“Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin

Pangea - Thursday, July 31, 2025

Il testo che apre il ‘Meridiano’ che accoglie Tutte le liriche di Hölderlin, è il punto più alto, riassuntivo, della ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. In quel testo – Con Hölderlin, una leggenda –, Andrea Zanzotto dice di una “insistenza”, di un “lasciarmi andare… all’apertura di libro quasi magica”. Quando arriva, Hölderlin – il gran mago, colui che conosce i nomi per dissipazione e sublimazione – spiazza, fa piazza pulita, costringe a partecipare del suo precipitare. 

“L’incontro con Hölderlin è stato tanto intenso quanto quello con Rimbaud”, scrive Zanzotto. È vero: entrambi i poeti sembrano dei banditi dal linguaggio, degli irredenti al verbo, ma il loro impeto – troppi anni li separano, quasi millenni – è opposto. Rimbaud non tenta l’armonia, solletica il caos; non cerca gli dèi celesti ma quelli inferi; non alla Grecia mira ma all’ebbrezza esotica; la sua è una fuga verso l’altro mondo, l’Africa, verso una vita che metta a tacere la vita; Hölderlin sprofonda in sé, come chi ritorna dopo aver toccato le vette: che altro dire dell’empito di quel cielo se non il frastiono? Rimbaud strega il linguaggio fino all’Adamo; Hölderlin lo dissoda perché accada, ancora, un qualche rivelazione del ‘secondo Adamo’. Le Illuminazioni vanno lette insieme alle cosiddette “Poesie della torre”. 

“Sentiamo che in Hölderlin ci sono delle zone oracolari, piziache, quasi”, scrive Zanzotto. A dire: Hölderlin non sfregia il linguaggio per inorgoglire l’opera di gorgiere, tutto il contrario – sfrega fino all’ultimo brillio, al verbo che precede ogni verbo. Cioè – e Zanzotto lo sapeva bene –: troppi poeti più o meno ‘oracolari’ abbiamo letto in questi decenni, ma dov’è l’oracolo il poeta, semplicemente, non è, scompare. Dunque: Hölderlin non è un’opera, ma una pratica – l’esito, sconvolgente (come dopo l’attraversamento di ogni grande poeta), potrebbe realizzarsi nel balbettio, nel brivido, nel silenzio. 

Tornando a noi. Nel secolo della poesia che si esprime per negazioni, che dice ciò che non è (Montale), il poeta dell’essere, della solarità che acceca, “come una gigantesca figura di poeta-profeta, che attinge alla civiltà greca i grandi ideali che egli propone – in metri accesi e pindarici – ad una umanità migliore, che deve ancora venire e di cui egli canta presago” (Vincenzo Errante nel poderoso “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, da lui allestito per Sansoni nel 1949). 

Si diceva, appunto, di una ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. Hölderlin è stato tradotto, tra i tantissimi, da Giosuè Carducci (“Perché tutto co’ morti il mio cuor è”) e da Gianfranco Contini (“Un segno noi siamo, indecifrato,/ non avvertiamo il dolore,/ lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata”), da Cristina Campo e da Leone Traverso; Zanzotto cita le versioni di Giorgio Vigolo e quelle, in dialetto, di Giacomo Noventa. Ungaretti dichiara Hölderlin – insieme a Blake, Leopardi e Lautréamont – il poeta-totem della propria ricerca lirica. Luigi Reitani, nel ‘Meridiano’ del 2001, pare aver chiuso il discorso sulla filologia hölderliniana: tra l’altro, ormai, di Hölderlin abbiamo setacciato i cunicoli della vita, degli amori e degli ardori; le lettere ci permettono di spiarne i tormenti. Eppure, Hölderlin è un sovrappiù del linguaggio, ha tana nel bianco-banchisa dei suoi frammenti incompiuti: si rinnova – e ci sfida – ad ogni lettura. Così, per alcuni – come all’autrice del libro di cui parliamo – è sempre oro la versione delle Liriche di Hölderlin realizzata da Enzo Mandruzzato – gran traduttore di Pindaro, per altro, poeta-pilastro di Hölderlin – stampata da Adelphi nel 1977: 

