoniato in modo
inequivocabile dalla scelta di usare versi di Whitman per l’epigrafe finale
dei Canti Orfici. Ricordiamo anche che Leaves of Grass è l’unico libro che
Campana porta con sé in Argentina. Per il Meridiano ho ristudiato a fondo la
presenza di Whitman nella memoria poetica campaniana, una presenza molto più
capillare di quanto non si sia finora notato, come si può vedere nelle note.
Whitman comunica a Campana la profonda esaltazione di fronte alla inesauribile
varietà e bellezza del mondo. Anche quel tanto di profetico che troviamo
nei Canti Orfici ha molto di whitmaniano, così come l’aspirazione a un
rinnovamento complessivo dell’Uomo: come si legge alla fine di Pampa, in un
contesto non a caso americano: “l’uomo libero tendeva le braccia al cielo
infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio”. Ancora, c’è molto di
whitmananiano nella costante messa in scena di un io che cammina per il mondo e
si sforza di renderne la dinamica molteplicità, che lo entusiasma: a suo modo,
anche Campana scrive un Song of Myself. C’è infine una profonda sintonia con
Whitman anche nell’atteggiamento di chi attribuisce grandissima importanza alla
poesia, specialmente alla propria, come diretta espressione della sua vita
stessa, della sua creaturale corporeità; nella sua poesia, come ci dice
parecchie volte, Campana lascia letteralmente il sangue, “the boy’s blood”, che
sono non a caso le ultime parole del Libro della vita.
A tratti, Campana pare il Gauguin della poesia italiana. Il poeta che ritorna al
bosco, tenta il ‘selvaggio’ per innovare le forme liriche? È così?
L’ostentazione della primitività, che fa tutt’uno con la possibilità di cogliere
l’origine, quindi, di nuovo, una dimensione di verità assoluta, è certo una
mitologia fondamentale della cultura del tempo, una mitologia che ha avuto un
peso molto notevole fino ai nostri giorni. D’altro canto, se lasciamo da parte
il folklore e le ostentazioni biografiche (come il fatto che Campana stesso si
definisce e a volte si firma, “uomo dei boschi”), si tratta largamente di un
mito, che rischia di essere a sua volta fuorviante. La poesia di Campana è
incredibilmente intrisa di cultura letteraria, ma anche pittorica e filosofica:
l’evidenza di un fittissimo tessuto di citazioni non può essere in nessun modo
sottovalutata. In questo senso, Campana è tutto tranne che “selvaggio”. D’altro
canto, è vero che Campana rimette in gioco alla radice la materia culturale
iniettandovi la forza di un’esperienza vissuta travolgente e certo molto
particolare, che fa saltare le convenzioni nel profondo. L’effetto di
rivitalizzazione del linguaggio poetico è innegabile. Ma è frutto di una miscela
molto originale di raffinata cultura e esperienza vitale, che piega la cultura
in forme nuove e inattese: non certo di una regressione pre-culturale.
…ma: è davvero andato in America Latina Campana?
Certo che ci è andato! Sono davvero molto cervellotici e un po’ capziosi i dubbi
avanzati sulla verità del viaggio in Argentina, nientedimeno che da Giuseppe
Ungaretti. Ma i documenti a nostra disposizione, pur non offrendoci una certezza
assoluta, ci portano comunque molto vicini alla certezza. Abbiamo infatti un
Registro dei Passaporti da cui risulta che il padre di Campana, Giovanni, ritira
un passaporto per Buenos Aires intestato a suo figlio Dino nel settembre del
1907 (allora i passaporti si rilasciavano per destinazioni specifiche). Ci sono
poi le testimonianze di suo zio Torquato e del fratello Manlio, che lo hanno
accompagnato a Genova fino alla nave e lo hanno visto partire. Gli eredi
possiedono poi delle carte che certificano l’indirizzo della famiglia italiana
di Buenos Aires, amica dei Campana, da cui Dino si è recato (raccomandato e con
una lettera di accompagnamento che chiedeva di farlo lavorare in farmacia per le
sue competenze universitarie in Chimica), salvo poi sparire dopo appena un paio
di giorni. Un notevole dato indiretto sta inoltre nel fatto che dovunque andasse
Campana lasciava evidenti tracce burocratiche del suo passare, documentate dalle
carte a nostra disposizione: fermi di polizia, arresti, fogli di via. Ebbene,
dal settembre 1907 (si noti bene, cioè da pochi giorni dopo il rilascio del
passaporto) fino al marzo 1909 non c’è più nessuna traccia di Campana né in
Italia né nel resto d’Europa: una circostanza a dir poco sorprendente. Siamo
dunque pressoché sicuri che in quel periodo Campana non fosse in Europa. Infine,
non abbiamo neanche cominciato a prendere in considerazione l’evidente
fondatezza delle rappresentazioni campaniane del viaggio e poi della vita in
Argentina: in particolare, quelle relative al viaggio (soprattutto in Viaggio a
Montevideo, ma anche in altri testi, come la più antica poesia
del Quaderno intitolata Buenos Aires) e al suo lavoro come sterratore per la
costruzione della ferrovia nella Pampa, di cui ci parla nel brano omonimo, già
citato. Ci vuole più fantasia a immaginare Campana che si procura una
bibliografia sull’argomento (e dove poi? In Europa difficilmente l’avrebbe
trovata in biblioteca, sono libri argentini…) che ad ammettere, come pare
inevitabile, che sta parlando di un’esperienza vissuta direttamente, che ha
lasciato in lui ricordi intensi e profondi, come del resto mostrano i testi.
