Il 6 maggio al Teatro Nazionale di Milano è andato in scena “Muse 1984 –
Resistance”, opera rock che è insieme un concerto tributo dedicato ai Muse, una
delle più importanti band del panorama musicale degli ultimi decenni, e
una pièce teatrale tratta da 1984 di George Orwell, classico della letteratura
novecentesca che ha ispirato l’album capolavoro dei Muse, “The Resistance”.
Diretto da Marco Rampoldi e prodotto dalla sua Rara Produzione, per la
drammaturgia di Paola Ornati, lo spettacolo tornerà sul palcoscenico il 7
novembre al teatro Michelangelo di Modena[1].
1984 di George Orwell (1949)
In un 1984 profetizzato all’ombra delle dittature del secolo breve, una Londra
post-atomica vive nell’era della solitudine: negli uffici, nei luoghi di
ritrovo, persino nell’intimità delle case, teleschermi sempre accesi scrutano e
ascoltano ogni espressione involontaria, ogni sospiro. Pensare è un crimine, e
come tale la Psicopolizia lo combatte, condannando i colpevoli a una damnatio
memoriae totale. Ogni atto d’amore è bandito. Nessuno è al sicuro, nemmeno da
colleghi e amici, nemmeno dai propri stessi figli. Nessuno è solo, eppure
nessuno lo è mai stato tanto radicalmente.
L’occhio del Grande Fratello non dorme mai. Un distopico Mago di Oz che muove i
fili del mondo da dietro le quinte. Un mortale, un superuomo, o forse un dio,
realmente esistente, o solo proiezione di un’ideologia. Impone all’umanità un
eterno presente, sempre mutevole eppure sempre uguale a sé stesso, perennemente
riscritto dal Partito ogniqualvolta cambi il vento. Perché il Partito non
sbaglia, e ciò che afferma è immutabile. Il tempo della Storia è finito, esiste
solo la narrazione del Partito, con le sue macchine che sputano fuori senza
sosta informazione, romanzi, film e musica, costruiti a tavolino sulla
Neolingua, un nuovo vocabolario ridotto all’osso, come del resto il pensiero,
ormai atrofizzato.
Uniche vestigia del passato, i versi di una filastrocca che cantano le voci
delle campane di Londra, un fermacarte di corallo, un diario dalle pagine
immacolate. Su questo diario Winston Smith, impiegato del Partito, scrive,
incidendo nelle sue pagine il disperato tentativo di ricordare, di rimanere
sano, di essere libero.
Affida la sua resistenza alla scrittura, e all’amore per Julia. Ma anche l’amore
e il desiderio di libertà fine a se stessi, senza istinti ideologici
rivoluzionari, sono condannati a non essere mai incontaminati, a essere sempre
un atto politico. Si è con il Partito o contro il Partito, unico polo di
attrazione o repulsione, la neutralità è morta. Non si può essere invisibili di
fronte allo sguardo del Grande Fratello.
Nato in un’epoca dilaniata dagli orrori del Nazismo e dello Stalinismo, il
romanzo nasce come condanna a qualunque dittatura, rivelandone, pur nella
grottesca iperbole della fantapolitica distopica, il reale meccanismo che
accomuna ogni forma deviante di governo, il potere per il potere. Era ancora
troppo coinvolto per aprire alla speranza in un mondo migliore: se infatti fin
dall’inizio la rivoluzione è affidata ai posteri, e rimandata a un futuro
lontano, sul finire del romanzo Winston è definito “l’ultimo uomo”, l’unico
sopravvissuto di una specie in via di estinzione, e forse già estinta. Ma anche
lui rinnegherà Julia e il loro amore, a cui si sostituirà quello cieco per il
Grande Fratello, marchiato a fuoco nella sua mente da torture fisiche e
psicologiche. È un punto di vista drammatico, ma, in quel momento storico,
necessario.
