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“L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke
Entrare nella vita di Rilke, cioè: scotennare l’angelo.   C’è qualcosa di sigillato nella vita di Rilke, una vita-tabernacolo. All’uomo ‘di mondo’, capace nella persuasione, circonfuso di nobildonne, retto nell’ambizione, fa spazio il Rilke delle feroci solitudini, dell’austerità artica, artigiano di un io irto di pinnacoli, di picchi, di stalattiti. La natura della volpe e quella dell’aquila. Per certi versi, l’oceano epistolare di Rilke – specie di bulimia grafica – non aggiunge alcun dettaglio alla vita del poeta: cancella. A volte la scrittura opera – anche quando è ispirata – per sparizione. Le lettere – lettere-Muzot, lettere-fortezza – servono a Rilke per celarsi, per calarsi nell’assalto del sé – per incendiarsi. Qual è, ad ogni buon conto, l’evento autenticamente capitale nella vita di Rilke, un poeta che capitalizzava la propria esistenza in versi di distillata sapienza (versi, diremmo, con gli artigli)? Secondo Franco Rella – il più acuto interprete di Rilke – l’episodio che “ha cambiato per sempre la vita di Rilke” è stato, nel 1907, l’incontro con la poesia di Cézanne. Quella fu la vera “svolta”: come Cézanne è stato “un redentore dalla non-realtà, il nulla in cui sembra siano destinate a finire le cose”, ora “Rilke stesso vuole essere un redentore, ein Rettendes scrive” (in: R. M. Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile. Lettere da Muzot, De Piante, 2022, p.115). Poesia che redime, che riscatta da schiavitù di deterioramento e di morte; poesia che sana il lebbroso che siamo, con i crismi di san Giuliano Ospitaliere. Il compito che Rilke si prefigge tramite la poesia, come scrive a Caroline Schenk von Stauffenberg, è quello di “rendere la morte, che mai è stata un’estranea, nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita complice di ogni cosa viva”. Chissà poi se è stato il fatale viaggio in Russia – dove ha conosciuto Lev Tolstoj e la famiglia Pasternak – o quello in Spagna – dove ha scoperto l’opera folgorante di El Greco – se è stato l’Egitto, arcano e terribile (visitato tra il 1910 e il 1911), a ‘segnare’ il poeta; oppure, libero da elementi ‘culturali’, è stato il corpo di Lou, la nascita di Ruth, la vista degli Hôtel Dieu, a Parigi, ricoveri di resti d’uomo, ospizio dei perduti dove le creature “vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto insensatamente rotto…”. I luoghi rilkiani – Duino, ad esempio – sono insensatamente vuoti senza la presenza del poeta, che li ha eletti nell’ambone suo carisma.  Secondo Leone Traverso, Rilke è tra i rarissimi poeti – insieme a Hölderlin, Leopardi e Emily Dickinson – a “scavare da tanto silenzio improvvisa la loro voce”. Sono poeti in grado di “un linguaggio inventato, del tutto intimo, sciolto da ogni vincolo di costume prettamente umano, per riallacciare il filo interrotto con le forze segrete del mondo”. Così attacca una delle Ultime poesie (Fussi, 1946): > “Come il vento serale alle falci sugli omeri dei mietitori, > va l’angelo mite sul filo innocente dei dolori”. Ancora l’angelo, mite e tremendo a un tempo – come Rilke.  Più che altro, più investighiamo la vita di Rilke più è lui a invaderci. Potenza radicale del poeta-redentore. Così, nelle pagine finali, le più intime, rivolte Al lettore, Marilena Garis, autrice del potente libro biografico Rainer Maria Rilke. Luce sull’invisibile (Edizioni Ares, 2025), rivela di essere ritornata a Rilke, alle Elegie duinesi in particolare, “nel giorno delle esequie di mia madre”. Nel momento dell’abisso assoluto, il poeta, che non lenisce il dolore, ma lo trasforma, lo approfondisce fino al fiore. Il poeta è sempre lì: dove una cosa muore e per eccesso di amore un’altra nasce.  Che senso ha una biografia rilkiana? Intendo dire: fino a che punto la vita di Rilke – che ci appare tanto elusiva, remota, segreta, così poco ‘mondana’ – penetra nell’opera? Nessuna vita penetra nell’opera quanto quella di Rilke giacché la sua vita è poesia. Rilke si è assunto il compito di farsi “puro e cieco strumento”, pura eco interiore. La poesia lo ha attraversato, superato, trasceso. Ne ha travalicato la vita. Nessun’altro poeta, meglio di lui, ha cercato di capire, spiegare, e portare a compimento l’opera della creazione. E dal giorno in cui comprese che solo la solitudine poteva avvicinarlo intimamente a quella creazione, la scelse e l’abbracciò senza più voltarsi indietro, perseguendo la ricerca di un equilibrio spirituale che fu in ultimo conquistato a caro, carissimo prezzo (e non solo per sé)… Nel mio libro sono partita da una pagina del Malte, la più celebre opera in prosa di Rilke, dove il poeta insiste sul fatto che i versi non nascono dai sentimenti, ma dalle esperienze. Per un solo verso, scrive, si devono vedere molte città, uomini e cose. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra. Bisogna aver udito le grida delle partorienti, essere stati presso i moribondi, aver vegliato i morti nelle camere ardenti… E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare e avere la grande pazienza di aspettare che ritorni­no. Solo quando i ricordi divengono in noi sangue, sguardo e gesto, solo allora può darsi che in una rarissima ora ne esca la prima parola di un verso. L’arte diventa così potente perché nasce dalla vita e dall’esperienza reale: rintracciare nelle paro­le di un grande poeta le tracce del suo destino mi pare essere la chiave di lettura più autentica, l’unica che possa dare vero accesso alla sua arte, che è appunto “san­gue, sguardo, gesto”. Percorrere i passi di Rilke significa entrare in quell’interminato pellegrinaggio che fu la sua esistenza. Dalla difficile infanzia con le sue scuole militari, all’incontro con Lou Andreas-Salomé, musa e guida intellettuale, al suo brevissimo matrimonio con la scultrice Clara Westhoff, allieva di Rodin, e all’amore “da lontano” per la sua unica figlia, Ruth, fino al rifugio creativo nel castello di Duino e nella torre di Muzot, sulle Alpi svizzere, tutto diventa poesia nel suo sguardo. Camminando dentro le parole, tra il visibile e l’invisibile, Rilke ci ha lanciato delle sfide: il suo Weltinnenraum, il suo “spazio interiore di mondo” è una “sottile striscia di terra tra fiume e roccia”, uno spazio sottilissimo, eppure infinito. Per addentrarsi in quello spazio interiore, bisogna mettersi in ascolto, cercare di penetrare il suo segreto, sapendo che è appeso al mistero, allo stesso filo della fede, potremmo dire.  Qual è l’aspetto della biografia di Rilke che ti ha ‘spiazzato’, quello davvero inatteso? Vi sono molte pagine della sua vita che mi hanno “spiazzato”. Molte le corrispondenze baudelairiane che mi hanno attraversato. Ma, sopra a tutto, oggi mi preme parlare della sua attitudine ad inchinarsi davanti all’intimità e ai segreti di ogni essere umano. Edmond Jaloux, amico di Rilke e specialista della sua opera, ci ha trasmesso una lettera che un giorno ricevette da una donna sconosciuta, e che oggi voglio consegnare per estratti ai lettori: > “…Stavamo camminando lungo i cancelli del Lussemburgo… Rilke si era avvicinato > a me, quel giorno, tenendo in mano una splendida rosa… Su quei cancelli, > trovavamo, quasi ogni giorno, una vecchia donna seduta, che mendicava con > discrezione. Non chiedeva nulla e i suoi occhi non si alzavano mai sui > passanti. Ogni volta le lasciavamo una piccola elemosina… Non avevamo mai > visto i suoi occhi, né udito il suo ringraziamento… Quel giorno… non aveva > ancora ricevuto niente. Vidi Rilke inchinarsi davanti a lei, con rispetto, non > un rispetto formale, ma un rispetto alla Rilke, un rispetto totale, di tutta > l’anima. Inchinandosi, posò la bella rosa sulle ginocchia della vecchia > mendica. Ella allora alzò i suoi occhi su di lui, lo guardò e con un gesto > rapido e perfetto, gli prese la mano, la baciò e se ne andò via a piccoli > passi – senza più mendicare per quel giorno”.  E vorrei aggiungere: felice della sua grande, insolita, ricchezza. Credo che questa testimonianza del periodo parigino di Rilke possa illuminarci su quello che fu il suo sguardo sul mondo e sul profondo rispetto che sempre portò al prossimo, agli ultimi e alle loro sofferenze. Una particolare delicatez­za nell’ascoltare e nel confortare gli altri, che raggiunge i vertici nell’epistolario, un’oceanica opera d’arte: il monumentale archivio della Rilke Gesellschaft conta, ad oggi, circa 13mila lettere. Epistolografo d’eccezione, nelle lettere il poeta non esita a donarsi completamente e ad abbracciare intime questioni con acuta chiaroveggenza. Risponde instancabilmente, e con vera partecipazione, a quanti gli si rivolgono. Non li conosce neppure, eppure si prodiga per quegli sconosciuti senza risparmiarsi. E lo fa con profonda umanità, che affascina e consola.  Nel complesso, come possiamo descrivere il ‘carattere’ di Rilke?  Silenzioso, mite, solitario, mistico; quando occorreva, determinato, volitivo, mondano. Chi lo conobbe non esitò a definirlo un personaggio magico.  > “Nessuno lo sentiva arrivare”, racconta Stefan Zweig, “sedeva in silenzio e in > ascolto, alzando involontariamente le sopracciglia appena qualcosa sembrava > interessarlo. Discuteva con la semplice naturalezza con cui una mamma racconta > una fiaba al suo bambino, con la stessa affettuosa tenerezza”. Nella conversazione, non gli interessava soffermarsi sui luoghi comuni della vita quotidiana, entrava subito nei dettagli delle cose più alte, dove i suoi occhi vedevano tracce e presagi dell’invisibile. Sono tuttavia pochi quelli che hanno davvero conosciuto la sua vita, il suo mondo interiore, la sua più recondita officina. Era come avvolto da un ferreo riserbo, circonfuso di un’aura mistica. Su quell’aura si è soffermato a più riprese Edmond Jaloux, arrivando a definirlo visionario e medianico.  Temo che Rilke sfugga a chiunque voglia afferrarlo: la sua poesia è “luce sull’invisibile”, come ho inteso sottotitolare il libro; un “tramite” tra mondi e regni: visibile e invisibile, vita e morte. Rilke si è spinto nel cuore della parola per divenire pura eco interiore, per arrivare alla voce dell’angelo, al regno delle ombre, alla gran­de unità, alla risonanza del silenzio. Ce l’ha spiegato bene Marina Cvetaeva quando lo ha definito “una topografia dell’anima” e ha aggiunto “Rilke è necessario al nostro tempo come un prete sul campo di battaglia”, una necessità quantomai attuale… Anomalie: il ‘recluso dell’arte’, in verità, era circondato da amici, mecenati, nobildonne, svariate amanti… Come conciliare questo paradosso? Forse non è un paradosso. O meglio: vi sono molte questioni aperte su Rilke. Con lui bisogna accettare di abitare il mistero e amare le domande “simili a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera”. Rilke seminava attorno a sé verità rivelate, talvolta difficilmente decifrabili. Uomini e donne erano attratti dai suoi modi e dalle sue parole, da quella sua speciale empatia. Ciò che lo rendeva affascinante era senza dubbio quel singolare incontro tra terreno e angelico, la sua capacità di vedere oltre la superfice delle cose. Claire Goll scrive che era impossibile resistergli e in effetti il corteo di donne che lo accompagnò in vita e non l’abbandonò neppure dopo la morte (attraverso monografie e libri di ricordi) è vasto:  Lou Salomé, la moglie Clara Westhoff, la principessa Marie von Thurn und Taxis, Magda von Hattingberg, Lou Albert-Lasard, Baladine Klossowska, Nanny Wunderly-Volkart, Marina Cvetaeva, Nimet Eloui-Bey…Ogni donna era invero una stella nella “costellazione” della sua anima e della sua poesia, come cerco di spiegare nel libro, percorrendo i grandi incontri della sua vita. Qual è la figura ‘chiave’ che ha agito più di altre nella vita di Rilke?   Lou Salomé fu la persona che più di ogni altra segnò il cammino esistenziale e artistico di Rilke. Fu per lui un grande amore, e non solo: la grande amica, amante, musa, confidente, maestra. Di certo, Lou fu (anche) una figura materna per Rilke, permise la sua vera rinascita, la rottura rispetto all’ambiente provinciale praghese, ai sentimentalismi e alla devozione esasperata di sua madre Phia. Dopo l’incontro con Lou, la sua nuova vita fu segnata dal cambiamento del nome di nascita René nel più sobrio e virile Rainer, che reca un’impronta germanica e richiama la purezza (Reinheit). Lou gli offrì materiali filosofici ed estetici, lo iniziò alla lettura di Nietzsche (che rimarrà sempre un riferimento ineliminabile nel pensiero rilkiano), lo mise al passo con l’intellighenzia europea. Fondamentali i due viaggi che Rilke fece con Lou in Russia. Qui ebbe inizio la sua vera opera, la sua ricerca di assoluto e spiritualità, di cui alle Storie del buon Dio e al Libro d’ore e oltre, fino alle Elegie  Duinesi. Il loro legame durò per tutta la vita, come testimo­nia il loro Epistolario 1897-1926, uno scambio durato quasi trent’anni, di circa duecento lettere, dal primo incontro del 12 maggio 1897 all’ultima lettera del 13 dicembre 1926, anno della morte di Rilke, e ancora oltre, se si considerano le memorie di Lou e il libro Rainer Maria Rilke. Un incontro, che lei gli dedicò dopo la sua morte. La loro corrispondenza avvicina in modo profon­do alla vita e all’opera di Rilke e consente di accede­re all’intimità più autentica del suo destino esisten­ziale e poetico: Rilke vi esprime le sue incertezze, le sue difficoltà; Lou, che aveva intrapreso lo studio della psicanalisi con Sigmund Freud, riesce ogni volta a “curare” le sue ferite, riportando le misteriose vie dell’arte nel percorso della vita.  