
Il pellegrino della meraviglia. Omaggio a Elias Canetti
Pangea - Friday, April 25, 2025È vero che tutto deve cominciare repentinamente, ma se poi non segue un istante di raccoglimento la cosa si sgretola subito e va perduta. Repentinità e raccoglimento si compenetrano perché una cosa risulti bella: il lampo dell’occhio e la pazienza delle mani.
E. Canetti, La rapidità dello spirito
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Nelle folgoranti, indimenticabili pagine iniziali di Tolstoj e Dostoevskij, George Steiner sostiene che la critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito di amore.
“In modi evidenti e tuttavia misteriosi una poesia o un dramma o un romanzo afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo il libro non siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo”.
Scrivere qualcosa su Canetti, oggi, mi pare richieda proprio questo: il tentativo di saldare ciò che ancora resta in sospeso, a credito dell’autore bulgaro.
Avevo previsto di cominciare con una disamina del volume di saggi La coscienza delle parole. Ma ben presto mi sono accorto che Canetti mi tirava per la giacchetta, trascinandomi altrove, irresistibilmente, verso altri suoi libri — e in particolare verso le pagine degli Appunti, che egli scrisse con meticolosa costanza dal 1942 fino a poco prima della morte. L’opera di Canetti è piena di amorose corrispondenze: echi di significato che si richiamano da un luogo all’altro del suo dettato, come stelle appartenenti alla medesima costellazione, disperse tra le vaste distanze delle galassie.
Ecco perché quanto segue somiglierà più a ciò che, nella letteratura cinese, è noto come biji, o, nella tradizione giapponese, come zuihitsu: uno zibaldone di frammenti e lampeggiamenti, simili a colpi di pennello tremolanti appena tracciati su una tela. Non sembrerà poi così assurdo, allora, parlare di Kafka ed evocare, nello stesso respiro, la forza del mito e la leggerezza del taoismo. Da qualche parte – nei Campi Elisi degli scrittori – immagino già un timido sorriso illuminare il volto sobrio di Canetti.
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Marina Nadotti, in una significativa chiosa a un’opera del compianto John Berger, usò un’espressione che mi colpì per la sua risonanza evocativa: “ospitalità del pensiero”. Con quell’immagine, Nadotti indicava una particolare disposizione della mente e del cuore: un’attitudine a lasciarsi attraversare, con curiosità e generosità, dalle multiformi esperienze della vita sensibile e di quella interiore. Tutto, nel dettato di Canetti, sembra chiedere proprio questo: di essere accolto, abbracciato, riconosciuto – con una smisurata empatia emozionale.
In questo senso, Canetti appare come l’ultimo degli umanisti: un instancabile alchimista del sapere, intento a ibridare ambiti solo apparentemente distinti come l’antropologia, la storia, la letteratura, la critica. Ma, a differenza della baldanza fiduciosa del faber rinascimentale, la sua aspirazione alla conoscenza è costantemente attraversata da una minaccia incombente: il terribile volto della storia.
Colpisce, in Canetti, la vastità dell’argomentazione, sostenuta da un’erudizione mai fine a sé stessa, ma sempre animata da un profondo senso di responsabilità etica. Una responsabilità che si esercita, in prima istanza, nei confronti della lingua e delle parole che la compongono. Basti pensare al titolo del primo volume del trittico autobiografico: La lingua salvata. La biografia canettiana è segnata, fin dagli esordi, da una convivenza fitta e inquieta di lingue e culture, che l’autore sente il dovere di proteggere dalla deriva babelica, dalla cannibalesca supremazia dell’una sull’altra. Da qui nascono la sua fiducia nelle parole “non travestite”, capaci di restituire barlumi di autenticità, e un sentimento di vibrante commozione verso l’atto stesso del nominare il mondo: come se, nel dare nome alle cose, si riattivasse ogni volta un legame originario — e dunque atemporale — tra lo sguardo dello scrittore e ciò che lo circonda.
“Il mio Dio è il nome, il soffio della mia vita è la parola.”
