Dostoevskij era ossessionato dal suicidio. Più che dal corpo morto, era
ossessionato dall’anima scassinata, avvizzita. Nel Diario di uno scrittore,
l’immane rubrica pubblicata su “Il cittadino” dal 1873 – in Italia stampa
Bompiani, nell’atavica traduzione di Ettore Lo Gatto – Dostoevskij scrive spesso
di suicidi. Nell’ottobre del 1876, ad esempio, dice di “una povera giovane” che
“si era buttata dalla finestra, dal quarto piano… tenendo nelle mani un’immagine
sacra”. Questo “suicidio umile” sarà il pretesto per uno dei racconti più noti
di Dostoevskij, La mite.
Anche Nathaniel Hawthorne, lo scrittore della Lettera scarlatta, era
ossessionato dal suicidio. Nel suo Diario – cito dalla traduzione di Agostino
Lombardo, Neri Pozza, 1959 – appunta che il 9 luglio del 1845, in un fiume nei
dintorni di Salem, era stato ritrovato il “cadavere d’una fanciulla annegata:
era una certa Miss Hunt, di circa diciannove anni, ragazza colta e raffinata, ma
depressa e infelice”. È una pagina terribile e – dunque – meravigliosa:
Hawthorne, con olimpica pietà, racconta, nel dettaglio, il corpo del
suicida (“Non avevo mai visto o immaginato uno spettacolo di tanto perfetto
orrore. La rigidità era terribile a vedersi. Le sue braccia s’erano irrigidite
nell’atto di lottare; ed erano curve davanti a lei, con le mani ad artiglio”); è
affascinato dalla scena, sensazionale, di cui vuole carpire il principio.
A Hawthorne interessa il carattere della ragazza morta. Dostoevskij, invece,
indaga la ragione del suicidio, una ragione irragionevole. Le ragazze di cui i
due grandi scrittori narrano il suicidio sono simili: “la mite anima che ha
annientato se stessa” di Dostoevskij è analoga alla pia fanciulla descritta con
sinistra minuzia da Hawthorne, “pare che fosse religiosa, e di elevata
moralità”. Dalla diversa capacità di raccontare un suicidio – uno ausculta
l’anima l’altro descrive il corpo, uno tenta la compassione l’altro la
redenzione – potremmo tracciare il confine che separa la latitudine della
letteratura russa da quella statunitense.
Hawthorne muore nel 1864, quando Dostoevskij pubblica Memorie del sottosuolo: li
immagino camminare insieme, lungo la Neva. Entrambi – tra l’altro – avevano una
passione per i matti.
Nel breve scritto sulla giovane suicida che si getta dalla finestra abbracciando
un’icona, Dostoevskij aggiunge un dettaglio decisivo.
> “Semplicemente, era diventato impossibile vivere”.
Questa frase è l’oblò da cui guardare l’oceanica opera di Dostoevskij. Lo
scrittore deve scrivere di quel luogo in cui, semplicemente, è diventato
impossibile vivere. In uno dei racconti più belli di Dostoevskij, Il sogno di un
uomo ridicolo (accolto, nella nuova traduzione di Serena
Prina, nei Racconti editi da Feltrinelli, 2023), pubblicato sul Diario di uno
scrittore nell’aprile del 1877, un uomo, semplicemente, capisce che è
impossibile vivere. “All’improvviso sentii che mi era del tutto indifferente se
il mondo esistesse o se non ci fosse nulla da nessuna parte”. Una notte, così,
l’uomo ridicolo – parente stretto dell’uomo del sottosuolo – decide di
uccidersi. È il tre di novembre, è sera, “una sera cupa, la più cupa che possa
esistere”, sono le undici. L’uomo fissa una stella e compie la sua scelta,
“quella notte stabilii di uccidermi”. D’altronde, tutti lo credono pazzo perché
l’uomo ridicolo riconosce l’insensatezza di tutte le cose: è un profeta del
nulla, un gretto guru del disordine, capace di ledere il sistema di convivenza
sociale. Chi ride di lui si crede potente, ma è un ipocrita perché vive in un
mondo illusorio. I veri pazzi sono quelli che stanno bene a questo mondo.