*
L’album “The Resistance” dei Muse (2009)
Un fremito di speranza fa vibrare invece le corde di “The Resistance”, quinto
album dei Muse, gruppo musicale rock alternativo britannico tra i più influenti
a livello globale. Nata negli anni Novanta e composta da Matthew Bellamy, Chris
Wolstenholme e Dominic Howard, la band si è aggiudicata alcuni tra i più
prestigiosi premi del mondo musicale, e nel 2022, anno di uscita dell’ultimo
album, ha raggiunto il traguardo di oltre trenta milioni di copie vendute in
tutto il mondo.
La distopia è un universo narrativo da spesso frequentato dai Muse, ma questa
volta con “The Resistance” il richiamo a 1984 è voluto ed esplicito. Ed
estremamente riuscito nel suo adattamento in chiave musicale, canonizzato dal
Grammy al miglior album rock.
Una definizione che restringe però i confini “rivoluzionariamente” indefiniti di
“The Resistance”, che all’insegna dello sperimentalismo, e di una libertà di
espressione fortemente tematica, percorre spazi dal rock all’elettronica, dal
metal alla ballad, fino a toccare la musica classica, in un crescendo di scambi
e unioni tra gli strumenti tipici della formazione dei Muse (chitarra elettrica,
basso e batteria) e l’orchestra sinfonica, posti in dialogo da un ponte ideale
gettato dagli assoli di piano del frontman, nonché compositore, Matthew Bellamy.
Siamo quindi accompagnati in un viaggio che ci porta dal ritmo incalzante di un
inno rivoluzionario come “Uprising” (Non ci sottometteranno/ Smetteranno di
umiliarci/ Non ci controlleranno/ Saremo vittoriosi/ Quindi, forza!) a brani più
intimi, come “Resistance”, pezzo che dà il nome all’album e che culmina quasi
con l’afflato di una preghiera (L’amore è la nostra resistenza/ Portaci via
dall’inferno/ Proteggici da ogni altro male/ Resistenza), fino ad arrivare a “I
Belong to You (+ Mon Coeur S’Ouvre a Ta Voix)”, che incastona una rivisitazione
dell’aria tratta dall’opera Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns.
Di straordinaria potenza è poi il dittico “United States of Eurasia” e “Guiding
Light”: il primo brano è un’opera in miniatura, un mosaico di movimenti che in
quasi sei minuti racconta il presunto stato di guerra perenne che in 1984 è
utilizzato dal Partito come instrumentum regni, e condanna con esso tutte le
guerre, destinate a non finire mai perché continuamente alimentate dal potere al
fine di controllare le masse, quando invece il mondo potrebbe essere un’unica
realtà (E queste guerre, non possono essere vinte/ E tu vuoi che vadano avanti/
Ancora e ancora/ Perché dividere gli Stati/ Quando può essercene uno solo?). Uno
specchio di terribile attualità che ricorda le geografie sonore quasi oniriche
di “Innuendo”, capolavoro dei Queen, attraversando sonorità rock, inserti
arabeggianti e una coda, intitolata “Collateral Damage”, in cui Bellamy
interpreta al pianoforte il Notturno in Mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di
Fryderyk Chopin, mentre di sottofondo intuiamo risate di bambini, e l’eco di un
aereo miliare, che prosegue il suo volo di morte nel brano seguente, spegnendosi
nel boato delle percussioni che introducono la struggente ballad “Guiding Light”
(Ma sono perso, schiacciato, infreddolito e confuso/ Senza una luce guida
rimasta dentro di me/ Tu sei la mia luce guida/ Quando non c’è nessuna luce
guida che ci è rimasta dentro/ Quando non c’è nessuna luce guida nelle nostre
vite).
Chiude l’album il trittico dal titolo “Exogenesis”, una sinfonia composta da tre
movimenti, “Overture”, “Cross-Pollination” e “Redemption”.
È quindi nell’ottica della redenzione, e della promessa di ricominciare
percorrendo questa volta la giusta strada, che si chiude l’album: i 60 anni che
separavano il romanzo da “The Resistance” avevano frapposto un velo di distacco
che apriva uno spazio per sperare, e per resistere.
