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“La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di Ezra Pound
Due anniversari poundiani ci ‘obbligano’ a rileggere il poeta-totem del secolo. Il primo è sul bivio della tragedia: ottant’anni fa – era il maggio del 1945 – Pound viene arrestato con l’accusa di alto tradimento, recluso in un campo, a Pisa, in durissime condizioni. In giugno subisce diverse visite psichiatriche; sarà poi scortato nel reclusorio militare di St. Elizabeths, Washington DC. D’altro stampo il secondo anniversario: il 9 luglio Mary de Rachewiltz compie cento anni. La figlia – nata dall’unione di Pound con la violinista Olga Rudge – ha dedicato la vita alla divulgazione e alla traduzione delle opere del padre, custodendone il carisma. Una mostra, allestita presso il Palais Mamming di Merano, “Mary’s Dream. Portrait of a Lady”, ne riassume l’esistere, a suo modo rude – e regale. In memoria di Ezra Pound, l’ultimo numero di “Studi Cattolici”, la rivista di Ares – tra i rari, integerrimi editori ‘poundiani’ in Italia – dedica un “Quaderno” speciale da cui abbiamo estratto lo studio di Alessandro Rivali, già autore del libro-intervista “Ho cercato di scrivere Paradiso. Ezra Pound nelle parole della figlia” (Mondadori, 2018). Il fascicolo è arricchito da materiali poundiani inediti tratti dall’archivio di Cesare Cavalleri; è trascritta inoltre una lettera di Pound alla figlia dalla prigione di Pisa il 19 ottobre del 1945, di particolare bellezza, a liceità di un ‘compito’: “sei autorizzata a curare il mio ms [manoscritto] ma non voglio che tu venga sommersa, preferirei piuttosto che tu scriva dieci pagine per conto tuo invece di curarne un centinaio. Ok per un lavoro di dieci anni nel tuo tempo libero, ma attenta a non affondare in un lavoro accademico”.  ** Ottant’anni fa – era il 3 maggio del 1945 – iniziò la prigionia del poeta Ezra Pound (1887-1972). Sulle sue spalle pesava la gravissima accusa di tradimento, per aver parlato – da cittadino statunitense – ai microfoni della Radio Fascista1. Dopo i primi interrogatori, relativamente tranquilli, a Genova, presso il Centro del controspionaggio americano distaccato presso la 92ª Divisione Usa, il 25 maggio il poeta fu portato al campo di reclusione e rieducazione per soldati americani costruito nel comune di Metato, a nord di Pisa. Qui, Pound fu rinchiuso in una gabbia non troppo diversa da quelle che abbiamo visto nei servizi tv dedicati alla prigione di Guantanamo. Esposto al sole cocente di giorno e alla luce dei riflettori di notte, in uno spazio ristrettissimo e senza ripari, incerto sulla sua condizione futura, che avrebbe potuto anche condurlo sulla sedia elettrica, il poeta pensò – come mi confidò la figlia Mary – al suicidio, forse tagliandosi i polsi con il reticolato con cui era stata rinforzata la sua gabbia. Il 18 giugno Pound patì un collasso nervoso dovuto all’asprezza della detenzione, e di conseguenza gli furono concesse condizioni mitigate nell’infermeria del campo.  In queste circostanze così drammatiche il poeta continuò a scrivere quei Cantos che nel suo intento dovevano essere il Grande poema americano e a cui si era dedicato anima e corpo dagli anni della Prima guerra mondiale (i primi tre canti, poi completamente rivisti, uscirono su Poetry nel 1917).  I canti nati dalla prigionia di Pisa – i famosi Pisan Cantos, vincitori del prestigioso Premio Bollingen del 1949 – sono forse il momento più alto e commosso della multiforme avventura poetica di Pound. Sono il personalissimo “Purgatorio” di un uomo su cui «il sole è tramontato», che scopre che «la carità più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole», che si sente un «cane bastonato sotto la grandine» e che comprende che «chi ha trascorso un mese nelle celle della morte / non crede più alla pena capitale / Dopo un mese nelle celle della morte un uomo / non ammetterà gabbie per belve». Nel suo Commento ai Cantos, in appendice all’edizione del ‘Meridiano’ Mondadori, la figlia Mary scriverà dei Pisani: «Si possono considerare anche un testamento, un addio agli amici e un’autobiografia degli affetti». Pound nel campo di Pisa scrive sull’improvvisato materiale che ha a disposizione, fosse pure un lembo di carta igienica (se ne può vedere uno in foto nell’edizione New Directions dei Pisan Cantos curata da Richard Sieburth2). Pound diventa uno scriba che ha per appiglio lo scrigno della memoria e per ispirazione la realtà osservabile dalla gabbia. È «sostenuto» dall’apparizione di una lucertola, nota «gli uccelli selvatici [che] mangiavano pane bianco», come «un grillino verde / smeraldo più pallido» a cui «manca la zampina destra», suggerisce perfino a un felino intruso di cambiare le sue abitudini: «Gatto ladro nottambulo lascia stare i miei duri tomi / non è cibo per gatti / se tu fossi più furbo / verresti all’ora dei pasti / quando la carne abbonda / non puoi mangiare i manoscritti né il Confucio / e neppure la Bibbia / fuori da questa scatola di lardo / timbrata W, 11 o o 9 o / che mi fa da guardaroba». E ancora, Pound benedice il vento che «sa di mare» e lo «toglie all’inferno, alla fossa / alla polvere e alla luce accecante». Nei Pisani Pound è la «formica solitaria da un formicaio distrutto» e «dalle rovine dell’Europa» si chiede se rivedrà «le antiche strade», inoltre riavvolge il nastro della memoria fino al giorno in cui lasciò l’America per l’Europa con 80 dollari in tasca e il sogno di diventare poeta. Nel suo “diario di un dolore” dietro i reticolati scriverà alcuni dei più toccanti versi del Novecento, tra cui quelli indimenticabili del Canto 81: «Quello che veramente ami rimane, / il resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità». Il primo traduttore dei Pisani fu Alfredo Rizzardi che compendiò bene i motivi portanti dell’opera:  > “Nei Canti pisani la fantasia scopre la memoria, e il suo calore non è più > fuoco fatuo, ma giunge a bruciare. Costante in ogni pagina è la scoperta della > propria vita passata, per cui le figure evocate nel cerchio infiammato della > propria vita passata paiono ancora più reali, più vive di quelle sbiadite, che > lo circondano. Amici. Compagni di giovinezza, figure care: evocate dalla terra > dei morti quasi il Poeta vi avesse posato il piede e a essi parlasse”3.   * I Drafts and Fragments Se i Pisani sono felicemente noti, non si può dire lo stesso per l’ultimo tassello del grande poema incompiuto (o “infinito” secondo la suggestione della figlia Mary) dei Cantos. Quei Drafts and Fragments che in Italia conosciamo in tre edizioni: Scheiwiller (1973, a cura di Mary de Rachewiltz), Guanda (1981, a cura di Carlo Alberto Corsi e Michelangelo Coviello) e quella del ‘Meridiano’ Mondadori preparato sempre da Mary de Rachewiltz nel 1985 per il centenario della nascita di Pound.  Questi ultimi frammenti sono di una bellezza lacerante. Schegge purissime. Bagliori carichi di pietasche segnano il tempo di un uomo al tramonto della vita. Di un uomo che aveva scontato senza processo tredici anni di manicomio criminale a Washington e che, una volta tornato in Italia, correva l’estate del 1958, sognava di dare un “Paradiso” al suo poema. La realtà fu ben diversa, senz’altro più cruda.  Gli anni del “ritorno” non furono facili. Pound era invecchiato, era stato privato della personalità giuridica e affidato alla moglie Dorothy, nominata suo tutore legale, da tanti era considerato un “nemico” dal passato ingombrante, sentiva la mancanza di troppi amici. Eppure, in quel tempo difficile, iniziò gli appunti per l’ultimo tratto del suo lungo viaggio. Iniziò a scrivere a Brunnenburg, il castello di Mary e Boris de Rachewiltz a Tirolo, pochi chilometri sopra Merano, cercando di combattere i demoni che di volta in volta lo tentavano: i rigori del clima, l’isolamento del luogo, la solitudine, lo spaesamento e persino la gelosia delle donne intorno a lui, come avrebbe annotato nel Canto 113. Per il poeta Brunnenburg sarebbe dovuta essere