Ne sappiamo poco o nulla, ma quello che avviene a Petrópolis tra il 22 e il 23
febbraio del 1942, in pieno Carnevale, ha di certo anche un aspetto teatrale, di
accurata messinscena: il doppio suicidio di Stefan e Lotte assomiglia
terribilmente, o costituisce un’allusione neanche troppo criptica, ai limiti del
plagio, a un altro doppio suicidio della storia letteraria tedesca: quello che
nel 1811 aveva visti coinvolti, al Wannsee presso Potsdam, Henriette Vogel e
Heinrich von Kleist, autore che Zweig venerava e con il quale forse, a proprio
discapito, si confrontava come scrittore. Ci si può quindi chiedere se, oltre
all’avanzata apparentemente inarrestabile del nazismo, al venir meno
dell’ammirazione e della vicinanza dei lettori, alla solitudine e all’isolamento
intellettuale nonché alla malattia di Lotte, una parte nella decisione di Zweig
non l’abbia avuta anche la suggestione di replicare, come in un macabro omaggio,
l’autodistruzione kleistiana. Imbastendo una storia magari leggermente diversa
nei dettagli, ma al contempo così simile nell’incapacità, da parte di entrambi
gli scrittori, di affrontare la realtà.
Fatto sta che nello schizzo biografico che Zweig aveva dedicato a Kleist molti
anni prima sembra di cogliere una partecipazione autentica, non artefatta, alla
vicenda narrata. A un certo punto Zweig menziona anche (e sembra far suo)
il Doppelblick (“doppio sguardo”) teorizzato da Kleist, uno sguardo volto
contemporaneamente tanto al passato quanto al futuro da parte di colui che,
consacrandosi alla morte, raggiunge la suprema armonia. Molte delle
caratteristiche che Zweig attribuisce a Kleist, scrittore ammiratissimo per la
compresenza di eccesso e disciplina, di veemenza e freddo rigore, potrebbero
essere riferite anche a lui stesso:
> “Come gli accade nei confronti degli esseri umani, Kleist si interessa alla
> natura, al mondo, solo nei loro limiti più estremi, dove si superano sfociando
> nell’inaudito e nell’improbabile, anzi direi quasi, dove diventano eccessivi e
> viziosi e abbandonano ogni forma. E come nei confronti dell’umanità, a lui
> interessa solo l’anormale, la deviazione dalla regola (la Marchesa di O.; la
> mendicante di Locarno; il terremoto in Cile), sempre il momento in cui
> sembrano irrompere fuori dalle cerchie preferite da Dio”.
E aggiunge, a proposito proprio del suicidio di Kleist, delle sue modalità e
delle sue ragioni profonde:
> “L’essenza intima del suo essere era impazienza e tensione, il significato
> ineliminabile del suo destino era l’autodistruzione attraverso l’eccesso: ecco
> perché la sua morte prematura e volontaria è il suo capolavoro, tanto quanto
> il Principe di Homburg: perché accanto ai potenti, a coloro che sono dei
> maestri della vita come Goethe, di tanto in tanto emerge qualcuno che invece
> padroneggia la morte e attraverso la morte crea una poesia che va al di là del
> tempo”.
E proprio come Kleist aveva cercato e trovato nell’amica Henriette Vogel,
gravemente malata di cancro, qualcuno che lo seguisse e lo accompagnasse
nell’atto fatale, così Zweig aveva potuto contare sul sostegno e sulla
complicità, non sappiamo fino a che punto convinta, di Lotte.
Questo del doppio suicidio è un motivo che era già comparso, comunque,
nell’opera di Zweig, anche se veniva solo programmato senza essere poi portato a
termine. Mi riferisco al romanzo incompiuto Estasi di libertà (Rausch der
Verwandlung), in parte utilizzato dal regista Wes Anderson quale fonte
d’ispirazione per il suo recente film Grand Budapest Hotel (2014). I due
protagonisti, la giovane Christine Hoflehner e Ferdinand, reduce dalla Grande
guerra e dalla prigionia in Russia, entrambi frustrati e indignati con uno Stato
che non li tutela, decidono dapprima di farla finita insieme, per poi ripiegare
su una soluzione meno drastica, la rapina di un ufficio postale. Quello che nel
romanzo era un semplice espediente narrativo risoltosi in commedia torna ora
d’attualità sotto una forma molto più drammatica e reale, acquisendo uno statuto
di fattibilità e forse persino di opportunità.[1]
Si è molto discusso delle reali condizioni di salute di Lotte, che soffriva
d’asma, doveva usare un inalatore durante la notte e passava attraverso ripetute
crisi respiratorie, ma il cui stato di salute generale, sebbene aggravatosi dopo
il soggiorno a New York, non sembrava poter giustificare una decisione così
drastica. Certo, le crisi di Lotte non contribuirono a rasserenare l’atmosfera
generale, e se Zweig si era mai aspettato che una moglie tanto più giovane
potesse in qualche modo spronarlo e legarlo alla vita, ora dovette disilludersi.
Quanto aveva amato in passato quella sua fragilità, che lo induceva a
proteggerla e a custodirla come un bene prezioso, tanto ora gli sembrava un
ulteriore onere, un ostacolo insormontabile che gli impediva di vivere
pienamente la propria esistenza. In una lettera scritta proprio alla vigilia del
suicidio ai cognati Manfred e Hannah Altmann, e quindi alla famiglia di Lotte,
Zweig fa riferimento a una prolungata cura d’iniezioni, probabilmente a base di
antigeni, che non le avrebbe fatto alcun effetto, convincendoli quindi
dell’opportunità dell’atto finale. Ma è mai possibile che ad appena trentatré
anni Lotte fosse davvero già così stanca della vita e incapace di lottare? E non
è forse plausibile che avere al fianco una persona sicuramente malinconica, se
non depressa, come Zweig, abbia potuto fiaccarne e cancellarne l’istinto di
autoconservazione?