“Ma a noi non è dato
riposare in un luogo,
dileguano precipitano
i mortali dolenti, da una
all’altra delle ore, ciecamente,
come acqua di scoglio
in scoglio negli anni
già nell’Ignoto”

da Canto di Iperione e del destino

In sostanza: in Hölderlin la poesia si compie superandosi – che il suo tempo lo abbia rinnegato e il nostro lo fraintenda è naturale, dacché l’opera è il fermento di un altrove. Così, Ladro di stelle – bellissimo titolo che indaga “Hölderlin e il poeta come titano”, stampa Solfanelli, con una partecipe “presentazione” di Giovanni Sessa – non è un’analisi della ‘poetica’ di Hölderlin, ma uno studio sui suoi effetti, sulla sua efficacia. “Intendiamo guardare all’esperienza estetica hölderliniana come a un’esperienza religiosa”, scrive, quasi subito, arrischiando, l’autrice. Chi la conosce, sa che Livia Di Vona – l’autrice – è gentile quanto coriacea; dietro l’apparenza docile nasconde l’accetta e la sfacciataggine. Ha lavorato anni a questo libro – che come ogni vero libro è infinito –, in esatta solitudine, libera dalle asfissianti categorie dell’accademia. Il suo saggio sfiora a tratti il segreto di ogni dire poetico, si inabissa negli indicibili. In alcune pagine, l’autrice lega, in sintonia di vertigini, il dire di Hölderlin a quello di Marina Cvetaeva (Il poeta a giudizio: capitolo pieno di folgorazioni). “Indugio ogni benedetto giorno nel tormento della lingua. Da profana, da non poeta. Con Hölderlin le cose sono drasticamente peggiorate, cioè migliorate perché come conduce lui nel cuore della questione, nessuno”, mi scrive, un giorno, Livia. A dire di un libro che è come un cuore messo a nudo – anzi, un cuore interrato: nascerà la bianca betulla, libellula del bosco, oppure l’albero sacro alla civetta.  

Intanto: perché “Ladro di stelle”? Cos’è questo ladrocinio, cosa sono queste stelle?

Sono le lettere dell’alfabeto. Il titolo, indirettamente, mi è stato suggerito da un libro di Giuseppe Sermonti sull’origine della scrittura: L’alfabeto scende dalle stelle in cui si ripercorrono le antichissime teorie che volevano le lettere dell’alfabeto greco corrispondenti alle costellazioni boreali. Sicché, detto molto sinteticamente, “dire” significa ripetere i suoni della Creazione. Il poeta, che ha l’altissima responsabilità di partecipare alla Creazione, nel momento in cui titaneggia ruba, letteralmente, le stelle/lettere, che non crea lui. 

Ti faccio la domanda con cui inizi il tuo lavoro: “Perché il linguaggio è il più pericoloso dei beni?”

Perché il nostro stare nel mondo dipende anche (se non soprattutto) dal modo in cui abitiamo la parola. È nel linguaggio che per la prima volta sperimentiamo la vertigine del titanismo. La tentazione fortissima di rinnegare la nostra radice creaturale per competere con Dio. Per Hölderlin, la parola svolge soprattutto la funzione di rendere testimonianza alla verità e ciò solo ed esclusivamente alla condizione che la parola stessa sia un dono, qualcosa che l’uomo non crea assolutamente da sé. Ma quando il poeta compete con Dio, quando pretende, cioè, di versare da sé “la fiala della vita” (Inno alla Dea dell’Armonia), rinuncia alla sua radice creaturale e provoca uno svuotamento della realtà. Realtà, per Hölderlin, è sempre stare dentro una compagnia “verticale”; con lo svevo penetriamo nel linguaggio come luogo di una compagnia meravigliosa che consente al dire del poeta di fiorire in mondo, oppure come luogo di una solitudine dolorosissima. 

…ma poi, mi viene da dire, qual è questo logos che ci coinvolge e ci tortura: quello di Eraclito o quello di Platone, quello di Gorgia o quello del prologo del Vangelo di Giovanni? Tra ‘verbo’ e Verbo, tra ‘per verba’ e diverbio, dove di pone Hölderlin?

Entriamo nel vivo dell’unità simbolica per Hölderlin, cioè l’armonia tra aorgico (Dèi/natura) e organico (intelletto). Se lo seguiamo nella sua peregrinazione dall’origine della Tradizione della poesia occidentale nella Grecia del mito fino alla Germania tra il Settecento e l’Ottocento, tocchiamo lo zenith e il nadir del linguaggio poetico: dal sorgere dell’armonia degli opposti in senso eracliteo, fino alla sua disgregazione, passando dal momento fatale del titanismo, in cui il linguaggio da luogo da abitare, si trasforma in strumento di dominio sul mondo da parte del poeta. Quindi Hölderlin attraversa tutte le sfaccettature che hai nominato fino a quando non si arresta dentro un’attesa. Il suo qui ed ora (ovvero il periodo della torre), è senza il vivente. Scrive infatti in una versione tarda di Patmos: “Ma è terribile come Dio dissipi all’infinito, qua e là, ciò che è vivente”. E poco più avanti: “Nulla di immortale si vedeva nella natura”. Hölderlin si trova in un vuoto di realtà (nel senso spiegato prima), perché il vivente non c’è. Allora la parola, diversamente dai tempi gloriosi del mito, non può celebrare “ciò che è”, ma necessariamente e apofaticamente aggiungo, deve nominare ciò che non è. In questo modo prepara, per i posteri, il ritorno dei celesti. Stare dentro un’attesa, significa nel linguaggio che la nominazione si pone all’inseguimento di realtà, di una pienezza di senso che senza una compagnia altra non si dà mai.  