la personale Ezuversity dove accogliere discepoli e amici e continuare a scrivere (come aveva fatto negli anni di reclusione in cui aveva lavorato alle sezioni Rock Drill e Thrones dei Cantos). Invece iniziò il sofferto periodo del tempus tacendi. Resta magnifico il ritratto di Grazia Livi per Epoca tracciato a cinque anni di distanza dal rientro in Italia:  > “La prima cosa che colpisce, in Ezra Pound, è la sua genialità ormai vinta e > naufragante oltre gli illusori confini del mondo. È ancora diritto e solenne > d’aspetto, con la faccia asciutta ornata da una bianca barbetta appuntita, le > mani magre e agili, il gesto da gentiluomo che subito si alza in piedi e offre > la sua poltrona, ma nello stesso tempo si ha la chiara impressione che egli > non appartenga più a sé stesso e che tutti gli elementi della sua persona > siano coordinati fra di loro in maniera puramente fisica, funzionale. L’occhio > è come vitreo e contempla le facce, gli oggetti con una fissità dolorante; la > voce emerge a fatica dal torace stanco a comporre lentissime frasi meditanti; > i piedi immobili sul tappeto, sono calzati di pantofole. Non c’è un libro, > attorno a lui, che testimoni della sua gloria trascorsa: solo un’edizione > parigina dei primi sedici Cantos, pubblicata nel 1925 […]. Questo, infatti, è > Ezra Pound al giorno d’oggi: non un uomo ma un simbolo, che mantiene rapporti > soltanto formali con la vita; non un personaggio, ma una presenza che guarda > alle vicende di questo mondo con animo già liberato, già lontano, già > naufragante nella tragica e illuminata saggezza che precede la fine”4.  Il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano è una miniera di informazioni per gli amanti di Pound, in primis perché custodisce l’archivio Scheiwiller, l’intrepido editore che sostenne sempre il poeta americano, pubblicando nel 1955, tra l’altro, in anteprima mondiale, Section: Rock-Drill 85-95 de los cantares. Nell’archivio è custodita un’interessante lettera di Ugo Dadone (1886-1963), amico di Boris e poliedrica figura di giornalista, viaggiatore e “agente segreto”, che ospitò Pound a Roma nel 1961. Dadone raccontava con preoccupazione a Scheiwiller le difficilissime condizioni del poeta. A suo dire, Pound si sentiva in colpa per aver combinato “guai” a Brunnenburg, era depresso perché non aveva più amici, il suo conto in banca era in passivo e non voleva più pubblicare perché non sarebbe stato comunque pagato; infine, non si sentiva in grado di fare nulla di buono perché non aveva più idee da svolgere.  Era il Pound che l’anno prima aveva scritto a Eliot (15 aprile 1960) dicendo che si sentiva seduto sulle proprie “rovine”: a tale missiva l’autore di The Waste Land rispose con un telegramma: «Tu sei il più grande poeta di sempre. E io devo tutto a te».  * L’iter della pubblicazione degli ultimi Cantos In questo contesto delicato iniziò l’iter che avrebbe rocambolescamente portato alla pubblicazione dei meravigliosi Drafts and Fragments. La figlia Mary parlò di «un crepuscolo con tenerezza e rimpianto e un’affermazione della propria innocenza», mentre Massimo Bacigalupo nel suo indispensabile L’ultimo Poundparlò di «una nuova, sofferta, temperie psicologica»: > “Il Poeta che s’era lasciato allegramente alle spalle la pietra miliare del > Canto 100 senza quasi farci caso e che emerge indenne, “aloof”, cinquanta > pagine innanzi dalle “onde scure” che hanno più d’una volta minacciato di > sommergerlo, sente ora che la sua poesia – e la sua vita – ha i giorni > contati, che il “nemico” – non più l’ossessivo “they” ma l’oscurità, la morte, > e anche un mondo di cultura dal quale egli è escluso – sta guadagnando terreno > da tutte le parti, al punto di invertire le posizioni mantenute nonostante > tutto – in quanto conditio sine qua non dello scrivere – sino a ora”. Nel ricco saggio Hall of Mirrors6 Peter Stoicheff ha ricostruito un periodo di vicenda della pubblicazione di questi ultimi Cantos, pubblicazione che avvenne con