
“Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique Rouche e Thierry Metz
Pangea - Wednesday, July 16, 2025Ogni tanto, mi scrivo con Dominique Rouche. Si ostina a scrivermi in italiano: errori, imperfezioni, fraintesi conferiscono a questa scrittura un surplus di enigma. Dominique forza il linguaggio nel sentiero interrotto, nel fiume interrato, sperando così di cogliere in fallo le parole, di defalcare la falsità, di intuire il loro segreto. Opera da bandito.
Si pratica una lingua estranea, da fuggiaschi, da delinquenti, per familiarizzare con sé – stranieri a se stessi, come intendersi, altrimenti?
Giovanissimo, nel 1973, per Gallimard, Dominique Rouche esordisce con Hiulques Copules. È un libro primo e unico, quello, impossibile, in cui la lingua è forzata fino al neologismo, in cui la grammatica – ormai evaporata – si magnifica in olio purissimo. Ascritto – per noia e cecità – a uno sfinito sperimentalismo, Dominique non è un artefice, non è un sobillatore del linguaggio: Hiulques Copules, semmai, rasenta un dire da mistico bracconaggio, tra Laozi e Swedenborg. Sempre, la caccia è nella lingua: chi anela all’assoluto, nelle due dimensioni – ascesa e catabasi – forza il verbo fino alla resa. Fino al tutt’altro. Lo esercita per eccesso o per ascesso: l’analfabeta e il retore sono lo stesso.
Quel libro – pubblicato nella collana ‘Le Chemin’, che pubblicava Jean Starobinski, Henri Meschonnic, Georges Perros e il futuro Nobel J.M.G. Le Clézio – piacque a Michel Foucault e a Michel de Certeau; annientò l’autore che da allora si inoltrò in un proprio deserto. Lo ha mutilato dentro. Non aveva più nulla da poetare – il verbo gli si era avventato nel cobra, nel veleno.

Più di recente, per le edizioni L’Harmattan, Dominque Rouche ha scritto libri inclassificabili, d’indole meditativa. Uno di questi, Vers l’inframonde, è descritto così: “Letteratura: pratica di un linguaggio che riconcilia uomini e dèi prima di tornare alle antiche lotte infinite che mai finiranno. Questo libro mostra visioni di mondi perduti e ritrovati: un inframondo dove vagano le ombre dei morti e di coloro che non sono ancora nati”. Il libro è uscito nel 2011; Dominique non pubblica da più di dieci anni, negli anni Novanta ha pubblicato una enquête sur les miracles.
Qualche mese fa, Dominique mi scrive: “Quanto a me, la letteratura mi invade sempre di più: ma ho dei testimoni che assistono alla mia lotta segreta. Lascio a voi indovinare il significato che anch’io coltivo come un fiore velenoso”.
Diceva di volermi inviare dei disegni, che “possano illuminarci sul significato della nostra attività”. Suppongo che noi equivalga e io: conteniamo moltitudini – meglio: siamo legione.
I disegni, infine, arrivano. Se non ho capito male, Dominique li ha realizzati in Umbria. In ciascuna tavola, è la messa in scena del sacrificio. Teatralità compenetrata dall’incombere del pericolo. In scena, sempre, uomini nudi su fondo muto, neutro. Spesso appare un coltello. A volte uno specchio. Non è chiaro se gli uomini stiano provando una pièce; spesso la finzione – la regola – sfama nel vero; spesso il vento si rivela sangue, il soffio un anatema. Non è chiaro se questi uomini appartengano a una setta, a una compagnia teatrale a un eremo. La magrezza ci conduce al digiuno, alle artiche norme della rinuncia.
Qualche giorno fa, una lettera di Dominique che vaga in orfismi:
“Appartengo a questo mondo come se lo avessi pronunciato io: è un’illusione quella che sto per dimostrare. Non sapendo più: ma continuando a renderci ciechi all’unica immagine che percepiamo in questa oscurità in cui siamo relegati, prigionieri delle armi e delle leggi di cui un tempo ero l’implacabile custode. Per quello?
Sono venuto qui solo per corrompere le virtù dell’anima e glorificare lo Spirito a cui esse affermano di appartenere. Virtù: Dove sei nascosto?
Scrivere senza sosta: questa è la mia vocazione di uomo libero o di prigioniero, evocare le figure divine che un tempo ho incontrato e che hanno ispirato questi libri che voglio vedere perire nel fuoco che la terra vomita.
Siamo in due a non sapere cosa quindi resterà sconosciuto.
È il sangue degli Xst che scorre nelle nostre vene. (Questo è ciò che ci allontana da Lui.)
La servitù è ormai senza appello: non esiste altro che questa abitudine: suicidio?
Non esiste linguaggio per coloro che hanno perso l’uso di questa parola sconosciuta che esprime la Legge universale nascosta di cui siamo solo ombre distaccate.
Oro: Voglio il Male che incarniamo contro la nostra volontà.
L’arte della meditazione mi consuma”.