La faccio breve. L’uomo ridicolo non si ammazza. A salvarlo – inconsapevolmente
– è una bambina di otto anni, “tutta fradicia”, lacera, che “urlava in modo
sconnesso… Mammina! Mammina!”. L’uomo la allontana da sé in malo modo: rientrato
a casa, si accascia in poltrona, si addormenta. Al risveglio dal sonno –
picaresco, “fantastico”, cristico, che evito di raccontare – l’uomo ridicolo è
preso da un incendio religioso. Proclama l’amore universale, sventola il
Vangelo, diventa “una sorta di jurodivyj”, uno “stolto in Cristo”, un
pellegrino, ispirato e poverissimo. In ogni caso, è creduto pazzo.
Morale: l’esperienza del nulla è necessaria per riconoscere Cristo, che
altrimenti resta orpello, il doppiopetto dei vili; il vero cristiano è chi
scampa da una crisi che schiaccia, che pone sulla soglia del suicidio. Fuori dal
cristianesimo, semplicemente, non si può vivere, non ha senso la vita.
La “ragazzina” che salva la vita all’uomo ridicolo – “quanto alla ragazzina,
l’ho rintracciata…”, scrive ‘Dost’, dando al racconto l’impeto di una sequela –
è la suicida rediviva, la mite mitizzata, è Matrëša risorta, la ragazzina
“bionda e lentigginosa”, dal “viso comune ma con qualcosa di molto infantile e
quieto”, che si impicca dopo essere stata violata da Stavrogin, il demonio
attorno a cui ruota la vicenda de I demoni. Secondo Lev Šestov, che sui libri di
Dostoevskij ha fondato il suo implacabile sistema filosofico, Il sogno di un
uomo ridicolo è l’opera quintessenziale dello scrittore russo, quella che
riassume i suoi temi totem.
> “Dostoevskij, come i santi in cerca di salvezza, ascolta senza tregua una voce
> misteriosa che gli sussurra: Osa! Tenta il deserto, la solitudine. Sarai
> bestia o Dio”.
Soltanto l’uomo imbestiato, che percorre l’abisso e l’abiezione, scorge, poco
dopo il demone, Dio.
Secondo Michail Bachtin, invece – così ci spiega Serena Prina – è Bobok il
“microcosmo di tutta l’opera di Dostoevskij”. Il testo – intriso d’ironia nera,
un Edgar Poe allucinato dalla vodka – racconta di “un tale”, scrittore in
disfatta, che un giorno, capitato al cimitero, ascolta i pettegolezzi dei morti.
Il racconto oltraggia i contrasti: i veri saggi sono i pazzi (“colui che
rinchiude un altro in manicomio non dimostra certo la propria condizione di
persona savia”), la vera vita, forse, è la morte, secondo l’enigmatico aforisma
di Euripide (“Chi sa se forse vivere è morire e morire è vivere”). Bobok è
l’intercalare borbottato da uno dei morti, “quasi del tutto decomposto”: parola
insensata, che “significa comunque che anche in lui la vita conserva ancora
un’impercettibile scintilla”. Bobok è la parola ultima, estremo sigillo di vita
sulla soglia della fine, fetida fiamma. Fa parte, Bobok, di quel vocabolario
minimo di neologismi lunari: si installa tra Pallaksch, parola-amuleto di
Friedrich Hölderlin (un insensato che vuol dire sì e no allo stesso tempo,
asserzione che si fonda sulla negazione), e Aphinar, parola-mappa, la meta,
inesistente, a cui Rimbaud chiede di essere destinato, morente, paralizzato, sul
letto ospedaliero di Marsiglia.
Bobok è il richiamo delle Muse-iene, a un passo tra ispirazione e disperanza.
Si legge Dostoevskij, d’altronde, sempre in prossimità di un delirio, di un Dio
a venire, avventato.
*In copertina: un disegno di Victor Hugo
L'articolo “Osa! Sarai bestia o Dio”. Dostoevskij, o dell’impossibile proviene
da Pangea.
