Tag - economia

Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant (mica Fubini…)
Quanto mi piacciono i libri dai quali esco sapendone qualcosa in più rispetto a quando ci ero entrato! Volevo fosse il caso dello spillato di Federico Fubini, omaggiato dal “Corriere della Sera” del trenta giugno. Titolo: Dazi. Sottotitolo: Il secolo della guerra economica. In copertina: guantone a stelle strisce contro guantone a stelle europee, perché l’immaginario italo-americano resta affezionato allo Stallone di Balboa, e nel sottopancia un istogramma in dissolvenza, come fossero grattacieli lynchiani.  In effetti i guantoni, il sinistro sulla destra che cozza col destro sulla sinistra, potrebbero essere dello stesso pugile, per cui il dubbio: è una guerra autolesionista, e schizoide, se non proprio l’ennesimo show per un pubblico pagante pago di vedere gli altri darsi apparenti botte da orbi, in pieno stile wrestler, restando cieco di fronte all’evidenza che a finire pestato più di tutti resterà lui, pubblico spettatore, e non certo i proprietari dell’arena, i fornitori, i preparatori atletici, i lottatori in scena, gli sponsor dell’evento, le emittenze varie e eventuali? L’estenuante guerra vinta dai ricchi che continuano a dichiararne, terrorizzati come sono dall’idea di esserlo meno. Guerre combattute dai poveri, magari lo fossero solo di spirito, contro i poveri di volta in volta convinti di averlo finalmente trovato il ricco che renderà ricco anche loro, alla faccia di chi povero lo resterà anche stavolta perché avrà puntato sul ricco sbagliato, neanche l’errore madornale non fosse continuare a stare nello stesso gioco della guerra su cui si fonda la straricchezza di quei ricchi che sanno arruolare i poveri con la sola promessa di ricchezza, guadagnandoci pure, arricchendosi assecondando la propria natura, del resto i poveri non stanno tanto a sottilizzare tra una povertà e una ancora peggiore. Almeno per un po’ si saranno illusi di qualcosa, un altro niente di fatto è pur sempre meglio del solito niente di prima.   Metti il dazio, togli il dazio, questo dazio qua spostalo là e quello là mettilo qua, la politica doganale trumpiana è esilarante, è il gioco degli “assetti del potere” che sta creando “ostacoli al commercio internazionale” facendo barcollare nella sola Europa “trenta milioni di posti di lavoro”, ciò non toglie non serva un Dario Fo per metterla in opera buffa: sembra proprio di stare nella favola dell’imperatore che brontola nell’attesa di quel bimbo che lo punterà a dito per dirgli quant’è nudo, stufo – l’imperatore – di dover continuare a andare in giro chiappe all’arie rischiando di buscarsi polmoniti, alla sua età!, attorniato da comprimari il cui massimo sforzo critico è civettare un Presidente, ma quanto le dona la calzamaglia color carne! Che lo scenario economico e quindi geopolitico mondiale sia favoloso lo scrive Fubini stesso, ricordando come degli “organismi internazionali dalle regole condivise quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o l’Organizzazione mondiale del commercio” ormai resta “quasi solo il guscio: vuoto come la corazza del Cavaliere inesistente del romanzo di Italo Calvino.” L’avverarsi delle ambizioni della sinistra più antagonista, per opera del suo antagonista più spavaldo e beffardo.  Di macroeconomia e dunque del nocciolo della politica cosa mai ne posso capire io lettore di letteratura, in particolar modo di quegli scrittori che tante volte provocano tali buchi a bilancio cheppoi va da sé gli editori debbano stampare chef, tiktoker, ex-presidenti del Consiglio e giallisti tinti di nero per non doversi riciclare del tutto in copisterie di catena? Non ho le carte, non faccio deal, sono profano al punto da trovare brillante una sintesi associativa che immagino del tutto usurata per indicare gli effetti dell’economia finanziaria su quella reale, “da Wall Street a Main Street”, e da mandare giù come pillola prescritta dello specialista la descrizione di stablecoin: le chiamiamole valute “digitali private sostenute da depositi, per lo più in dollari, di valore equivalente”.   