A quanto pare, la morte di Zweig fu causata dall’ingestione di numerose
compresse di Veronal, il cui tubetto vuoto fu trovato sul tavolino da notte
insieme a una bottiglia d’acqua minerale di cui non rimaneva che un quarto.
Maggiori dubbi riguardano invece la sostanza ingerita da Lotte, che sembra
essere morta più tardi e aver preferito un altro tipo di barbiturico, perché
rispetto a quello di Stefan il corpo emanava un diverso e più forte odore. Si è
notata anche una differenza nel modo di presentarsi alla morte: Zweig era
vestito di tutto punto (camicia sportiva a maniche corte, cravatta nera,
pantaloni scuri – con un tocco di eleganza austriaca, insomma), mentre Lotte
portava una vestaglia a fiori senza pretese. Così come ha lasciato perplessi
un’ulteriore differenza, riguardante la posizione, che nel caso di Zweig sembra
non lasciare nulla al caso ed è estremamente dignitosa, là dove invece Lotte lo
cinge e gli stringe le mani, ma è tutta contratta e raggomitolata su un fianco.
In ogni caso, Zweig avrebbe voluto delle esequie private e un rito laico,
avrebbe preferito insomma scomparire in silenzio. Ma la trasformazione del suo
funerale, alla presenza del dittatore brasiliano Vargas, in un grande evento
spettacolare sancirà il mancato rispetto anche di quest’ultima volontà. Un
corteo imponente, seguito da quattromila persone, poi una funzione ebraica,
e dulcis in fundo un versetto biblico inciso sulla pietra tombale – nulla che
alla fin fine importi davvero, alla resa dei conti, ma certo non quello che
Zweig, ormai lontano da ogni esibizione religiosa, avrebbe voluto.
Raoul Precht
*Per gentile concessione si pubblica un estratto da: R. Precht, “Stefan
Zweig. La fine di un mondo”, Milano, Ares, 2025
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[1] Con Estasi di libertà, scritto nel 1930-31, Zweig ritenta senza troppo
successo la strada del romanzo, riprendendo alcuni temi, come le conseguenze
della Prima guerra mondiale e della successiva inflazione per i ceti popolari o
il dramma dei reduci, temi già trattati in alcuni racconti precedenti e nel
dramma Das Lamm des Armen, mettendo in drammatico risalto da un lato il potere
del denaro e dall’altro la contrapposizione fra gente comune e quello sparuto
gruppo di ricchi che possono permettersi di vivere negli hotel di lusso.
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Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza
considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente
la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a
Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo
brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di
essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai
suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il
romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno
dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e
dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra.
Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante
vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato
e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una
scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta
anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.
Aveva, come sempre, ragione.
Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura
francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa –
registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale
come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria
Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il
consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras,
Yourcenar, de Beauvoir…).
Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra –
sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus &
Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur
disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è
ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica
penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati
in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni
– non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi
misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il
sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di
bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la
biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares,
2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la
vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine
incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi,
ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo
(anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che
bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito
alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia
Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant,
Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per
Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni
“testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).
Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise
Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai
“miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli
scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita
dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una
questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.
Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il
quale penetrare nel mondo della Némirovsky?
Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due
romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo
il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben
distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel
1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in
assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne
segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei
anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet
e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”,
se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento,
fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica
scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a
lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di
antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il
romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha
determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel
2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha
definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente
finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche
perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una
certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema
dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge
l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto
l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un
tono lirico.
Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?
Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse,
scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène
Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a
tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe
insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la
affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se
forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da
personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati
all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli,
gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per
cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio
direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale
dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.
Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria?
Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio
soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica
pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la
lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans,
Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva
intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come
avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano
Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande
influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice
famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una
predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano
più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era
ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva
mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e
Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi
dedicati a Sisifo della poesia La scarogna.
…e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?
Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è
oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il
successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale
che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente
maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste
importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini.
L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi
talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di
pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno
spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché
sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale,
Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel
gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”,
le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne
ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti
suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di
israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale
slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner
firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma
la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando
l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua
opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e
romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti
dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli
internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James
Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente
recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una
passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però
ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène
e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la
aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che
dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.
Irène Némirovsky (1903-1942)
Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare
un destino?
L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione
bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria,
una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria
il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa
Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di
Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata
dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole
della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie
dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere
ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice
di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che
traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940,
incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli
stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia
come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione
tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a
rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi,
malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il
governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera.
Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky?
Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due
tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre
e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il
più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili
nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e
le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante,
insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le
donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di
grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a
inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.
La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una
sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così?
Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène?
Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò
che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e
continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando
poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al
mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle
recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della
slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa
nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più
tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese,
investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro
incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con
nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire
per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo
scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere
deportata.
Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è
in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora?
È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che
scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto.
Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino
collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era
quella di ricordarsi che
> “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre
> quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto
> la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.
Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale
ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di
Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al
lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso
di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda
dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e
sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo,
le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo
lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno
spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente
posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto,
interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.
L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo
con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.