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Ne sappiamo poco o nulla, ma quello che avviene a Petrópolis tra il 22 e il 23
febbraio del 1942, in pieno Carnevale, ha di certo anche un aspetto teatrale, di
accurata messinscena: il doppio suicidio di Stefan e Lotte assomiglia
terribilmente, o costituisce un’allusione neanche troppo criptica, ai limiti del
plagio, a un altro doppio suicidio della storia letteraria tedesca: quello che
nel 1811 aveva visti coinvolti, al Wannsee presso Potsdam, Henriette Vogel e
Heinrich von Kleist, autore che Zweig venerava e con il quale forse, a proprio
discapito, si confrontava come scrittore. Ci si può quindi chiedere se, oltre
all’avanzata apparentemente inarrestabile del nazismo, al venir meno
dell’ammirazione e della vicinanza dei lettori, alla solitudine e all’isolamento
intellettuale nonché alla malattia di Lotte, una parte nella decisione di Zweig
non l’abbia avuta anche la suggestione di replicare, come in un macabro omaggio,
l’autodistruzione kleistiana. Imbastendo una storia magari leggermente diversa
nei dettagli, ma al contempo così simile nell’incapacità, da parte di entrambi
gli scrittori, di affrontare la realtà.
Fatto sta che nello schizzo biografico che Zweig aveva dedicato a Kleist molti
anni prima sembra di cogliere una partecipazione autentica, non artefatta, alla
vicenda narrata. A un certo punto Zweig menziona anche (e sembra far suo)
il Doppelblick (“doppio sguardo”) teorizzato da Kleist, uno sguardo volto
contemporaneamente tanto al passato quanto al futuro da parte di colui che,
consacrandosi alla morte, raggiunge la suprema armonia. Molte delle
caratteristiche che Zweig attribuisce a Kleist, scrittore ammiratissimo per la
compresenza di eccesso e disciplina, di veemenza e freddo rigore, potrebbero
essere riferite anche a lui stesso:
> “Come gli accade nei confronti degli esseri umani, Kleist si interessa alla
> natura, al mondo, solo nei loro limiti più estremi, dove si superano sfociando
> nell’inaudito e nell’improbabile, anzi direi quasi, dove diventano eccessivi e
> viziosi e abbandonano ogni forma. E come nei confronti dell’umanità, a lui
> interessa solo l’anormale, la deviazione dalla regola (la Marchesa di O.; la
> mendicante di Locarno; il terremoto in Cile), sempre il momento in cui
> sembrano irrompere fuori dalle cerchie preferite da Dio”.
E aggiunge, a proposito proprio del suicidio di Kleist, delle sue modalità e
delle sue ragioni profonde:
> “L’essenza intima del suo essere era impazienza e tensione, il significato
> ineliminabile del suo destino era l’autodistruzione attraverso l’eccesso: ecco
> perché la sua morte prematura e volontaria è il suo capolavoro, tanto quanto
> il Principe di Homburg: perché accanto ai potenti, a coloro che sono dei
> maestri della vita come Goethe, di tanto in tanto emerge qualcuno che invece
> padroneggia la morte e attraverso la morte crea una poesia che va al di là del
> tempo”.
E proprio come Kleist aveva cercato e trovato nell’amica Henriette Vogel,
gravemente malata di cancro, qualcuno che lo seguisse e lo accompagnasse
nell’atto fatale, così Zweig aveva potuto contare sul sostegno e sulla
complicità, non sappiamo fino a che punto convinta, di Lotte.
Questo del doppio suicidio è un motivo che era già comparso, comunque,
nell’opera di Zweig, anche se veniva solo programmato senza essere poi portato a
termine. Mi riferisco al romanzo incompiuto Estasi di libertà (Rausch der
Verwandlung), in parte utilizzato dal regista Wes Anderson quale fonte
d’ispirazione per il suo recente film Grand Budapest Hotel (2014). I due
protagonisti, la giovane Christine Hoflehner e Ferdinand, reduce dalla Grande
guerra e dalla prigionia in Russia, entrambi frustrati e indignati con uno Stato
che non li tutela, decidono dapprima di farla finita insieme, per poi ripiegare
su una soluzione meno drastica, la rapina di un ufficio postale. Quello che nel
romanzo era un semplice espediente narrativo risoltosi in commedia torna ora
d’attualità sotto una forma molto più drammatica e reale, acquisendo uno statuto
di fattibilità e forse persino di opportunità.[1]
Si è molto discusso delle reali condizioni di salute di Lotte, che soffriva
d’asma, doveva usare un inalatore durante la notte e passava attraverso ripetute
crisi respiratorie, ma il cui stato di salute generale, sebbene aggravatosi dopo
il soggiorno a New York, non sembrava poter giustificare una decisione così
drastica. Certo, le crisi di Lotte non contribuirono a rasserenare l’atmosfera
generale, e se Zweig si era mai aspettato che una moglie tanto più giovane
potesse in qualche modo spronarlo e legarlo alla vita, ora dovette disilludersi.