Sono il corrispettivo italiano di quegli americani, stimati il 38% del totale, “che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e che non hanno altro che debiti”, convinti – erroneamente – “di avere poco a che fare con l’andamento di Wall Street e molto da perdere dalla globalizzazione”, dico erroneamente perché se il 38% di americani azioni non ne ha, il restante 62% sì, e se si rovinano economicamente due americani su tre, il terzo non si arricchirà certo a loro spese, anzi: loro le spese le ridurranno, potendosele comunque permettere, e sarà proprio il terzo, ulteriormente colpito dalle contrazioni del mercato, a rimetterci il poco che aveva e vedere ancora più lontana la possibilità di acquistarla una Ferrari, ora che l’azienda “ha alzato i suoi listini del 10% prima ancora che entrassero effettivamente i vigori i dazi al 25% sulle auto in arrivo negli Stati Uniti.” Per dire: le conseguenze della guerra dei dazi non potranno mai essere le stesse per chi dovrà rinviare all’anno prossimo l’acquisto di una Ferrari e per chi già da ora deve pagare “spesso anche il 28% sulle loro carte di credito: interessi da mafia dei colletti bianchi, che in Europa verrebbero puniti per il reato di usura”. Da lettore non specialista ho l’ambizione anti-economica che Vollmann rielabori in centinaia e centinaia di pagine psichedeliche il materiale che Fubini precipita nel capitolo che in Dazi ne conta soltanto tredici: La storia nelle vite di tre uomini: Clinton, Stiglitz e Vance. Per essere più sintetici di Fubini: Stiglitz, nato in una steel town 82 anni fa, aveva capito per tempo “che la globalizzazione beneficia i detentori di capitale e i lavoratori con diplomi di college o con master in università prestigiose, nei Paesi avanzati; ma svantaggia chi non ha né qualifica né capitali” e aveva fatto in modo che il messaggio arrivasse a Clinton quando era lui il Presidente. Clitton il 20 aprile del 1999 dalla libreria della Casa Bianca disse: “Questo è il momento di agire per impedire che le crisi finanziarie raggiungano livelli catastrofici in futuro.”  Dopodiché non si agì affatto, e qui entra in scena Vance, nato in una steel town circa quaranta anni dopo Stiglitz, solo che Vance non diventa un economista anche premio Nobel e saggista prolifico tanto acquistato quanto ignorato come Stiglitz: Vance a 32 anni pubblica Elegia americana prima di diventare vicepresidente degli States a 40, rappresentando in pieno la narrazione dell’elettorato di Trump: uno che non ci crede più ai rimedi macroeconomici di uno Stiglitz, uno che rivuole la fabbrica in casa anche se da casa sua sta espellendo i migranti indispensabili per coprire la forza lavoro richiesta. Vance vuole riscatto ovvero vendetta subito, Promuovendo l’America Grande Ancora, il cui acronimo un italiano forse rende meglio l’idea. E se sostituissimo Promuovendo con Costruendo?  Riflessione: lo scrittore di autofiction Vance ha e ha avuto un effetto sul mondo cosiddetto reale molto più sensibile dello stimato e inascoltato saggista Stiglitz. Dipende dai lettori che raggiungi, da come li raggiungi, da cosa gli racconti, se quello che racconti a quegli stessi lettori piaccia doverlo sentirselo dire, dopo essersi dovuti prendere persino l’impegno di leggerlo, per ascoltarlo.   E cosa dovrebbe gridare il bambino europeo al petulante imperatore nordamericano che lascia indizi peggio di Pollicino, sbottando ogni tanto un vagamente depistante meglio un jockstrap in filo spinato che un fottuto kimono di seta cinese? Scrive Fubini: chiamare col suo nome la coercizione economica fra Stati che è l’ultima moda del commercio internazionale, poiché  > “In sostanza Trump e Bessent [il Segretario del Tesoro] potrebbero stare > cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare > debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti > contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori > americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.”  Che gli unici valori realmente difesi dalle civiltà egemoni odierne o meno, quelli per i quali sono disposte ad architettare aggressioni verso tutto e tutti dalle soft alle ultrahard, siano quelli che ci stanno in una borsa, specialmente se la Borsa è la loro, per capirlo mica bisognava aspettare il ventunesimo secolo e leggere Fubini! Bastava l’Ottocento e leggere Balzac. O Bel Ami di Maupassant, che secondo me è la più bella biografia mai scritta sui normalissimi uomini di potere, e dei secoli precedenti al 1885, anno in cui fu pubblicato, e di quelli a venire. Per le mire dell’America made-in-Trump verso la per nulla virginale Europa può valere il trattamento che George Duroy riservò alla ammansita, cavalcata e pussata via signora Walter: lei  > “D’un tratto, smise di lottare e, vinta, rassegnata, si lasciò spogliare.” antonio coda L'articolo Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant (mica Fubini…) proviene da Pangea.