Le parole non sono mai ancelle né gregarie dell’uomo, ma ne riflettono la parte migliore: quella, in fin dei conti, meno vulnerabile all’oblio della morte.
“Ma ci sono parole di un tipo particolare, che accendono l’entusiasmo, quelle che contengono spazio e futuro, vastità da ogni parte. Quanto di storto e di vano era racchiuso nell’uomo ora si espande d’improvviso con enorme fretta in cento direzioni diverse, con le sue parole egli va a toccare per dritto e per traverso inizio e fine e centro del mondo.”
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Seduce, in Canetti, il dialogo sempre aperto con le grandi civiltà asiatiche – soprattutto con quella cinese: un volgersi verso forme altre di cultura, di scrittura, di differente visione del mondo. A questo movimento di apertura verso l’esterno ne corrisponde uno speculare di ripiegamento interiore in sé stessi: è il Canetti degli Appunti, che si avvicina alla parte più autentica di noi, in un atto di responsabilità verso il proprio tempo. Indagarsi, interrogarsi, aprirsi all’orizzonte del cambiamento: come nella disposizione d’animo del viaggiatore.

Anche in questo, Canetti rivela una fibra quasi rinascimentale, come un Montaigne del ventesimo secolo: tuttavia, sotto la superficie, affiora sempre un senso sottile d’inquietudine, lo svelamento progressivo della desacralizzazione di ogni cosa.
Diventa allora più arduo, per il viaggiatore-scrittore, testimoniare la perdita dello stupore, l’ammutolirsi della sorpresa. Eppure, in fondo, la letteratura non è che questo: il dimorare del pellegrino nella meraviglia.
La missione dello scrittore: fare il vuoto dentro di sé e accogliervi la traboccante ricchezza dell’esistente, la metamorfosi continua che attraversa la storia e le vicende umane. Ancora, cercare le fontane dove stilla la musica delle antiche favole, ritrovare tracce dei miti nel respiro del mondo. Canetti vorrebbe credere in un universo dove dimorano gli dèi, dove il lampo e il tuono abitano nello sguardo delle tigri e i vascelli solcano le acque tra i mostri marini e le isole incantate dei Feaci. Il mito è come il viaggio: si insedia in una dimensione senza tempo, dove lo sguardo degli uomini non si posa mai due volte sullo stesso luogo e ogni cosa parla il linguaggio prebabelico della meraviglia.
“I nuovi luoghi non si inseriscono nei vecchi significati. Per un certo tempo ci apriamo realmente. Tutte le storie passate, la nostra vita stracolma, che soffoca di senso, ci restano dietro le spalle d’improvviso, come se le avessimo lasciate in deposito da qualche parte., e mentre se ne stanno là accade l’assolutamente inesplicato: il nuovo”.
Una delle ragioni dell’imbarbarimento dei tempi moderni sta nell’aver staccato la spina ai miti. Canetti vive con dolore l’assenza totale degli dèi nel presente: al loro posto, sul trono del mondo, siede il volto impietoso e definitivo della storia sanguinosa.
“Per me il pensiero più desolante è che alla storia non si sfuggirà mai più. E questo il vero motivo per cui continuo ad armeggiare tra tutti i miti? Ripongo forse speranze in un mito dimenticato che possa salvarci dalla storia?”
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All’interno della raccolta di saggi La coscienza delle parole, brillano i due capitoli dedicati a Kafka e al suo epistolario con Felice, la donna che avrebbe dovuto sposare e alla quale fu legato da un rapporto tormentoso e conflittuale. Lo sguardo di Canetti sul celebre scrittore è di una sconvolgente e disarmante tenerezza. Faccio fatica a trovare altri esempi in cui la critica letteraria si spogli della sua arroganza cattedratica per diventare pura immersione nell’opera che si pone come oggetto di studio. Forse, solo Cortázar, nel suo memorabile A passeggio con John Keats, può essere annoverato come una fulgida eccezione.
