Leggo la Sontag, Rinata. Diari e taccuini 1947-1963, Nottetempo, e penso a suo
figlio, David Rieff, che quei diari e quei taccuini li ha curati. C’è più
privilegio o più perfidia della sorte ad avere avuto una madre che scrive e a
essere diventato un figlio che legge, oltre che un figlio che scrive a propria
volta, abbastanza riconosciuto editorialmente da vedersi richiedere di curare i
diari e i taccuini della propria madre?
Susan Sontag è del 1933, David Rieff del 1952, ci sono fratelli e sorelle che si
danno più anni. La Sontag muore nel 2004. Quando il figlio Rieff comincia a
dover mettere mano ai suoi diari, ereditandoli, ha ormai più di cinquant’anni:
come deve essere, deve essere stato, avere cinquant’anni e leggere di quando tua
madre ne aveva quattordici e già scriveva di sé, dei suoi disorientamenti e
riposizionamenti?
> “Credo: (a) Che non esista un dio personale né una vita dopo la morte”.
David Rieff, secondo Wikipedia, ha avuto una figlia nel 2006, due anni dopo la
morte della madre. Oggi sua figlia ha l’età che aveva sua madre quando ha avuto
lui. Tiene un diario, sua figlia?
Un piccolo capolavoro freudiano me l’ha dato AI Overview quando ho cercato
online il nome della figlia di David Rieff, metti l’avesse chiamata Susan
Junior: “David Rieff does not have a daughter; he had one son, David Rieff, with
his first wife, Susan Sontag”. Secondo la fantasiosa intelligenza artificiale –
che non distingue David da suo padre Philip – David Rieff è il figlio di sé
stesso, avuto con sua madre ch’è stata anche sua moglie. A suo modo,
l’intelligenza artificiale ha dato un ipotetico quadro psicologico tanto
completo quanto scontato, come tutti gli output di cui è capace.
Mentre leggo i diari della Sontag curati da suo figlio di David Rieff ho preso
anche, sul mercato dell’usato perché altrove è già sparito, Senza consolazione.
Gli ultimi giorni di Susan Sontag (Mondadori, 2009) e di suo leggerò anche
altro, anche quello che ha scritto ma non sulla madre, poiché secondo la Luiss
University Press che ne ha pubblicato Elogio dell’oblio David Rieff è un
“Esperto di conflitti internazionali, immigrazione e questioni umanitarie”.
Metti mi stupisca come m’ha stupito Frieda Hughes col suo bellissimo La mia vita
con George. Ricordo di una gazza (Elliot, 2024), che ha nulla da invidiare alle
opere di suo padre Ted Hughes e di sua madre Sylvia Plath. Neanche a dirlo,
l’opera della Hughes è un diario.
Mia madre non scrive, in tanti anni credo non abbia scritto più di un
bigliettino per la famiglia messo sull’albero un Natale, cheppoi lo so le sarà
costato in autoviolenza quanto a Proust per scrivere la sua opera, perché a
Proust piaceva scrivere, al più a mia madre sarebbe piaciuto saperlo fare. Mia
madre e mio padre, che non scrivono, non lasceranno diari e taccuini, e di
questo gli sono grato fin d’ora. Non dovrò confrontare la mia verità su di loro
con la loro su sé stessi e su di me.
Annoto agende da quando ho quattordici anni, come la Sontag, ma non sono
diventato una Sontag per cui non c’è il rischio che qualcuno debba mai essere
costretto a spulciarle per tirarne fuori qualcosa di pubblicabile, a dragarle in
cerca di qualcos’altro da dare in pasto all’avidità dei lettori guardoni, e
comunque le mie agende piene di farneticazioni non le lascerei a nessuno o se sì
certamente non alla donna che mi ha sposato o a mia figlia o a un chiunque sia
che mi avrà conosciuto in vita. Magari a qualche fondo di fissati con le
ampollose e pallosissime scritture diaristiche, se ancora ce ne saranno. A fini
di studio più sociologico che psicopatologico su quel vizio ormai sempre meno
privato della (non)scrittura diaristica.