Quanto aveva amato in passato quella sua fragilità, che lo induceva a
proteggerla e a custodirla come un bene prezioso, tanto ora gli sembrava un
ulteriore onere, un ostacolo insormontabile che gli impediva di vivere
pienamente la propria esistenza. In una lettera scritta proprio alla vigilia del
suicidio ai cognati Manfred e Hannah Altmann, e quindi alla famiglia di Lotte,
Zweig fa riferimento a una prolungata cura d’iniezioni, probabilmente a base di
antigeni, che non le avrebbe fatto alcun effetto, convincendoli quindi
dell’opportunità dell’atto finale. Ma è mai possibile che ad appena trentatré
anni Lotte fosse davvero già così stanca della vita e incapace di lottare? E non
è forse plausibile che avere al fianco una persona sicuramente malinconica, se
non depressa, come Zweig, abbia potuto fiaccarne e cancellarne l’istinto di
autoconservazione?
A quanto pare, la morte di Zweig fu causata dall’ingestione di numerose
compresse di Veronal, il cui tubetto vuoto fu trovato sul tavolino da notte
insieme a una bottiglia d’acqua minerale di cui non rimaneva che un quarto.
Maggiori dubbi riguardano invece la sostanza ingerita da Lotte, che sembra
essere morta più tardi e aver preferito un altro tipo di barbiturico, perché
rispetto a quello di Stefan il corpo emanava un diverso e più forte odore. Si è
notata anche una differenza nel modo di presentarsi alla morte: Zweig era
vestito di tutto punto (camicia sportiva a maniche corte, cravatta nera,
pantaloni scuri – con un tocco di eleganza austriaca, insomma), mentre Lotte
portava una vestaglia a fiori senza pretese. Così come ha lasciato perplessi
un’ulteriore differenza, riguardante la posizione, che nel caso di Zweig sembra
non lasciare nulla al caso ed è estremamente dignitosa, là dove invece Lotte lo
cinge e gli stringe le mani, ma è tutta contratta e raggomitolata su un fianco.
In ogni caso, Zweig avrebbe voluto delle esequie private e un rito laico,
avrebbe preferito insomma scomparire in silenzio. Ma la trasformazione del suo
funerale, alla presenza del dittatore brasiliano Vargas, in un grande evento
spettacolare sancirà il mancato rispetto anche di quest’ultima volontà. Un
corteo imponente, seguito da quattromila persone, poi una funzione ebraica,
e dulcis in fundo un versetto biblico inciso sulla pietra tombale – nulla che
alla fin fine importi davvero, alla resa dei conti, ma certo non quello che
Zweig, ormai lontano da ogni esibizione religiosa, avrebbe voluto.
Raoul Precht
*Per gentile concessione si pubblica un estratto da: R. Precht, “Stefan
Zweig. La fine di un mondo”, Milano, Ares, 2025
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[1] Con Estasi di libertà, scritto nel 1930-31, Zweig ritenta senza troppo
successo la strada del romanzo, riprendendo alcuni temi, come le conseguenze
della Prima guerra mondiale e della successiva inflazione per i ceti popolari o
il dramma dei reduci, temi già trattati in alcuni racconti precedenti e nel
dramma Das Lamm des Armen, mettendo in drammatico risalto da un lato il potere
del denaro e dall’altro la contrapposizione fra gente comune e quello sparuto
gruppo di ricchi che possono permettersi di vivere negli hotel di lusso.
L'articolo Il gusto della messinscena. Gli ultimi giorni di Stefan Zweig
proviene da Pangea.