…e dunque: dal prodigioso – titanico – tentativo di sintesi tra ‘grecità’ e cristianità, tra Dioniso e Cristo, tra Empedocle e Apocalisse, cosa viene fuori, cosa ci resta in mano?

In Hölderlin, nell’innocenza del suo cuore, resta un’attesa indefinita. Io direi che siamo sempre dentro una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità: o vogliamo riconoscere una radice creaturale, oppure continuiamo ad espellere il dio dal destino con una parola autosufficiente, cioè condannarci ad una infinita solitudine.

Dichiara la poesia-emblema di H., e dimmi perché.

Direi Come quando il giorno di festa (Wie Wenn am Feiertage) in cui la frattura nella Tradizione della poesia occidentale si consuma definitivamente. Questo inno comincia descrivendo l’armonia tra aorgico e organico, come se nel qui ed ora di Hölderlin fosse realtà. Poi però accade qualcosa di inaudito: l’irruzione di un pianto al termine, che ci dice che non è più possibile, come dicevo prima, “celebrare ciò che è”. Il poeta è sempre, per lo svevo, sacerdote della verità. Se il vivente non c’è, non può dire che c’è, altrimenti dice il falso visto che per lui la verità non è mai un prodotto del linguaggio. Questo è uno degli indicatori, per quanto mi riguarda, per cui il poeta tedesco rinuncia alla creazione di un linguaggio. Non si può riempire il vuoto di un’assenza con gli artifici linguistici. Una delle tante tracce di ciò che accade qui, la si trova in due poesiole giovanili, entrambe dal titolo indicativo: Il poeta cieco e Palinodia. Lascio un suggerimento: poiché, per quanto mi riguarda, non c’è affatto cesura tra fase giovanile e cosiddetta fase “della pazzia”, potrebbero essere lette insieme proprio a Come quando il giorno di festa, inno della maturità, in uno dei suoi versi più significativi: “Ciò che vidi, il sacro, sia la mia parola”. Si potrebbe scoprire una sorprendente continuità tra prima e dopo la “pazzia”. 

Dichiara la poesia che più ami di H. – e perché. 

Difficile dirne una sola, ma mi vengono in mente adesso Il viaggiatore, l’elegia Lamento di Menone per Diotima o La veduta. Per quanto mi riguarda, è difficile non fargli compagnia, non stare con lui lungo il sentiero scosceso di una malinconia, mentre il Neckar solitario rinuncia ai suoi abissi misteriosi. 

Era davvero folle H.? Meglio: come la sua ‘mania’ irrompe nel ‘logos’? E che senso ha, nell’esistere, la necessità di ‘poetare’?

Sempre più spesso gli studiosi, negli ultimi anni, tendono a riconsiderare la pazzia di Hölderlin. Cito come esempio l’importante studio di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin, in cui si ipotizza una simulazione della pazzia per sottrarsi alle conseguenze giudiziarie delle sue antiche simpatie per i valori della Rivoluzione francese, ma personalmente credo che si possa considerare anche la questione del pietismo, sempre – a mio avviso – troppo trascurata quando si parla dello svevo. I pietisti più radicali sceglievano volontariamente di abdicare dalla vita esteriore, ritirandosi preferibilmente in luoghi appartati in campagna, e rinunciando anche alla volontà di esprimere una propria individualità. Per il resto, più che un’irruzione della mania nel logos, in Hölderlin irrompe un necessario balbettio, la constatazione amara di una solitudine nel flutto, nella fiamma e nella parola. Che può dire il poeta “se nulla di immortale si vede”?

Insomma: il poeta ha per fine esaudire la poesia incenerendola?

Dipende. Il poeta deve sempre scegliere da che parte stare. Il suo dire può partecipare alla Creazione, come in origine, oppure – citando la chiosa di una poesiola di Rilke dedicata a Baudelaire – “E perfino la furia che annienta si fa mondo”, venirsi a trovare, cioè, nel punto esatto in cui la Creazione stessa si disfa, per realizzare quella tiranna tentazione titanica. Dal punto di vista meramente estetico, non c’è momento più alto, poeticamente, del competere con un dio, e in ciò i geni come Baudelaire, come i simbolisti francesi, sono maestri. Ma se platonicamente diciamo che la bellezza è splendore del vero, stando con Hölderlin il poeta deve rinunciare alla signoria dell’ego. 

*In copertina: Caspar David Friedrich, Luna che sorge su una spiaggia deserta, 1837/39

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