Nessun altro scrittore è stato capace di penetrare così a fondo nelle interiorità di un autore, e al tempo stesso, da speleologo di un destino incistato nella letteratura, di offrirci un ritratto così potente. Kafka: l’artista che trova giustificazione solo nella letteratura, che vive grazie alla letteratura e di letteratura. Il dilemma intimo dello scrittore boemo: quanto più la sua scrittura cresce in intensità, tanto più l’individuo si percepisce sempre più piccolo, attratto come da un gorgo incantato dal grande, terribile e meraviglioso oceano d’inchiostro nero che si stende sul foglio di fronte a lui.
Il sogno di Kafka: così come un certo tipo di storiografia ci mostra Nerone, all’apice della solitudine, contemplare Roma devastata dall’incendio, così Kafka desidera che, nella notte, solo lui rimanga sveglio nel mondo, per poter finalmente “farsi carico” dell’umanità e confrontarsi con la sua multiforme essenza. Si sente, in quel momento, giustificato davanti a sé stesso e agli altri. A Kafka serve una statura, una postura da superstite, da ultimo uomo sulla terra: nella sua stanza, a lume di candela, scrive come se inviasse missive dall’Arca, in mezzo al diluvio.
Kafka: il poeta sempre in lotta contro il potere, alla ricerca di una libertà assoluta e senza vincoli, così come il ritmo del respiro, il compenetrarsi degli estremi, l’abbraccio di violenza e tenerezza.
Ecco uno dei sensi della parabola di Canetti, alfiere di un dettato che cavalca verso l’altrove, ma mai in fuga rispetto al cuore oscuro del presente – più che di vino, di oscuro sangue è fatta la storia del mondo. In questo senso, l’eterogeneità della raccolta di saggi diventa naturale rifrazione della multiformità dell’esistente: convivono, in una straordinaria galleria di ritratti, Hermann Broch, autore del folgorante La morte di Virgilio, Karl Kraus, Georg Büchner – il cui Woyzeck ha cambiato la vita di Canetti –, Tolstoj e Confucio, esempio mirabile di integrità etica e letteraria.

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Nel capitolo Dialogo con il terribile partner, tra i più belli di tutta la raccolta, Canetti esplora le ragioni che spingono certi uomini a tenere un diario. Colpisce, in queste pagine, l’importanza attribuita ai diari di viaggio, ai quali ci si accosta fin da bambini. Il sentimento di una vita ingessata in pose ormai fisse, l’oppressione di una realtà troppo carica di senso, l’avvicendarsi di vicende sempre note ci spingono verso i resoconti di viaggio, dove tutto è ancora al di qua di ogni inizio, avventura dopo avventura, giorno dopo giorno. Solo immaginando città straniere, lingue misteriose e luoghi irripetibili possiamo colmare la nostra insaziabile voglia di metamorfosi.
Non sorprendono quindi l’interesse sempre vivo di Canetti per l’antropologia, lo studio comparato di civiltà lontane nello spazio e nel tempo, la sua predilezione verso i grandi diari di viaggio, come quello del cinese Hsüan Tang o dell’arabo Ibn Battura, e l’ammirazione verso forme di scrittura distanti – il Libro del Guanciale di Sei Shōnagon e Storia di Genji, di Murasaki Shikibu.
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Tutti ricordano giustamente Canetti per il trittico autobiografico o per quel monumento del pensiero che è Massa e Potere. Eppure, io credo che il vero capolavoro dello scrittore siano i suoi Appunti, raccolti nell’arco di tutta una vita. Come non restare trafitti da quel dettato eracliteo fatto di lampeggiamenti, echi di senso dove il tuono si propaga a valle, di piccoli incendi e ripide cascate? Leggere Canetti è come cartografare il mondo, portando sempre dentro di sé il senso del mistero e della meraviglia.
Esiste un breve scritto di Borges che chiude L’artefice, piccola opera quasi testamentaria del grande argentino. Nella mia copia del libro, ormai un po’ sgualcita, ho sottolineato con un leggerissimo tratto di lapis le ultime righe. Mi sembra che possano spiegare meglio di qualsiasi altra cosa ciò che Elias Canetti rappresenta per me.
“Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
Lorenzo Giacinto
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