In David Rieff che cura i diari e i taccuini di Susan Sontag, in un figlio che
per-lavoro deve leggere tutte le memorie personali di sua madre, ci vedo una
trama invisibile e terribile, così come in Ted Hughes e la madre di Sylvia Plath
che decidono cosa pubblicare e cosa no dei diari della Plath, solo che nel
secondo caso ci vedo una cinica storia di potere, nel primo invece una storia
d’amore crudele come tutte le storie d’amore.
Un appunto del 23/4/61 – nel 1961 Susan Sontag non è ancora diventata la Sontag,
si è separata da Philip Rieff nel 1958 e ha in corso una defatigante relazione
amorosa con Irene Fornés, relazione contro cui Philip Rieff si appellò per
ottenere la custodia del figlio David (ma questo me l’ha spifferato AI Overview,
non escludo dunque si sia inventato pure quest’altra volgare ovvietà): “La vita
emotiva è un complesso sistema fognario.”
antonio coda
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ereditate proviene da Pangea.
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Ne nacque un affare diplomatico. Nel 1968, per L’Herne di Dominque de Roux,
l’editore dei reprobi, Witold Gombrowicz aveva pubblicato un saggio Sur
Dante (uscito, in Italia, da Sugar nel 1969 e da Dante & Descartes nel 2017). In
direzione contraria ai pur formidabili libri del genere – chessò, i saggi
danteschi di Thomas S. Eliot e Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam –,
Gombrowicz scrive che Dante non gli pare granché; la Commedia, poi, è una boiata
pazzesca. Davanti a Piero Sanavio, indimenticato giornalista hemingwayano,
Gombrowicz rincarò la dose:
> “Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura:
> è un mio diritto”.
(A proposito: vale la pena ristampare lo studio di Sanavio edito cinquant’anni
fa da Marsilio, Gombrowicz: la forma e il rito, è più brillante di troppi,
mortificanti saggi odierni, è fitto di frasi bellissime, come questa:
“Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia”; il polacco,
d’altronde, scriveva con furia d’acquazzone).
Giuseppe Ungaretti s’incazzò e scrisse a De Roux una lettera piena di spine (“Il
libretto su Dante di quel polacco è vergognoso. È un fatto senza senso, idiota,
che questa calunnia sia stata stampata”); nel Diario, Gombrowicz annota:
“l’addetto dell’ambasciata italiana a Parigi ha annunciato una sua visita”.
Siamo nel 1969; Witold morirà poco dopo; per L’Herne era da poco apparso
un Cahier dedicato a Ungaretti, a cura di Sanavio.
La disfida – diciamo così – tra Gombrowicz e Dante durava da qualche anno. Già
nel 1966 Gombrowicz squartava il Poeta con caustica acribia:
> “La Divina Commedia non mi basta. Vi cerco Dante senza trovarlo… A scuola e a
> casa ci hanno insegnato solo a rispettarli e venerarli, mentre in realtà il
> nostro rapporto verso i Grandi è di due tipi: da un lato ci prosterniamo e li
> adoriamo, dall’altro li trattiamo con condiscendenza e disinvoltura”.
Comprendiamo l’euforica ira di Gombrowicz: l’anno prima, a Firenze, si era
celebrato il trionfo di Dante; scoccavano i settecento anni dalla sua nascita.
Saint-John Perse, il poeta e diplomatico francese, diplomato Nobel nel ’60,
tenne un discorso inaugurale, Pour Dante, prontamente stampato da Gallimard;
c’era anche Ungaretti, a rimarcare l’abissale grandezza dell’Alighieri. A
Gombrowicz irritava l’atteggiamento ossequioso – e ipocrita – dei poeti verso il
Poeta. Della Commedia, non salvava neanche l’Inferno:
> “I tormenti dei suoi dannati sono talmente rozzi, poveri, logorroici! E tutti
> quei predicozzi enunciati tra un tormento e l’altro…”.
Questo andazzo da Lucignolo – o, per restare in tema dantesco, da Cecco
Angiolieri – celebra, sotto la superficie, un’idea guerresca della letteratura,
mai assisa sugli allori – sui quali, invece, in perpetua acquiescenza, ronfano i
critici sornioni e i poeti in carriera. La stessa idea, in fondo, è professata
da Leopardi nelle Operette morali, dove si dice (siamo all’altezza del Parini o
della Gloria) che le opinioni dei critici e degli storici sono corrotte da
“consuetudine ciecamente abbracciata”. I lettori non mettono mai in discussione
ciò che le accademie e il pregiudizio impongono; eppure, i grandi scrittori,
proprio perché tali, devono essere interrogati e sfidati di continuo, fino a
sfrattarli dal trono. Così – è ancora Leopardi – “a me interviene non di rado di
ripigliare nelle mani Omero o Cicerone e il Petrarca e non sentirmi muovere da
quella lettura in alcun modo”.