Non so quale sia l’appello di Dominique, questo parlare lebbrosario, questi verbi tenuti tra bende, come scorpioni d’oro. Gli dico che i suoi disegni mi ricordano Luca Cambiaso, mi ricordano Alfred Kubin, mi ricordano l’ossessione teatrante del Seicento e il perturbante di Balthus. Una processione di lanterne. Ma che importa poi questo cumolo di citazioni cadaveriche?
Nello stesso giorno in cui da Parigi mi giungono i disegni di Dominique: Riccardo Corsi, illuminata mente delle Edizioni degli Animali, mi manda l’ultimo libro di Thierry Metz – la traduzione è di Pasquale Di Palmo. Dolmen, suivi de La demeure phréatique esce per le edizioni di Jacques Brémond nel 2001, dopo essere stato pubblicato nei “Cahier Froissart” nel 1989. Ha trentatré anni, Metz, quell’anno; l’anno prima è morto il figlio di otto anni, divorato da un’auto.
“Aprire la dimora freatica
essere là
nelle acque che preparano una cascata
niente è più fresco”.
In verità, siamo in un poema per frammenti, per via crucis: alla scrittura su pietra si alterna quella su acqua. L’uomo fa cronaca di sé sulla pietra, si incolonna nel marmo, sperando di resistere un’ora in più al proprio corpo transitorio; Dio sussurra alle acque. Quasi a dire: dono della pietra – suo lignaggio – è diventare fiume. O meglio: il fiume esiste finché la pietra ne è il passeur, l’intransigente calesse.
Spesso, poesie d’intrepida intensità che fanno di Thierry Metz, da qualche anno, uno dei poeti più risonanti in Italia.
“questo qui
– senza nome –
rifornisce la lingua
con quello che trova:
ramoscelli
argilla sterco
appena qualche parola qui
per accogliere l’imprevedibile
quasi nulla dietro la porta
salvo che lui
– l’abitante –
preferisce alla dimora la finestra”
Metz impasta poesie con pochi lemmi, con una radura di scarni vocaboli, all’osso. D’altronde, è così che si evade dal linguaggio: per combustione interna, finché il fuoco non lacera ogni parola, o per esplosione, per espansione, fino all’anonimato degli assedianti. Giungere all’uno insediandosi nei molti. Poesia-corda – oppure: poesia-ragnatela.
Dolmen: questo pachiderma che Metz rende passerotto. Parola-totem che ridiventa fiore. Senza più dèi né aforismi stellari, soltanto Metz sa ricondurre tutto – dalla piena del dolore – a un eden dei maniaci. Bellissimo.
Certo, fin nel titolo, il detto ‘geologico’ di Paul Celan, la cerca di una parola che abbia tenuta di pietra: Dolmencome Kamen, la pietra di Mandel’štam. Su questa pietra… Pietro/Kepha, l’uomo su cui il Vangelo non si compie ma fa di sé scempio. (Volto reso irriconoscibile per contusione di pietra; pietra che sigilla il Nazareno nel sepolcro).
Ma no, non si tratta di lapidare, qui: di levitare, semmai:
“eclissi d’uccelli
e l’ala che trattiene i venti
d’improvviso ti solleva
ti porta il più lontano possibile
dove la parola nidifica
nella tua voce”
E sempre, infinitamente, tornare alla voce di René Char – il nido; punto di snodo della poesia recente, che da atto lirico si faccia lancinante assalto. Oppure: premura di andare al Nord di tutto – transumanza di figure glaciali, vita boreale, la sula che in azzurrità si ciba del nostro corpo, fino a redimerlo giovanneo.

Parlando, forse, dei suoi testi poetici, mi scrive, Dominique Rouche: “Un mosaico informale che ci guida e ci fa sentire un’unica voce che ci raggiunge fino alla fine: la fine di un discorso risuonante nel buio generale? Una sola voce per una moltitudine di discorsi che culminano nel silenzio: Mehr Licht!, Più luce!”.
Non c’è più pietra né dimora né strato freatico nella scrittura di Dominique. Tutto è al punto estremo di fame, nel più lucido istante: basta rovesciare una parola, pronunciare con errato tono un verso e tutto si sbriciola, si sillaba in briciole. Cosa ci sia dietro – bestia o pascolo, neve o niente – non è dato sapere: sentiamo il rintocco, un feroce mormorio, con l’orecchio appeso alla parete.
*I disegni nel testo e in copertina sono di Dominique Rouche
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