July 8, 2025 / Pangea
Abitare il vuoto. Piccolo discorso sulla povertà e il reddito minimo universale
Un giorno dovremo fare nuovamente i conti con il vuoto.  Immaginate di svegliarvi, dopo l’ennesima notte inquieta in preda alle preoccupazioni, e di non dover più lavorare. Mai più. Nessuno di voi – quantomeno la maggior parte. Siete dei cassieri? Fotografi? Avvocati? Broker? Videomaker? HR? Scrittori? Segretari? Magazzinieri? Potrei andare avanti a lungo… ebbene, una mattina, l’Intelligenza artificiale vi avrà sostituito. Tutti. Ma proprio tutti.  Cosa farcene del tempo?  Siamo la società dell’iperconnessione, del brain rot, del burn out, della stanchezza, dell’angoscia (per citare i titoli di alcuni libri del filosofo Byung-chul Han).  Un bel giorno potremmo scoprire che il mondo può fare benissimo a meno di noi. In realtà ha sempre potuto fare a meno di noi, ma almeno, prima, avevamo una parvenza di utilità. Tanti finiranno sul divano come Homer Simpson, altri s’inventeranno nuovi lavori o si formeranno. Altri diventeranno dispensatori umani di abbracci o di grattini (ah, ci sono già), in un mondo sempre più freddo, ostile e tecnologico. Siamo pronti?  Avremo tempo, molto più tempo, e questo tempo ci metterà a disagio, in soggezione. Saremo obbligati a fermarci, a porci domande che non avevamo mai avuto il coraggio di porci, un po’ come avvenne durante il lockdown, ma all’ennesima potenza. Non a caso, proprio dopo il Covid, in America e in Europa è nato quel fenomeno detto Grandi Dimissioni.  Fermarsi implica il sentire. È quello che avviene quando si medita: la gente si siede, porta l’attenzione al respiro, e si stupisce di non rilassarsi, di non sentirsi bene, di non levitare da terra. Come mai? Perché non succede quello che si vede nelle pubblicità o sui video sui social? Perché non sorrido beatamente volteggiando tra gli arcobaleni? Perché continuo a sentire? Anzi, sento di più.   Perché meditare vuol dire imparare a entrare in contatto con il vuoto.  L’uomo avrà di nuovo tempo, e si ritroverà a fare i conti con sé stesso. Come disse Filosofia a Boezio mentre era imprigionato in attesa della condanna a morte: “Ora so quale è la causa più grave del tuo male: non sai più chi sei”. La filosofia, proprio lei, che abbiamo relegato in soffitta, ma che ora ci converrà recuperare, perché potrà esserci utile più che mai, più che in qualunque altra epoca storica.  La contemplazione potrebbe diventare una componente imprescindibile nella vita di un uomo. E così l’arte, la letteratura, la poesia, la musica. Avremo tempo per pensare, per il riposo, per il silenzio, per coltivare l’orto, per passeggiare, per la preghiera, per meditare, per dipingere, per scrivere e creare, per reimparare a sognare, senza perché. E non più solo per vendere e diventare famosi, ma per il gusto del puro atto in sé. E la scuola tornerà a insegnare e a far riscoprire tutto questo. Dovrà farlo.  Questa è la versione ottimistica. In quella pessimistica, tanti si suicideranno. Molti impazziranno. Non troveranno più un senso. Il Fentanyl andrà via come il pane, molto più di adesso. Diventeremo molto più dipendenti dalle droghe, dall’alcol, dal sesso, un piacere caduco, che non si farà più per procreare ma per rammentarci la rilevanza della fusione di due respiri affannosi. La sensazione di vivere. Ci butteremo via dentro ai videogames, atrofizzati nella realtà virtuale. Non usciremo più di casa. Non servirà più. Non servirà più esistere in