Per continuare sulla scia del Gombrowicz “leopardiano”, bisogna
leggere il Diario (ora in unico tomo per il Saggiatore, nella traduzione di
allora, di Vera Verdiani, quando lo stampava Feltrinelli, in due tomi, usciti
nel 2004 e nel 2008; medesima anche l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, a
parte lievi modifiche nel primo paragrafo) dal fondo, dalla formidabile
allocuzione Contro i poeti. Gombrowicz ridicoleggia lo statuto dei poeti che
“ormai non cantano più per la gente, ma per se stessi”, stigmatizza “il poeta
come un essere che non può esprimere se stesso perché è costretto a esprimere la
Poesia”. In sostanza, il Witold scatenato sbugiarda l’idolo della Letteratura,
la menzogna della Cultura. Scrivere, dice Gombrowicz, vuol dire azzerare tutto,
soprattutto se stessi, fare della penna il proprio plotone di esecuzione,
rifuggire dai riti dei letterati e dai premi, rifulgere nella rinuncia.
Contro i poeti era stato preparato per un discorso pubblico accaduto a Buenos
Aires nel 1947; trasferitosi nella capitale argentina dal 1939, Gombrowicz ha
scritto lì, da reietto, da “eremita sepolto vivo in Argentina”, le pagine più
violente del Diario. Malsopportava Victoria Ocampo, “un’anziana aristocratica
piena di milioni”, e i galoppini d’intelletto fino che ronzavano intorno a “Sur”
– Paul Valéry, Bernard Shaw, Keyserling – galvanizzati da “quell’insistente
sentore di soldi aleggiante attorno alla signora”. Impossibile per uno scrittore
“affascinato dagli strati inferiori del paese” entrare in contatto con Borges,
> “un artista che il caso aveva fatto nascere in Argentina, ma che avrebbe
> potuto altrettanto bene, e forse meglio, essere nato a Montparnasse”.
Il Diario di Gombrowicz è tutt’altro dai pur mirabili Journal che i francesi
hanno prodotto a frotte – quelli, ad esempio, di André Gide, di Marcel
Jouhandeau, di Julien Green. Lì la suprema raffinatezza rispecchia l’impero
dell’egotismo, l’energia di una schifiltosa interiorità; qui, invece, è
l’audacia dell’individuo che dilania se stesso, sono le dighe disintegrate, i
tombini bombardati, il dio del caos in casa. Gombrowicz disprezzava la
letteratura dello show, la letteratura “sfrattata dallo spirito individuale”,
che
> “diventa preda di fattori extra-spirituali e puramente sociali. Premi,
> concorsi. Celebrazioni. Associazioni professionali. Editori. Stampa. Politica.
> Cultura. Ambasciate. Convegni”.
Il Diario è un antidoto a quest’epoca esangue, retta dall’autocensura e dal
perbenismo della correttezza. In spiaggia, per dire, a Piriápolis, Uruguay, è il
1962, Gombrowicz inveisce contro le grasse, contro lo “svaccato stravaccamento
di quello schifo sfacciatamente sfrontato”, quel “donnesco baobab di donna dal
debordante didietro… e chi lo trova un macellaio capace di venirne a capo?”.
Terrorizzato dai grandi numeri – che annientano l’io allo sbadiglio, a uno
sbaglio, allo zero – Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come
faccio ad amare un’unica donna se “non so chi sono io” e lei è
> “una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante
> vacche… un miliardo di vacche, un miliardo di femmine?”.
Ha scritto che “l’arte è aristocratica fino al midollo, come un principe di
sangue reale. È negazione dell’uguaglianza e culto della superiorità”. Resta il
fondatore di un’eresia letteraria senza seguaci – per chiunque scriva, Witold
Gombrowicz è un San Paolo: ci ha messo la croce addosso, aprendoci la via del
tormento e della gloria.
L'articolo “L’arte è aristocratica fino al midollo”. Witold Gombrowicz contro
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