*
Muse 1984 – Resistance. Rock Opera
Ed è proprio in questo spazio reso fertile dalla speranza che mette radici la
“resistenza”, e con essa la partecipazione e l’adesione a un progetto
rivoluzionario di amore, libertà e pace.
Partecipazione e adesione che si respirano al Nazionale non solo grazie
all’energia travolgente dei più grandi successi dei Muse, che ha fatto alzare
dalle poltroncine e cantare anche un pubblico “introverso” e composto come
quello milanese, nel petto l’eco impetuosa della musica dal vivo, ma anche
grazie alla scelta tematica dei passi tratti dal romanzo e trasformati in
recitativi, a creare un percorso narrativo tra i brani musicali, trasformando un
concerto tributo in una vera e propria opera teatrale: l’accento, come
nell’album madre dello spettacolo, è posto sul seme di una rivoluzione destinata
a deflagrare e su di un’incorruttibile storia d’amore tra Julia (quasi un sogno,
che vediamo e ascoltiamo solo attraverso gli schermi) e Winston, interpretato da
Arcangelo Deleo con recitativi e tramite l’interpretazione dei brani nel ruolo
del frontman. Una rivoluzione e un amore che nel romanzo sono destinati a
fallire, andando a estirpare forse l’ultimo germoglio di umanità rimasto nel
mondo, e che qui invece sembrano volti a un disegno più grande, al di là della
salvezza e della libertà individuale dei protagonisti, un disegno che mira a
risvegliare l’umanità intera.
E il pubblico. Gli spettatori sono chiamati a vivere un’esperienza immersiva,
calamitati da un universo scenografico, progettato dallo stesso regista Marco
Rampoldi, che non lascia scampo: un’impalcatura in ferro sovrasta il
protagonista come un ingranaggio immane e fatale, e punta sulla platea gli occhi
implacabili dei teleschermi che nella Londra orwelliana spiavano ogni angolo
della vita della gente, e proiettavano le ingannevoli narrazioni della
propaganda.
Questa incombente struttura accoglie su piani solo apparentemente incomunicabili
i musicisti, giovani artisti di straordinario talento formatisi in alcune delle
più prestigiose scuole italiane e internazionali (Luca Corbani al basso, Giacomo
Gagliardini alla chitarra, Simone Mauro Ghilardi alle tastiere e Matteo Rampoldi
alla batteria). A tratti, negli intermezzi dei brani, indossano (idealmente) la
maschera, interpretando sia con recitativi dal vivo sia tramite video proiettati
dagli schermi gli agenti del Partito, con le agghiaccianti contraddizioni dei
suoi slogan: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è
forza”.
Eppure, i teleschermi non sono solo occhi e strumenti della propaganda, ma anche
finestre: finestre sull’interiorità di Winston, sui suoi spazi di libertà. E
così vi leggiamo le traduzioni dei testi delle canzoni, perché nulla vada
perduto, e le pagine del diario scritto in segreto dal protagonista.
Perché in un mondo dove tutto è sintetico, il linguaggio è atrofizzato, il
pensiero è un crimine, e nessuno è libero di scrivere, o di cantare, e dove si
distrugge anziché costruire, la creazione, l’arte, sono rivoluzionarie. E, in un
presente che sembra adombrato dalla distopia di Orwell, dove la guerra, la
solitudine e il silenzio interiore di una società troppo rumorosa sono ancora
drammaticamente attuali, sono un coraggioso atto d’amore per l’umanità.
Sono la nostra forma di resistenza. Perché salvare l’umanità non significa
preservare a ogni costo la nostra sopravvivenza, ma custodire ciò che ci rende
umani: “l’obbiettivo non è restare vivi, ma restare umani”.
Chiara Bianchi
*Si pubblica in anteprima l’articolo di Chiara Bianchi, in uscita sull’ultimo
numero di “Studi Cattolici”
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[1] Per rimanere aggiornati sulle prossime novità, consultate il
sito www.raraproduzione.it e le pagine Instagram dedicate @rara_produzione e
@muse1984.
L'articolo “L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock,
da Orwell ai Muse proviene da Pangea.