Come è possibile amare nell’abbandono, senza ‘consumare’ l’amore? Nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke scrive che “Amare è: illuminare con olio inesauribile. Divenire amati è passare. Amare è durare.” Si tratta di una nota in margine al manoscritto, che si conclude con la celebre parabola del figliol prodigo. Qui, Rilke ribalta completamente la parabola evangelica per affrontare il tema del “grande compito dell’amore”, un amore che nulla chiede in cambio e si espande all’infinito; un amore slegato dalle maglie del possesso e inteso come direzione, come forma di libertà.  Nella concezione rilkiana dell’amore senza possesso (besitzlose Liebe, anche identificato come “amore intransitivo” dalla critica), questa è l’unica forma d’amore che non “consuma” il suo oggetto. Si tratta dell’amore cantato dai trovatori medievali “che nulla temevano più dell’essere esauditi” e soprattutto delle celebri “amanti colme di forza”, a più riprese evocate nel Malte. Per qualche tempo Rilke accarezzò l’idea – poi accantonata anche se continuamente ripresa nell’opera e nell’epistolario – di scrivere un libro sui profili biografici delle grandi amanti capaci di quell’amore assoluto: Saffo, Eloisa, Gaspara Stampa, Louise Labé, Bettina von Arnim, Eleonora Duse, Mariana Alcoforado e altre figure di donne che, nella solitudine, compirono la suprema metamorfosi, elevandosi da un amore ristretto (ad un determinato oggetto) verso la pura contemplazione dell’amore. Poco tempo prima di morire, Rilke confidò a Edmond Jaloux di aver scritto il Malte “per delucidare il proprio pensiero e vedere limpido dentro se stesso”. Il Malte è un punto limite nella sua vicenda creativa (dopo la sua conclusione, nel 1910, comincia infatti un lungo tempus tacendi che durerà oltre un decennio), e la sua estrema voce è quella del figliol prodigo, colui che si prefisse di “non amare mai, per non porre nessuno nella situazione terribile di essere amato”. La questione è complessa e va trattata con molta cautela, distinguendo i piani Malte/Rilke. Bisogna ricordare che iQuaderni nascono quando la prima – fondamentale – esperienza parigina si è da poco conclusa: nell’immensa solitudine di una città allucinata, il poeta sperimenta la miseria, l’angoscia e il male di vivere. Dopo la rottura con Lou Salomé, Rilke si è sposato con la scultrice Clara Westhoff, è diventato padre di una bambina, Ruth; si è trasferito a Parigi per lavorare alla monografia di Auguste Rodin. Nel frattempo ha completato l’ultima parte del Libro d’ore e del Libro delle immagini, le Nuove Poesie e il Malte. Una mole impotente di lavoro. Ma a Parigi tramonta definitivamente il tentativo di una vita familiare e si profila un lungo cammino di stenti fondato sull’arte, una dolorosa contraddizione che lo strappava dalla sua famiglia e dalla sua casa, dove non riusciva a stare, e lo straziava, lo costringeva alla solitudine.  Perché l’idea di essere amato provoca in lui angoscia? Forse è un problema che affonda le sue radici nell’infanzia, nel complesso rapporto con la madre. Forse nel trauma della scuola militare scelta dal padre. Rilke è persona generosa, sa donare se stesso, tutti quelli che lo hanno conosciuto lo confermano. E se non bastasse, sarebbe sufficiente rivolgersi all’epistolario, alle sue lettere prodighe di attenzioni, consigli e consolazione per il prossimo. Lettere infinite… Ma non riesce ad abbandonarsi, ad essere amato; nel ritmo di donare e ricevere non riesce a mettere radici, nemmeno con sua figlia. Forse questo è il destino di chi sente il fardello – e l’ebbrezza – di una missione per tutta la vita. Nel suo caso, una missione da poeta, quale puro e cieco strumento di un verbo assoluto; ma anche come uomo che, prima del verso, deve farsi sangue, sguardo, gesto. Come ho voluto ricordare nell’episodio della rosa alla mendica, la poesia nasce quando il gesto si è consumato, mentre la vita scorre, nel ritmo alternato del movimento e della permanenza. In questo, Rilke ha avuto per tutta la vita una necessità soprannaturale di ‘affrettarsi’ al capitolo successivo della sua trasformazione-metamorfosi (concetto chiave nell’opera), senza potersi fermare, né “adagiare” mai, su ciò che era già stato fatto, detto, consumato.  