un Pound riluttante che non si sentiva pronto per l’ultima revisione e che fin dal 17 ottobre 1959 aveva annotato «la bellezza perduta per mancanza di energia nella mano che scrive»7. Tutto nacque dall’intervista che Donald Hall chiese a Pound per la Paris Review, rivista di cui Hall era allora poetry editor. Si incontrarono per tre giorni a Roma, in via Poliziano, nel tempo in cui Pound era ospite di Dadone. Pound voleva essere pagato per l’intervista e in risposta si sentì dire che si sarebbe potuto fare, ma che l’intervista sarebbe dovuta essere corredata da poesie inedite. Pound propose gli inediti Versi prosaici e alcune lettere inedite a Basil Bunting, ma la proposta venne respinta; la rivista rilanciò per avere un’anteprima di nuovi Cantos. Pound mandò le bozze di sette Canti acconsentendo poi alla pubblicazione dei Canti 115 e 116. Quando James Laughlin, lo storico editore di Pound con le sue New Directions, vide il materiale, scrisse al poeta che aveva letto qualcosa di veramente meraviglioso, erano versi semplicemente «magnifici». Non fu però Laughlin a pubblicare l’ultimo tassello dei Cantos. Fu “bruciato” nel 1967 dall’edizione pirata di Fuck You Press (un nome un programma…) di Ed Sanders, che aveva avuto il materiale “incandescente” da Tom Clark, un ragazzo che stava preparando una tesi sulla struttura dei Cantos e che a sua volta aveva ricevuto i dattiloscritti da Hall. La Fuck Press stampò (o disse di aver stampato…) 300 copie dei Drafts and Fragments che andarono subito a ruba. Per Laughlin si trattò di un’edizione disgustosa, ma fu il volano perché New Directions desse il via all’edizione autorizzata che noi conosciamo. Una curiosità: c’è stato anche uno studioso come Joshua Kotin che si è messo sulle tracce delle 300 copie per cercare di “mapparle” (finora è riuscito a rintracciare il destino di 152 esemplari)8. Una nota a margine. L’intervista di Pound con Hall fu pubblicata nel prezioso Per conoscere Pound9 e offre molti spunti sugli ultimi pensieri del poeta. Pound ricordava come un poeta dovesse avere «una curiosità continua», come l’artista «dovesse continuare a muoversi». Non dissimile il suo consiglio per i giovani. A suo parere andavano incoraggiati a “migliorare la loro curiosità” senza fingere,  > “ma ciò non basta. La pura registrazione del mal di pancia, il solo svuotare > il cestino non basta. Infatti la coppa di ponce degli studenti dell’Università > di Pennsylvania aveva come motto: «Qualsiasi cretino può essere spontaneo»”. Nel corso della conversazione Pound ammetteva le sue difficoltà a concludere i Cantos con un paradiso: >  “È difficile scrivere il paradiso quando tutti i segni superficiali dicono > che dovresti scrivere un’apocalisse. È più facile trovare abitanti per > l’inferno o anche per il purgatorio. Sto cercando di riunire e fissare i più > alti voli della mente…” * La verità sta nella tenerezza Pur con queste drammatiche premesse, gli ultimi frammenti di Pound restano tra i momenti più alti della sua poesia. Sono l’esame di coscienza di un grande dolente all’epilogo della vita. Sono le illuminazioni piene di tenerezza di un uomo che ha inseguito l’arte (rinnovandola) in ogni istante della sua vita. Che ha visto da vicino la bellezza, la morte e la disperazione. È un poeta in cerca di «una quieta dimora», di «un amato e quieto paradiso» e che, come scrive nel Canto 110, riesce a vedere con occhi di «corallo o turchese». È una scrittura difficile, ma allo stesso tempo carica di accensioni ed epifanie. Ritornano i luoghi cari, dalla Liguria a Venezia, gli affetti, gli eletti da inserire nel paradiso (Mozart, Agassiz e Linneo), i versi perfetti segnati dalla lunga confidenza con l’Estremo Oriente: «Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e promontorio. / E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza, / Una luce azzurra sotto le stelle».  