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“Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats, Auden, Brodskij e Heaney
Quando scrive Lapislazzuli – siamo nel 1936 – William B. Yeats avverte forse già l’approssimarsi della fine. La poesia, tra le più alte mai composte dal bardo irlandese, è un mirabile esempio di ecfrasi in versi. È dedicata all’amico Harry Clifton, che gli aveva donato un cammeo di lapislazzuli di ispirazione orientale. Nelle ultime due lasse, tre pellegrini cinesi attraversano terre remote e valichi innevati. Sono in cammino verso una meta misteriosa, che concederà loro una tregua dagli affanni del viaggio. Sospesi tra montagne e fiumi – come nelle pitture classiche di Wu Daozi – le tre enigmatiche figure giungono infine alla lora provvisoria destinazione, dove rami di susino e di ciliegio conferiscono all’atmosfera un tono di calda, soffusa intimità. Nel “piccolo rifugio”, i tre contemplano il maestoso paesaggio che si apre dinanzi a loro. Avvolti da una coltre di acuta malinconia, chiedono che siano eseguite struggenti melodie. I volti sono solcati da profonde rughe; e tuttavia, dai loro occhi rimasti invulnerabili alle apocalissi della vita, balugina una luce di splendente letizia. * Il gusto della ricerca biografica ci autorizza a evocare le coincidenze. W.B. Yeats muore nel 1939 in Francia. In quello stesso anno, Auden finisce di scrivere Another Time, una delle raccolte poetiche più belle e significative del Novecento. La notizia della scomparsa di Yeats raggiunge Auden durante il suo soggiorno a New York. Di getto, il poeta inglese scrive quella dolente elegia che è In memoria di W.B. Yeats. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, in un piovoso giorno di primavera irlandese, nasce nello stesso fatidico anno Seamus Heaney. Yeats si spegne alla vigilia della guerra: la sua morte, secondo Auden, è un cupo presagio della strage che incombe. Il poeta inglese si rivela presto, suo malgrado, buon profeta.  * Nella notte del pensiero e degli allarmi aerei, vale come unico argine possibile il poeta-palombaro: colui che sprofonda per raggiungere il cuore del male, fino a neutralizzarlo e a redimerci dalla condanna della pena. Ci salva il verso, non la bellezza: il verso che è coscienza ed espressione del dolore. Il dettato poetico trasfigura la miseria in canto, apre vie d’uscita all’uomo prigioniero dei suoi giorni, trasforma la terra devastata in vigna. Ecco la poesia che sopravvive attraverso   > “un modo di accadere, una bocca” * Quanto equivale a dire che scrivere versi è assoggettarsi a una forma d’amore. Lo spiega in modo folgorante Brodskij nella sua indimenticabile elegia in prosa Per compiacere un’ombra, altissimo omaggio al suo amato poeta inglese. L’incontro decisivo con Auden avviene mentre Brodskij sconta una condanna in uno sperduto villaggio ai confini del Circolo Polare Artico. In quel luogo così refrattario all’umano, dominato da paludi e cupe foreste, Brodskij riesce fortunosamente a farsi spedire un’antologia in inglese. Per puro caso, il libro si apre con una poesia di Auden – In memoria di W.B. Yeats. La lettura di quell’elegia è, per il giovane russo, decisiva. Nel dettato lirico del poeta inglese, si compie il miracolo del tempo piegato e asservito al linguaggio. Come a dire: i versi sono come raffiche di vento che soffiano sui bastoncini dello Shanghai – “il tempo: > “Time worships language” Nella poesia di Auden, si passa senza soluzione di continuità da versi che, da orizzontali, diventano incredibilmente verticali, viaggiando dalla metafisica al motto di spirito, dalla filastrocca alla scintilla lirica. Al di sopra di tutto, al di là della voce inconfondibile di Auden, affiora l’immagine riflessa del suo viso: le indimenticabili rughe della vecchiaia, le proporzioni un po’ sgraziate del naso e delle orecchie – che ne avrebbero fatto un perfetto candidato per un film di David Lynch –, l’amorevole saggezza ironica degli occhi che sembrano perdonare le storture del mondo.  * Un uomo – dice Brodskij – è la somma di ciò che legge. In parole più semplici: si è trasformati da quello che si ama. In quel villaggio artico assente anche dalle mappe geografiche, ciò che colpisce Brodskij, ciò che s’impone alla sua immaginazione, è  > “amore dilatato e accelerato dal linguaggio, dalla necessità di esprimerlo”.  