Rilke sa scrivere come pochi altri verità fondamentali sugli uomini e sulla vita, ma non riesce a vivere e amare nel reale. L’amore quotidiano, quello della “vita dei giorni”, e a maggior ragione quello in seno a una famiglia, richiede una costante permanenza, un eterno indugiare sui capitoli da scrivere, leggere, rileggere e correggere infinitamente, con abnegazione e resilienza nella ripetizione dell’amore e dell’attenzione per l’altro, e questo è difficile, se non impossibile, per chi, come Rilke, abbraccia una vita fondata sul movimento perenne dell’essere. In tutta la sua complessità, la questione rimane aperta e il lettore potrà attraversarla in vari punti del mio libro, sia sotto il profilo esegetico dell’opera, sia sotto quello biografico. Cosa significa, in fondo, un libro all’apparenza così sigillato come “Elegie duinesi”? Il mio incontro con le Elegie duinesi è stata una rivelazione sulla via di Damasco. Lo spiego al lettore nelle ultime pagine del mio libro. Le Elegie sono un compendio-talismano da tenere a portata di mano. Da leggere, rileggere, meditare nelle varie stagioni della vita. Esse stanno in rapporto alla vita e alla morte come il Talmud sta al rapporto tra l’uomo e la parola di Dio. Sono uno strumento che ha bisogno dell’uomo tanto quanto l’uomo ha bisogno dello strumento: richiedono un paziente lavoro di lettura e interiorizzazione per restituire i loro doni, come ho cercato di spiegare nel capitolo dedicato a questo capolavoro, che per Rilke fu un vero e proprio “uragano nello spirito”. Ritaglia un mazzo di versi rilkiani che hanno inciso nella tua vita – e perché? Devo nuovamente tornare sul mistero e alle ultime pagine del mio libro, per ritagliare due frammenti della Prima e della Decima Elegia. Vorrei che questi versi arrivassero nelle mani di quanti si trovano ad affrontare una dolorosa perdita, con l’auspicio che possano scendere come un balsamo nei loro cuori, come è successo a me. Certo è strano non abitare più sulla terra, non più seguir costumi appena appresi, alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa non dar significanza di futuro umano; quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose non esserlo più, e infine il proprio nome abbandonarlo, come un balocco rotto. Strano non desiderare quel che desideravi. Strano quel che era collegato da rapporto vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso esser morti; quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità. […]  Ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente, come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno di sì grandi misteri – quante volte da lutto sboccia un progresso beato – potremmo mai essere, noi, senza i morti? […] Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un simbolo in noi, vedi che forse indicherebbero i penduli amenti dei noccioli spogli, oppure la pioggia che cade su terra scura a primavera. E noi, che pensiamo la felicità come un’ascesa, ne avremmo l’emozione quasi sconcertante, di quando cosa ch’è felice, cade. Tra tutti gli aggettivi che poteva usare per osservare la morte, Rilke sceglie i più semplici: strano e faticoso. Strano, scrive, non abitare più sulla terra, strano abbandonare il proprio nome come un balocco rotto… Ed è faticoso essere morti “quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità.” La morte guarda all’interno e fuori di sé, verso chi muore e chi ancora vive: “potremmo mai essere, noi, senza i morti”? In questa domanda vi è un chiaro invito ad accogliere – nell’ascolto del silenzio – la voce di chi è scomparso: dal lutto può nascere un “progresso beato”, ovvero una nuova consapevolezza del rapporto tra la vita e la morte: l’essenza delle Elegie Duinesi. Gli ultimi versi – e con essi l’opera intera – sono raccolti intorno all’immagine di una caduta, che non segna tuttavia una morte, una fine, quanto una metamorfosi, un rinnovamento, secondo il moto discendente dei frutti maturi e della pioggia che cade su terra scura a primavera. In questa celebrazione della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, la felicità non è dunque elevazione, non è ricerca di una trascendenza irraggiungibile, ma caduta, inchino verso la terra, umile adesione al ciclo della natura, eterna trasformazione.  