quell’Aperto – per citare Rilke e la sua Ottava Elegia – che in realtà non siamo mai stati capaci di abitare: > Con tutti gli occhi la creatura vede > l’aperto. Gli occhi nostri soltanto > son come rivoltati e tesi a lei intorno: > trappole al suo libero cammino. > Ciò che è fuori, puro, solo dal volto > animale lo sappiamo; perché già tenero > il bimbo lo volgiamo indietro, che veda > ciò che ha forma, e non l’aperto che > nel volto animale è sì profondo. Libero da morte. > Questa solo noi la vediamo; il libero animale > ha sempre dietro di sé il suo tramonto > e a sé dinanzi Dio, e quando va, va > nell’eterno; come vanno le fonti. > > Noi non abbiamo mai, neppure un giorno > lo spazio puro innanzi, nel quale all’infinito > si schiudono i fiori. È sempre mondo > e mai non-luogo senza non: il puro, > incustodito, che si respira, > si sa infinitamente e non si brama. Da bimbo > in questo si perde uno in segreto e > viene scosso. O un altro lo è morendo. > Poiché vicino a morte più non si vede morte, > si guarda fisso fuori, forse con sguardo grande d’animale. > Gli amanti, se non ci fosse l’altro che > la vista preclude, sono prossimi a questo e hanno stupore… > quasi per una svista, per loro dietro l’altro > si schiude l’aperto… di là da lui però > nessuno libero avanza ed è di nuovo mondo. > Alla creazione sempre rivolti, solo > specchiato vediamo in esso l’aperto, > oscurato da noi. O che un animale, muto, > alza lo sguardo, che quieto ci traversa. > Questo è destino: esser di fronte > e poi null’altro e di fronte sempre.  Tornerà anche il bisogno di Dio? Sappiamo che ha perso rilevanza non solo in Occidente ma anche nei paesi del Terzo Mondo. Ha avuto il suo appeal per millenni, soprattutto nei paesi poveri. Il concetto di liberazione dopo la morte dal ciclo delle reincarnazioni è nato in Oriente anche a causa di malattie, pestilenze, carestie e povertà che hanno sempre fatto pensare alla vita come a un inferno in Terra. E ancora oggi, per la maggior parte delle persone, la vita non è un meraviglioso viaggio di cui fare esperienza, è un incubo da cui liberarsi il prima possibile. La favola della “vita che vale sempre la pena di essere vissuta a ogni costo” è figlia del capitalismo occidentale. La felicità fa vendere, fa consumare, fa guadagnare. Tutto il pensiero orientale, il cristianesimo e anche lo stesso ebraismo e islamismo, non vedono la vita come qualcosa di cui fare tesoro, ma solo come un passaggio, spesso disastroso e durissimo, in attesa di condizioni migliori o dell’estinzione. Oggi, però, si crede sempre meno in un Dio che premierà i poveri e gli umiliati e offesi e in un paradiso che pacificherà le anime sofferenti.  Ma a parte il tempo, il vuoto, la filosofia, l’autodistruzione, Dio: con che soldi vivremo?  Sembra un’utopia, una fantasia di poco conto. Eppure, come scritto in un articolo de “L’Internazionale”, tutto questo potrebbe diventare realtà in tempi molto brevi. Come ci sostenteremo? Con una cosa che per molti ha un suono aberrante: il reddito universale, o basic income, che non è il reddito di cittadinanza (che è stato gestito malissimo e ha affossato qualunque possibilità di dialogo sul reddito universale).  Sono già stati fatti i primi esperimenti in Texas e Illinois, finanziati e ideati da Sam Altman, fondatore di OpenAI, grazie alla sua organizzazione no-profit OpenSearch: dare mille euro al mese a un gruppo di persone a basso reddito selezionate per la ricerca, per circa due anni. Il gruppo di controllo ha ricevuto cinquanta dollari al mese.  