Il che conduce a un’altra rivelazione: i sentimenti di uno scrittore o di un poeta si subordinano inevitabilmente alla lineare e incontenibile progressione dell’arte. Certo, Auden aveva conosciuto la sofferenza sotto varie forme: delusioni amorose, la coscienza di una sessualità tormentata, l’autoesilio imposto per sfuggire all’opprimente establishment letterario britannico, la disillusione politica. Eppure, i suoi versi sprigionano sempre amore, un amore immemore, come la lingua inglese, del genere maschile e femminile. Forse, più che di amore, sarebbe più giusto dire che la poesia di Auden è un acceleratore formidabile di tenerezza, di umana morbida dolcezza. * Con un balzo nel tempo e nello spazio, passiamo il testimone a un altro grande poeta irlandese: Seamus Heaney. Audenesque, una delle sue ultime poesie, è dedicata all’amico russo da poco scomparso, Iosif Brodskij. Esiste un omaggio più commovente, per un poeta, che accostare l’amico scomparso agli autori più amati in vita? Perché, come i bambini che uniscono i puntini nei giochi enigmistici, se tracciamo una linea immaginaria tra i versi che abbiamo più amato, alla fine l’immagine che ne affiora è la nostra: riflessa, come nell’ovale di uno specchio. Non è difficile, allora, confondere i ricordi di una conversazione su un treno lanciato nella tundra finlandese con i versi di Auden, e prima ancora con quelli di Yeats. Non è difficile ritrovarsi, nel freddo di un aeroporto di Dublino, a pensare a tutti i versi scritti – e a quelli soltanto sognati, che qualcun altro, forse, ha scritto al posto nostro. Anche nella regione della morte, tuttavia, la poesia può accendere scintille di futuro. * Yeats. Auden. Brodskij. Heaney. Cosa unisce questi quattro grandi poeti? Quanto, nel loro dettato, è riflesso e ombra dell’amore che li legava ad altri maestri? La poesia è anche cavalleresca espressione di amicizia, segno di profonda dedizione verso una “famiglia mentale”, per citare ancora una volta la magnifica intuizione di Brodskij. Viene in mente il sonetto forse più bello mai scritto sull’amicizia poetica: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, di Dante Alighieri. Quale filo li lega? Forse il senso di una vocazione maturata tra i rovesci della storia; la costante, sofferta oscillazione tra isolamento e rielaborazione degli eventi sullo sfondo? Soprattutto, il tentativo di superare l’autoreferenzialità attraverso l’incontro con altre vite – di spezzare il cerchio della solitudine aprendo la porta al vento della generosità e dell’altruismo. Ecco perché i viaggiatori cinesi della poesia di Yeats sembrano sostare, come i nostri poeti alla fine di un lungo viaggio, presso la fonte stessa della loro ispirazione. * In una poesia di Auden, una delle più belle, si dice che da qualche parte viva un bambino atterrito e pieno d’immaginazione. Lui sa, contro tutto e tutti, di essere il futuro; e comprende che solo i docili avranno in eredità la terra. Quel bambino non attira l’attenzione, né è particolarmente fortunato. Nel tumulto del mondo, tra leggi disumane e regole ingiuste, il suo pianto sale verso la vita del poeta – e la nostra – come una vocazione. Lorenzo Giacinto L'articolo “Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats, Auden, Brodskij e Heaney proviene da Pangea.
November 7, 2025 / Pangea
“Siamo esseri sovrannaturali”. Ritrovare “2666” di Bolaño a pagina 266 del canzoniere di Auden
Filologia spettrale. Qualche mese fa mi è capitato di imbattermi nel fantasma di Ennio Flaiano in una pagina di Philip Roth, e volli scriverne un breve articolo su questo stesso sito. Da allora – ma in realtà da parecchio tempo – nei momenti di svago mi intestardisco a cercare delle tracce del sovrannaturale nei libri che più amo.  C’è una pagina di Roberto Bolaño in cui si accenna agli “inferni che si nascondono sotto le putride o immacolate pagine della letteratura”, e io credo di essere in cerca proprio di questi candidi o spaventosi inferni, di questi buchi neri. Tuttavia occorre muoversi con circospezione, stando attenti a non scambiare la nostra brama di un altrove per qualcosa di fattuale. D’altronde, come scriveva Claudio Magris in Danubio, “un vero critico letterario è un detective, e forse il fascino di questa opinabile attività non consiste nelle interpretazioni sofisticate, bensì nel fiuto da segugio che conduce a un cassetto, a una biblioteca, al segreto di una vita”. Penso che ciò che vale per il critico valga anche per il lettore comune. Questo articolo è dunque un collage di citazioni che intende portare il lettore-detective sulle tracce di un autentico fantasma.  Torniamo a Bolaño. È risaputo che amasse definirsi più un poeta che un romanziere, e infatti uno dei suoi libri a cui teneva di più è L’università sconosciuta, che comprende gran parte del suo travaglio poetico. Si tratta di un libro postumo ma compiuto, che Bolaño sperava di pubblicare in futuro, se vi fosse riuscito. Vi sono incluse anche le due raccolte poetiche che pubblicò in vita, I cani romantici e Tre. Uscì in Spagna nel 2007, con Editorial Anagrama. Nel 2020 arriva invece l’edizione italiana, pubblicata da Sur. Ci sarebbe molto da dire sulla poesia di Bolaño, ma voglio che il pezzo sia breve e quindi passerò subito a ciò che mi sta più a cuore – al fantasma, al sovrannaturale.  