Sulla caduta e sulla metamorfosi rilkiana, e sul perno della grande ricchezza della povertà e della morte, ci vorrebbe un convegno a più moduli, esegetici e biografici, per poterne parlare degnamente. Cosa ci resta ancora da scoprire della moltitudine Rilke? Ancora molto. È notizia del dicembre 2022 che l’archivio letterario di Marbach in Germania ha acquisito l’archivio familiare Rilke di Gernsbach, finora in possesso degli eredi di Rilke. Si tratta di una collezione monumentale di manoscritti, lettere, libri, riviste, disegni e fotografie. La nuova collezione contiene circa 10mila pagine di bozze e appunti. Comprende anche circa 2.500 lettere scritte da Rilke e circa altre 6.300 lettere scritte a lui. Tra i corrispondenti figurano vari nomi noti nella biografia rilkiana e anche la moglie Clara Westhoff e la figlia Ruth. Sandra Richter, direttrice dell’archivio letterario di Marbach, ha sottolineato che i documenti acquisiti sono un «patrimonio travolgente»: l’immagine che abbiamo di Rilke potrebbero cambiare. L’elaborazione della nuova montagna di documentazione richiederà tempo, ma di certo sarà foriera di nuove gemme e scoperte… A quasi cent’anni dalla morte, Rilke continua a parlarci. L'articolo “L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke proviene da Pangea.
October 27, 2025 / Pangea
Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo con Cinzia Bigliosi
Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra. Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.  Aveva, come sempre, ragione.  Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa – registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras, Yourcenar, de Beauvoir…).  Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra – sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus & Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni – non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares, 2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi, ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo (anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant, Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni “testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).  Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai “miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.  Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il quale penetrare nel mondo della Némirovsky? Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel 1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”, se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento, fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel 2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un tono lirico.   Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?  Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse, scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli, gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.  Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria? Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans, Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi dedicati a Sisifo della poesia La scarogna. …e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?  Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini. L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale, Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”, le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.  Irène Némirovsky (1903-1942) Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare un destino? L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria, una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940, incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi, malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera. Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky? Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante, insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.    La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così? Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène? Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese, investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere deportata.   Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora? È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto. Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era quella di ricordarsi che  > “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre > quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto > la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.  Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo, le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto, interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.  L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.
May 2, 2025 / Pangea