I risultati? Non sono stati catastrofici come si potrebbe pensare, anzi. Come scritto in un articolo sul “Corriere della Sera”, il gruppo che ha ricevuto i mille euro ha lavorato circa 1,3 ore in meno a settimana. Alcuni hanno chiesto di avere più tempo libero da dedicare alla famiglia. Si sono spesi più soldi per le cure mediche, il cibo, l’affitto. Sono aumentate del 5% le probabilità di avere un’idea per un’attività imprenditoriale e del 14% quelle per proseguire gli studi o fare formazione. Le persone non sono rimaste sul divano a non fare nulla, hanno ricominciato a programmare, ad avere idee, a fare progetti, a formarsi, a migliorarsi; hanno potuto dedicarsi alla salute e al benessere, vivendo con meno stress per paura degli imprevisti. Altman dice che l’AI è già pronta per effettuare una sostituzione di massa. Ma chi glielo dice ai governanti di destra o di sinistra che parlare di pensioni, di salario minimo, di flat tax ecc. è già roba vecchia?  Emanuele Murra – ricercatore e docente di storia e filosofia –, in un’intervista rilasciata a “Slow News”, ha parlato così del reddito universale:  > “La definizione minima di reddito di base è quella di un trasferimento > monetario finanziato con la fiscalità generale, erogato da un’autorità > pubblica. Si tratta di un reddito su base individuale, che non dipende dalle > condizioni economiche dell’individuo e che non presenta esigenze di > contropartite. Questo è ciò che rende unico il reddito di base universale. Il > principio del basic income è «l’idea di libertà: cioè che ogni cittadino deve > avere i mezzi per vivere in modo libero e dignitoso, indipendentemente dai > comportamenti, dalle scelte e dalle condizioni personali di vita»”. Tutto questo permette di ripensare totalmente il concetto di lavoro, definendolo non come una necessità ma come un valore aggiunto alla mia vita. Forse verrà anche finanziato con patrimoniali, tasse sugli extra profitti o sulle eredità, o con la ricchezza generata proprio dall’AI. Parole che non scandalizzeranno più come oggi, perché i ricchi non potranno più essere così ricchi se non esisteranno più i consumatori, dato che non ci saranno più i lavoratori.  Il reddito di cittadinanza portava a dover rinunciare al reddito per “scegliere” un lavoro di otto ore non soddisfacente e sottopagato che portava via tempo alla vita. Il reddito universale, invece, potrà continuare a essere percepito nonostante il lavoro che si troverà o che si sceglierà di fare. Rinunciare a quelle otto ore di tempo comporterebbe comunque un reddito che vale il doppio.   È una follia? Sarà un cambio di paradigma? E se questa possibilità non fosse così assurda e nemmeno così lontana? Il tema della povertà sarà la vera urgenza in un mondo in cui il lavoro come lo conoscevamo non esisterà più, forse più urgente del tema di quel tempo vuoto che avremo a disposizione e che dovremo imparare a riempire. Forse sarebbe il caso di aprire una discussione seria, una riflessione.  Quando il tempo a disposizione sarà tanto ma il cibo scarseggerà anche per coloro che fino a poco tempo fa si potevano considerare benestanti, che cosa accadrà? E in fondo, non sta già succedendo? Non siamo già a quel punto? Non siamo già in ritardo?  Dejanira Bada *In copertina: un’opera di Yves Klein L'articolo Abitare il vuoto. Piccolo discorso sulla povertà e il reddito minimo universale proviene da Pangea.
March 24, 2025 / Pangea