È un poeta che, come tutti i grandi poeti, dona sentenze memorabili che racchiudono un mondo: «La verità sta nella tenerezza». Ritorna il tema dell’umiltà, così presente nei Pisani, perché è «un uomo che cerca il bene, / e fa il male», ed è consapevole che «la bellezza non sta nella pazzia / Anche se cocci ed errori miei mi circondano. / E non sono un semidio, / Non riesco a dargli un nesso. / Se in casa l’amore manca, manca tutto».  E, ancora, «Ammettere l’errore e tenere al giusto: / Carità talvolta io l’ebbi, / non riesco a farla fluire. / Un po’ di luce, come un barlume / ci riconduca allo splendore ora».  Un poeta della sensibilità di Giovanni Raboni colse al volo la grandezza di questi frammenti. Nell’introduzione alla bellissima edizione Guanda preparò una memorabile pagina di accompagnamento, in cui tra l’altro affermava:  > “Col passare del tempo, la grandezza della poesia di Pound mi appare sempre > più evidente, solitaria e indimostrabile. A volte ho l’impressione di trovarmi > solo a contemplarla, e mi prende il timore che, a chi me ne chiedesse conto, > non saprei rispondere che con un gesto di rinuncia o una parola di sgomento. > Altre volte, è come se questa grandezza mi fosse stata rivelata in sogno, e il > suo segreto, la sua prova scomparissero, si dissolvessero ogni mattina con > l’avvento della luce… […] Ma ecco, intanto, una buona occasione per rileggere, > e ripensare, Pound: questi stupendi Drafts & Fragments, che… hanno il grande > merito o vantaggio di mostrarci un Pound anche praticamente in bilico e > tensione fra “poema” e “frammento”, fra la drammatica, impossibile ricerca > dell’unità e della compiutezza e l’esaltante vitalità della dispersione, > dell’esplosione, del molteplice. Insomma, un Pound ancora più fortemente e > visibilmente “potenziale” – sino al puro abbozzo, al puro appunto stenografico > –, ancora più vicino del solito a quello stato di energia pura, non incarnata > né incarnabile una volta per tutte, che costituisce la verità più profonda (il > segno – il sogno – più vero) della sua grandezza”. Il parere di Raboni si accorda perfettamente a quanto scrisse Ford Madox Ford per l’opuscolo che accompagnò la pubblicazione americana di XXX Cantos nel 1933:  > “La prima parola da dire sui Cantos è bellezza. E l’ultima sarà bellezza. La > loro straordinaria incomparabile bellezza. Formano una storia del mondo senza > eguali vista da queste coste che sono la culla della nostra civiltà… E una > sola cosa è necessaria alla nostra società più della Storia. Ed è che ci sia > da qualche parte un’opera d’arte o qualcuno che produce un’opera d’arte che > ogni volta che la visiti susciterà infallibilmente in te delle emozioni. > Questo è quanto fanno i Cantos”.  E per avere la misura di questa tersa grandezza forse non c’è modo migliore che riportare alcuni luminosi frammenti della versione finale dei Cantos scelta da Mary de Rachewiltz:  “Ho provato a scrivere il Paradiso non ti muovere, lascia parlare il vento  così è Paradiso Lascia che gli Dei perdonino quel che ho costruito  Chi ho amato cerchi di perdonare  quello che ho costruito  […]  Uomini siate non distruttori”.  Alessandro Rivali 1 Sulla vicenda si veda il recente Luca Gallesi, Ezra Pound a Pisa – Un poeta in prigione, Ares, Milano 2024. Per un inquadramento a tutto tondo degli ultimi anni di Pound: A. David Moody, Ezra Pound: poet, vol. III, The Tragic Years 1939-1972, Oxford University Press, Oxford 2015. 2 New Directions, New York 2003. 3 A. Rizzardi, La maschera e la poesia in Ezra Pound, in Canti Pisani di Ezra Pound, Guanda, Parma 1953, p. XXIII.  4 G. Livi, “Vi parla Ezra Pound: Io so di non sapere nulla”, intervista con Ezra Pound, Epoca, n. 652, 24 marzo 1963, pp. 90-93. 5 M. Bacigalupo, L’ultimo Pound, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1981, p. 525. 6 P. Stoicheff, The Hall of Mirrors: “Drafts & Fragments” and the End of Ezra Pound’s “Cantos”, University of Michigan Press, Michigan 1995.  7 Commento a Stesure e frammenti dei Cantos CX-CXVII, in E. Pound, I Cantos, a cura di Mary de Rachewiltz, Meridiani Mondadori, Milano 1985, p. 1629. 8 Sulla vicenda, l’articolo dello stesso J. Kotin “The Fuck You Press Cantos: A Census”, realitystudio.org/bibliographic-bunker/fuck-you-press-archive/the-fuck-you-press-cantos-a-census/ 9 A cura di Mary de Rachewiltz, con un saggio introduttivo di M.L. Ardizzone, Mondadori, Milano 1989. L'articolo “La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di Ezra Pound proviene da Pangea.