L’unica ragione per dubitare del viaggio argentino è il pregiudizio su quanto
racconta un uomo che è morto in manicomio. Ma quello che racconta Campana è
quasi sempre vero.
Nel lungo peregrinare sulle tracce di Campana, nel perpetuo indagare, che cosa
l’ha sorpresa di più? Qual è l’episodio nella vita di Campana che ha avuto per
lei il senso di una rivelazione?
Studio professionalmente Campana dal 1982. In tutti questi anni sono molte le
scoperte fatte, ma faccio fatica a dare a qualche episodio una specie di
primato, appunto come di una “rivelazione”. Molte cose certamente emergono dalle
lettere, dove il poeta si mette a nudo e alle volte ci rivela aspetti
illuminanti, in modo più o meno volontario. Trovo per esempio rivelatore quanto
scrive in una lettera a Prezzolini del gennaio 1914: “io ho bisogno di essere
stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere
stampato.” Qualche anno prima, nel 1910, in una lettera alla rivista «La difesa
dell’arte», aveva scritto: “Io sono un uomo ancora inedito”. Siamo al limite del
lapsus: evidentemente erano inediti i suoi testi, non lui stesso come “uomo”…
Campana sente di essere poeta vero, ma sa anche, lucidamente, che per essere
“poeta” fino in fondo è necessario essere riconosciuto come tale dalla comunità
letteraria, dai cosiddetti “detentori del gusto”. Vive però questa condizione
con drammatica radicalità, come se dalla pubblicazione dipendesse la sua stessa
esistenza: “per provarmi che esisto”. Sono parole che mostrano l’intensità e
profondità sconvolgenti con cui Campana vive la poesia, facendola tutt’uno con
se stesso. Se non capiamo bene questo punto faremo fatica a cogliere in maniera
adeguata quanto siano per lui psicologicamente terribili le vicende riguardanti
i suoi testi, a cominciare dallo smarrimento del manoscritto di Il più lungo
giorno, quanto possano andare a incidere direttamente e dolorosamente sulla sua
vita affettiva. Voglio però aggiungere un altro episodio della vita di Campana
che molto raramente è stato letto nella maniera corretta, cioè come un elemento
sdrammatizzante: la pubblicazione stessa dei Canti Orfici, grazie a una
sottoscrizione di amici a Marradi. Anzitutto, non sono pochi i grandi libri del
Novecento pubblicati a pagamento e in modo avventuroso; in questo senso, il
mitico libro di Campana non è affatto un’eccezione. Non è questo il punto:
dobbiamo invece piuttosto prendere atto che non ci sono stranezze dovute alla
pazzia dell’autore e alla sua condizione precaria, nei primi decenni del secolo
era normale che le cose andassero così. Anche Gli indifferenti di Moravia, tanto
per fare un esempio davvero molto lontano, è stato pubblicato a pagamento…
Sarebbe il caso semmai di rendersi conto che non è affatto così scontato che in
un paese come Marradi ci siano poco meno di cinquanta persone che tirano fuori
dei soldi per far pubblicare un libro di poesia! Possiamo escludere
drasticamente che avessero tutti capito l’importanza del Libro di Campana. Però
forse, nonostante tutto, egli aveva fra i suoi concittadini più amici di quanto
non ci dicano la vulgata e lui stesso, parlando sempre, in modo stereotipo,
della persecuzione e della solitudine del genio incompreso. Ci vorrebbe un po’
più di equilibrio e di attenzione ai dettagli, cioè alla realtà concreta, per
leggere le vicende, evitando di trasformarla in storielle consolatorie…
Vengo a uno dei momenti capitali: Soffici perde il manoscritto del Più lungo
giorno. Eppure, pochi anni prima, aveva scritto una tonante biografia su
Rimbaud. Come si coniuga una quasi pregiudiziale affinità con i ‘maledetti’ alla
spavalda cecità nei confronti del “Rimbaud italiano”?