Vi prego di seguirmi con attenzione. Una delle sezioni del libro di Bolaño si intitola La mia vita nei tubi di sopravvivenza, e si apre con due versi di W. H. Auden: “Follow poet, follow right/ To the bottom of the night.” La versione italiana, come il libro in spagnolo, lascia il distico in originale. In Italia Auden è pubblicato da Adelphi, e al momento la sola maniera di procurarsi la maggior parte delle sue poesie è comprare il volume delle Opere scelte nella collana La Nave Argo, che è piuttosto costoso; nelle nostre librerie manca un’edizione economica delle poesie di Auden. Spero che prima o poi Adelphi provveda, come ha fatto recentemente con Autobiografia, di Thomas Bernhard, pubblicata nel 2011 ne La Nave Argo e poi – l’anno scorso, a un prezzo più accessibile – nella collana Gli Adelphi.  Io in ogni caso ho deciso di investire nel volume delle poesie di Auden, e naturalmente appena l’ho avuto fra le mani ho cercato i versi citati da Bolaño ne L’università sconosciuta. Provengono da un poema diviso in tre parti e dedicato a Yeats, In memoria di W. B. Yeats.  L’intera strofa fa così: “Follow poet, follow right/ To the bottom of the night, /With your uncostraining voice/ Still persuade us to rejoice.” Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica traducono:  > “Tu poeta, tu sprofonda,  > Nella notte più profonda,  > Con la voce tua suadente,  > Dacci gioia immantinente.”  In un libriccino sulla traduzione, Lost in translation, proprio Ottavo Fatica scrive che “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere”, perciò – pur apprezzando la versione italiana – direi di tornare all’originale.  “Follow poet, follow right/ To the bottom of the night.” Così si apre dunque la sezione La mia vita nei tubi di sopravvivenza, di Roberto Bolaño, ne L’università sconosciuta. Mi si dirà: e allora? Dov’è il fantasma che ci hai promesso?  Bene, nell’edizione Adelphi delle poesie di Auden questi versi sono a pagina 266, proprio sopra al numero della pagina. Accludo la fotografia. Mi sembra molto più di una coincidenza, perché come tutti sanno 2666 è il grande libro postumo di Bolaño e proprio a pagina 266 sono posti i versi che lo stesso Bolaño ha lasciato in epigrafe a La mia vita nei tubi di sopravvivenza. Perciò il fantasma sarebbe Bolaño? Ma cosa ci fa nell’edizione italiana delle poesie di Auden? No, possiamo scavare più a fondo.  Mi è venuta in mente un’altra presenza spettrale del catalogo di Adelphi, Guido Ceronetti. Anche i suoi libri sono disseminati di fantasmi, soprattutto quando cita o traduce. Così mi sono rivolto a Tra pensieri, uno smilzo volumetto che comprende tutti i pensieri e le citazioni che andava pubblicando su La Stampa nei primi anni Novanta. La citazione numero 266 (ancora, e i numeri significano sempre qualcosa per i morti) è una domanda in latino: “Usque adeone mori miserum est?” Si tratta della risposta che un ufficiale del Pretorio diede a Nerone. Ceronetti la trovò in Vita di dodici Cesari, di Svetonio. La traduce così: “È poi tanto terribile morire?”  È poi tanto terribile la morte? La domanda può far accapponare la pelle, se a porcela è un fantasma. Ma di quale fantasma si tratta? La volta scorsa trovavo una traccia di Flaiano in un romanzo di Philip Roth: possibile che anche ora lo stesso Flaiano…? Dopotutto Ceronetti era un suo grande amico, e Bolaño ha scritto e detto cose che probabilmente lui avrebbe apprezzato, come questa affermazione, a pochi mesi dalla morte:  > “Il mondo è vivo e niente di quel che è vivo si salverà e questa è la nostra > fortuna.”  Forse mi sbaglio. Forse collegare il paragrafo 266 di Ceronetti alla pagina 266 di Auden e infine al romanzo 2666 di Bolaño è una forzatura. Forse voglio solo salvare gli autori che amo e perciò mi ostino a seguire le loro tracce fra un libro e l’altro.  Sono cresciuto a pochi passi dalla casa in cui visse Ennio Flaiano, nel quartiere di Monte Sacro, a Roma, ed è probabile che la sua vicinanza mi suggestioni. Tuttavia un buon lettore deve essere un segugio, come scriveva Claudio Magris, e d’altra parte l’Humboldt di Saul Bellow, autore molto amato da Flaiano, si accomiatava dai suoi amici con queste parole:  > “E da ultimo, ricorda: non siamo esseri naturali, siamo esseri > sovrannaturali.”  Credo di essere d’accordo.  Edoardo Pisani L'articolo “Siamo esseri sovrannaturali”. Ritrovare “2666” di Bolaño a pagina 266 del canzoniere di Auden proviene da Pangea.
September 2, 2025 / Pangea