July 3, 2025 / Pangea
Il gusto della messinscena. Gli ultimi giorni di Stefan Zweig
Ne sappiamo poco o nulla, ma quello che avviene a Petrópolis tra il 22 e il 23 febbraio del 1942, in pieno Carnevale, ha di certo anche un aspetto teatrale, di accurata messinscena: il doppio suicidio di Stefan e Lotte assomiglia terribilmente, o costituisce un’allusione neanche troppo criptica, ai limiti del plagio, a un altro doppio suicidio della storia letteraria tedesca: quello che nel 1811 aveva visti coinvolti, al Wannsee presso Potsdam, Henriette Vogel e Heinrich von Kleist, autore che Zweig venerava e con il quale forse, a proprio discapito, si confrontava come scrittore. Ci si può quindi chiedere se, oltre all’avanzata apparentemente inarrestabile del nazismo, al venir meno dell’ammirazione e della vicinanza dei lettori, alla solitudine e all’isolamento intellettuale nonché alla malattia di Lotte, una parte nella decisione di Zweig non l’abbia avuta anche la suggestione di replicare, come in un macabro omaggio, l’autodistruzione kleistiana. Imbastendo una storia magari leggermente diversa nei dettagli, ma al contempo così simile nell’incapacità, da parte di entrambi gli scrittori, di affrontare la realtà. Fatto sta che nello schizzo biografico che Zweig aveva dedicato a Kleist molti anni prima sembra di cogliere una partecipazione autentica, non artefatta, alla vicenda narrata. A un certo punto Zweig menziona anche (e sembra far suo) il Doppelblick (“doppio sguardo”) teorizzato da Kleist, uno sguardo volto contemporaneamente tanto al passato quanto al futuro da parte di colui che, consacrandosi alla morte, raggiunge la suprema armonia. Molte delle caratteristiche che Zweig attribuisce a Kleist, scrittore ammiratissimo per la compresenza di eccesso e disciplina, di veemenza e freddo rigore, potrebbero essere riferite anche a lui stesso: > “Come gli accade nei confronti degli esseri umani, Kleist si interessa alla > natura, al mondo, solo nei loro limiti più estremi, dove si superano sfociando > nell’inaudito e nell’improbabile, anzi direi quasi, dove diventano eccessivi e > viziosi e abbandonano ogni forma. E come nei confronti dell’umanità, a lui > interessa solo l’anormale, la deviazione dalla regola (la Marchesa di O.; la > mendicante di Locarno; il terremoto in Cile), sempre il momento in cui > sembrano irrompere fuori dalle cerchie preferite da Dio”. E aggiunge, a proposito proprio del suicidio di Kleist, delle sue modalità e delle sue ragioni profonde: > “L’essenza intima del suo essere era impazienza e tensione, il significato > ineliminabile del suo destino era l’autodistruzione attraverso l’eccesso: ecco > perché la sua morte prematura e volontaria è il suo capolavoro, tanto quanto > il Principe di Homburg: perché accanto ai potenti, a coloro che sono dei > maestri della vita come Goethe, di tanto in tanto emerge qualcuno che invece > padroneggia la morte e attraverso la morte crea una poesia che va al di là del > tempo”. E proprio come Kleist aveva cercato e trovato nell’amica Henriette Vogel, gravemente malata di cancro, qualcuno che lo seguisse e lo accompagnasse nell’atto fatale, così Zweig aveva potuto contare sul sostegno e sulla complicità, non sappiamo fino a che punto convinta, di Lotte.   