Temo che non ci sia molto da capire: Soffici era un uomo intelligente, colto,
aperto alla cultura internazionale, che conosceva come pochi, specie per le sue
frequentazioni parigine; ma era anche snob, presuntuoso, tutto centrato su se
stesso, certo del tutto distaccato dai problemi altrui e men che meno a quelli
di uno sconosciuto che gli portava un libro. Chissà quanti altri gliene
capitavano… Di Campana e del Più lungo giorno non gli importava granché,
insomma: questo basta sicuramente a spiegare la sua mostruosa, comunque
stupefacente distrazione. Sono certo che perse il manoscritto non per qualche
complicazione psicologica (come l’invidia per un poeta di fatto più bravo di
lui), ma semplicemente per indifferenza, orribile superficialità, disinteresse.
Non so fino a che punto ci fosse affinità fra di loro, a parte, certo, la comune
partecipazione a un contesto artistico e culturale: in questo Soffici
rappresentava, per Campana e per molti altri, un punto di riferimento, specie
per la tempestività e la competenza con cui scrisse di avanguardie, di Futurismo
e Cubismo, come pittore oltre che come studioso. Ma penso proprio che Soffici…
non si sia mai accorto di affinità fra lui e il povero Campana. Solo quando
i Canti Orfici sono usciti ha recitato la parte di chi era ammirato dalla loro
poesia (forse un po’ lo era davvero) e ha poi messo in piedi il colorito
ritrattino di Campana che leggiamo nei suoi ricordi: ma non ci vuole particolare
sensibilità o finezza interpretativa per cogliere nelle parole di Soffici un
atteggiamento sprezzante, con tratti di malcelato cinismo, l’atteggiamento, è
evidente, di un ricco aristocratico verso un poveretto venuto dalla provincia,
che gli pareva un poco tollerabile cafone e evidentemente gli faceva un po’
schifo. Questa è la questione centrale. Aggiungiamo poi che Campana, anche se
nei suoi testi ci sono non poche citazioni testuali da Rimbaud, non lo amava
affatto, come ha scritto più volte: i suoi poeti francesi di riferimento erano
Baudelaire e Verlaine, assolutamente non Rimbaud. Campana, inoltre, ha poco a
che fare con la poetica del Maledettismo, cui non ha mai aderito. È vero che ha
vagabondato tanto, ma, al di là di questa somiglianza biografica, sul piano
letterario il paragone con Rimbaud è davvero molto vago. Con ogni probabilità
Campana lo avrebbe rifiutato con sdegno.
In tanti subodorano il genio di Campana – penso a Boine, poeta che sarebbe
giusto, per eccessivo talento, far riemergere dall’oblio – ma chi davvero crede
nei Canti Orfici, imbracciandolo come un libro decisivo?
Inizialmente forse solo il suo amico Luigi Bandini, detto Gigino, intellettuale
marradese di notevole spessore, autore di testi filosofici. Gigino fu il
promotore della sottoscrizione per la pubblicazione del Libro di Campana.
Campana aveva profonda fiducia in lui, tanto da spedirgli la versione quasi
definitiva delle sette poesie dei Notturni dei Canti Orfici, che possediamo
appunto nei fogli manoscritti detti Carte Bandini. Certamente credette subito e
pienamente nel valore della poesia di Campana anche Federico Ravagli, che a
Bologna gli fece pubblicare i primi testi. Dopo l’uscita del Libro, certo quelli
che credettero in lui furono un po’ più numerosi, a cominciare da Mario Novaro,
che gli pubblicò vari testi su «La Riviera Ligure». Ma avevano grande
considerazione di Campana altri liguri, come Boine e Sbarbaro, e altri poeti e
artisti, fra i quali Cardarelli e Carlo Carrà. C’erano poi alcuni giovani che
già cominciavano a costruire il mito di Campana: Bino Binazzi, Francesco
Meriano, Lorenzo Montano, Renato Fondi. Sono, certo, figure di spessore minore,
ma già ne avevano una considerazione che sfiorava la venerazione e certo ebbero
un ruolo importante nell’avviarne la fama. Dobbiamo comunque sottolineare come
fu Attilio Vallecchi, con l’edizione del 1928 (Canti Orfici ed altre Liriche.