Questo del doppio suicidio è un motivo che era già comparso, comunque, nell’opera di Zweig, anche se veniva solo programmato senza essere poi portato a termine. Mi riferisco al romanzo incompiuto Estasi di libertà (Rausch der Verwandlung), in parte utilizzato dal regista Wes Anderson quale fonte d’ispirazione per il suo recente film Grand Budapest Hotel (2014). I due protagonisti, la giovane Christine Hoflehner e Ferdinand, reduce dalla Grande guerra e dalla prigionia in Russia, entrambi frustrati e indignati con uno Stato che non li tutela, decidono dapprima di farla finita insieme, per poi ripiegare su una soluzione meno drastica, la rapina di un ufficio postale. Quello che nel romanzo era un semplice espediente narrativo risoltosi in commedia torna ora d’attualità sotto una forma molto più drammatica e reale, acquisendo uno statuto di fattibilità e forse persino di opportunità.[1] Si è molto discusso delle reali condizioni di salute di Lotte, che soffriva d’asma, doveva usare un inalatore durante la notte e passava attraverso ripetute crisi respiratorie, ma il cui stato di salute generale, sebbene aggravatosi dopo il soggiorno a New York, non sembrava poter giustificare una decisione così drastica. Certo, le crisi di Lotte non contribuirono a rasserenare l’atmosfera generale, e se Zweig si era mai aspettato che una moglie tanto più giovane potesse in qualche modo spronarlo e legarlo alla vita, ora dovette disilludersi. Quanto aveva amato in passato quella sua fragilità, che lo induceva a proteggerla e a custodirla come un bene prezioso, tanto ora gli sembrava un ulteriore onere, un ostacolo insormontabile che gli impediva di vivere pienamente la propria esistenza. In una lettera scritta proprio alla vigilia del suicidio ai cognati Manfred e Hannah Altmann, e quindi alla famiglia di Lotte, Zweig fa riferimento a una prolungata cura d’iniezioni, probabilmente a base di antigeni, che non le avrebbe fatto alcun effetto, convincendoli quindi dell’opportunità dell’atto finale. Ma è mai possibile che ad appena trentatré anni Lotte fosse davvero già così stanca della vita e incapace di lottare? E non è forse plausibile che avere al fianco una persona sicuramente malinconica, se non depressa, come Zweig, abbia potuto fiaccarne e cancellarne l’istinto di autoconservazione? A quanto pare, la morte di Zweig fu causata dall’ingestione di numerose compresse di Veronal, il cui tubetto vuoto fu trovato sul tavolino da notte insieme a una bottiglia d’acqua minerale di cui non rimaneva che un quarto. Maggiori dubbi riguardano invece la sostanza ingerita da Lotte, che sembra essere morta più tardi e aver preferito un altro tipo di barbiturico, perché rispetto a quello di Stefan il corpo emanava un diverso e più forte odore. Si è notata anche una differenza nel modo di presentarsi alla morte: Zweig era vestito di tutto punto (camicia sportiva a maniche corte, cravatta nera, pantaloni scuri – con un tocco di eleganza austriaca, insomma), mentre Lotte portava una vestaglia a fiori senza pretese. Così come ha lasciato perplessi un’ulteriore differenza, riguardante la posizione, che nel caso di Zweig sembra non lasciare nulla al caso ed è estremamente dignitosa, là dove invece Lotte lo cinge e gli stringe le mani, ma è tutta contratta e raggomitolata su un fianco. In ogni caso, Zweig avrebbe voluto delle esequie private e un rito laico, avrebbe preferito insomma scomparire in silenzio. Ma la trasformazione del suo funerale, alla presenza del dittatore brasiliano Vargas, in un grande evento spettacolare sancirà il mancato rispetto anche di quest’ultima volontà. Un corteo imponente, seguito da quattromila persone, poi una funzione ebraica, e dulcis in fundo un versetto biblico inciso sulla pietra tombale – nulla che alla fin fine importi davvero, alla resa dei conti, ma certo non quello che Zweig, ormai lontano da ogni esibizione religiosa, avrebbe voluto. Raoul Precht *Per gentile concessione si pubblica un estratto da: R. Precht, “Stefan Zweig. La fine di un mondo”, Milano, Ares, 2025 -------------------------------------------------------------------------------- [1] Con Estasi di libertà, scritto nel 1930-31, Zweig ritenta senza troppo successo la strada del romanzo, riprendendo alcuni temi, come le conseguenze della Prima guerra mondiale e della successiva inflazione per i ceti popolari o il dramma dei reduci, temi già trattati in alcuni racconti precedenti e nel dramma Das Lamm des Armen, mettendo in drammatico risalto da un lato il potere del denaro e dall’altro la contrapposizione fra gente comune e quello sparuto gruppo di ricchi che possono permettersi di vivere negli hotel di lusso. L'articolo Il gusto della messinscena. Gli ultimi giorni di Stefan Zweig proviene da Pangea.
May 10, 2025 / Pangea
Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo con Cinzia Bigliosi
Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra. Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.  Aveva, come sempre, ragione.  Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa – registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras, Yourcenar, de Beauvoir…).  Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra – sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus & Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni – non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares, 2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi, ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo (anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant, Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni “testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).  Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai “miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.  Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il quale penetrare nel mondo della Némirovsky? Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel 1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”, se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento, fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel 2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un tono lirico.   Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?  Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse, scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli, gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.  Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria? Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans, Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi dedicati a Sisifo della poesia La scarogna. …e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?  Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini. L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale, Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”, le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.  Irène Némirovsky (1903-1942) Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare un destino? L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria, una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940, incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi, malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera. Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky? Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante, insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.    La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così? Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène? Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese, investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere deportata.   Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora? È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto. Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era quella di ricordarsi che  > “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre > quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto > la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.  Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo, le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto, interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.  L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.
May 2, 2025 / Pangea