Opera completa, con prefazione di Bino Binazzi), a tramandare di fatto la poesia
di Campana alla generazione degli Ermetici, che ne fece un riferimento
imprescindibile: Bargellini, Fallacara, Luzi.
Il mito del ‘poeta pazzo’: ha giovato o ‘maledetto’ la ricezione critica di
Campana?
Gli ha enormemente nuociuto, non c’è dubbio, e non è ancora finita. Molti
critici, a cominciare da Papini, semplicemente non lo hanno preso in
considerazione perché lo hanno identificato con il suo squilibrio e soprattutto
con la tragica vicenda dell’internamento definitivo. Altri hanno continuato a
scrivere interventi magari anche di livello, ma visibilmente sempre influenzati
da resistenti pregiudizi sulla mancanza di controllo, sulla perdita di
significato, sulla scarsa consapevolezza, sulla cultura “vecchia”. L’elenco
sarebbe lungo. Ma è chiaro che sono ancora ricadute della troppo resistente
mitologia del poeta pazzo, pericolosa anche quando viene virata al positivo, con
l’immagine, pure fuorviante, del mistico trascinato all’assoluto dal demone
della poesia, che farebbe tutt’uno con la follia. Sono davvero convinzioni
pervicaci, che ignorano in gran parte l’evidenza dei dati filologici e testuali,
dai quali si può vedere bene come Campana scrivesse seguendo una cosciente
progettualità. Aggiungo inoltre che quando stava male non riusciva a scrivere:
quindi, non Poesia e Follia, ma Poesia o Follia. Quando la Follia si affermava,
la Poesia non esisteva più. Anche questo Campana lo ha segnalato varie volte,
con una lucidità e un equilibrio che sarebbe bello ritrovare anche nei suoi
critici…
Chi rimane vicino a Campana durante i lunghi, lunghissimi anni dell’internamento
a Castel Pulci? Campana si occupa dei Canti Orfici, chiede mai notizie delle sue
poesie?
Non sono moltissime le persone che andavano a trovarlo. Anzitutto, sua madre,
che pure era stata l’oggetto primo delle sue pulsioni aggressive. Suo padre
invece non ebbe mai il coraggio di andarlo a visitare in manicomio.
Comunque, Dino non gradiva molto le visite e certo le scoraggiava. Fra le poche
persone che lo andarono a trovare nei lunghi anni di Castel Pulci ci sono il
fratello Manlio, lo zio Torquato, il cugino Raffaello “Lello”, Leonetta Cecchi
Pieraccini, l’amico pittore Primo Conti, il critico Fernando Agnoletti. Molto
recentemente abbiamo poi scoperto, attraverso la pubblicazione del carteggio fra
Conti e Corrado Pavolini (pubblicato nel 2023, per le cure di Marcello
Verdenelli e Costanza Geddes da Filicaia), che c’era anche chi, come Pavolini,
gli scriveva in manicomio, chiedendogli pareri su vicende culturali: non
sappiamo però se Campana abbia mai risposto. Per molti anni Campana pare avere
un atteggiamento di rifiuto nei confronti della sua poesia, come sappiamo già
dalla fine degli anni Trenta dai resoconti dello psichiatra Carlo Pariani, che
lo guida in una specie di commento a tutta l’edizione Vallecchi del 1928. Sono
dichiarazioni comunque utilissime, anche se Pariani ha lo sguardo un po’ angusto
di un medico positivista. Infine, nelle due lettere inviate nel 1930 a Bino
Binazzi e al fratello Manlio, in un periodo in cui sta meglio, tanto da far
addirittura ipotizzare un suo ritorno alla vita libera.
Ultima. Qual è la poesia di Campana che continua a emozionarla, che vale
innumeri riletture?
Sarà banale, ma io continuo a emozionarmi leggendo La Chimera, con la sua
straordinaria progressione finale. Vorrei però ricordare anche un piccolo
gioiello al di fuori dei Canti Orfici,Donna genovese, che ci fa ben capire come
per Campana le donne fossero anche tramite per la felicità, non solo per la
sofferenza. Lo mostra anche uno dei più incredibili passi di tutto Campana, il
finale del paragrafo 19, e penultimo, di La Notte, la cosiddetta “sinfonia in
viola”. Davanti a passi del genere mi domando come sia possibile non riconoscere
che siamo davanti a un grande, grandissimo poeta.
L'articolo Dino Campana, il poeta totale. Dialogo con Gianni Turchetta proviene
da Pangea.