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“Il ghigno della vita che lotta”. Vincenzo Montisano o della rinuncia al consolatorio.
Lo ammetto, per chi come me nel tempo ha frequentato prose e versi in odor di dannazione, ergendoli a protesi del proprio animo turbato, allestire scaffali e vetrine con l’ennesimo libro in cui campeggia l’ennesimo volto femminile è pura mortificazione. Abbiamo veramente bisogno di un’ulteriore storia con protagonista femminile, alle prese col suo personale riscatto, su di uno sfondo storico predeterminato? Saluto perciò con un senso di felicità e rivalsa ogni libro che del tanfo del politicamente corretto, o dei trend del momento, non emana neanche un vago sentore. Ed eccolo Inaugura stanotte il secolo del bene, romanzo d’esordio di Vincenzo Montisano edito da Wojtek. È con opere di tale fattura che certi lettori si riscoprono esteticamente bipolari. Come spiegare altrimenti il senso di claustrofobia che si condensa nelle pagine, ma che sfocia in una capillare ossigenazione dei tessuti post lettura? > O quando Marcel Boll mi disse: «Esistono infiniti modi di morire, ragazzo, e > uno soltanto per vivere: il mio». Di giorno delirava d’onnipotenza. A sera > invece si lasciava assassinare dal piatto freddo della cena. Sai Karl, era > così mio padre. Un uomo dalla postura sociale invidiabile, diresti tu. Se ne > stava nella nostra villa di famiglia dentro alla cassa di legno dolce, a mani > giunte. Beato, un ciarlatano in attesa di santificazione. L’abito aveva le > tasche cucite. Le bare devono essere pulite, le tasche dei morti sempre > chiuse. A guardarlo faceva un po’ specie e un po’ ridere. Gonfio di gas > intestinali, livido di rabbia perché la caducità non l’aveva risparmiato. Che > decadenza nelle cose di questo mondo. Ché morendo sfoggiano il meglio di sé. E > infatti un dio minore doveva avergli aperto quel ghigno in bocca. Era il > ghigno della vita che lotta più forte prima di perdere. La smorfia di chi non > s’è reso conto d’essere all’ultimo giro di bevute. Hugo Boll, figlio inquieto di un’aristocrazia decadente, si rivolta contro tutto ciò che abbiamo eretto a presidio della nostra normalità. Una furia iconoclasta che investe famiglia, affetti, società. Una tensione forse scomposta, ma necessaria, che lo porta a inciampare sull’autorità, a covare dissapore, a esercitare il diritto all’ostilità. E come se ciò non bastasse, un’insolita febbre incombe sulla città di ***, un turbamento collettivo che spinge sempre più individui all’auto-mutilazione. Nel dilagante caos che serpeggia tra le vie, un oscuro luogo sembra emanciparsi dall’architettura generale; un coacervo d’incubi, fisiologia elementare e teatralità dell’assurdo. Un romanzo che abdica all’istinto di vita, che reca con sé la rinuncia al consolatorio. Ciò che sentiamo sulla nostra epidermide a lettura conclusa è la perdita dell’interezza. > L’amore è una gabbia d’aspettative. Un attimo prima me la cavavo niente male, > passeggiando per i parchi, acquistando questo o quel capo nelle boutique > d’alta sartoria, e l’attimo dopo rincasavo vittima di uno sconforto > inconsolabile, preda delle batterie di interrogativi che proliferavano sulla > superficie opaca delle cose. E Leda invece patteggiava senza rimorsi con la > commedia umana. Se le chiedevo quale fosse il senso delle sue settimane, lei > rispondeva che svegliarsi la domenica, al mio fianco, senza l’impiccio del > lavoro, la faceva scoppiare di senso; se discutevamo dell’infinito, > candidamente affermava che una spiegazione della vita ne avrebbe di sicuro > ucciso la poesia. Dove trovava l’energia per tenere accesa quella luce sul > viso? Nessuno ci guarda, le dissi quella notte. Nessun dio avrebbe permesso > tanta mediocrità. L’infittirsi delle tenebre potrebbe conferire al libro un’aurea di maledizione impenetrabile, ma come ogni opera d’arte che si rispetti ecco il risvolto estetico della medaglia: il ghigno mutare in riso. Vincenzo Montisano, che già si era fatto notare per la sua novella Logica degli incendi, si conferma voyeur ispirato. L’inquadratura è sì condotta in primo piano, ma più che motore unico dei fatti, l’autore assegna al suo protagonista un ruolo atipico, quello di osservatore-osservato.  Nonostante la portata degli eventi che propizia e subisce, Hugo continua a manifestarsi come riverbero di se stesso. Un difetto congenito rovista nelle sue volontà, declassandone le azioni da volute a subite. Niente in lui osa cristallizzarsi in fede, un distacco algido che lo pone a debita distanza dalla Storia. E quando il tutto sembra impattare nel vicolo cieco dell’opprimente, ecco il guizzo, il godimento del voyeur che ci viene in soccorso. La fascinazione germoglia dal fonema, si radica poco dietro la pupilla e saetta scialata oltre la corteccia prefrontale. Signori: la grazia dalle cose a dispetto delle cose. > Da qui in poi, Karl, non ci fu ritorno. Avevo spiato da una crepa l’esistenza > denudarsi. Mi dissi no, l’intera faccenda è una pura idiozia. Noi, uomini > pratici, branchie del vecchio continente, che avevamo licenziato i demoni e le > acquasantiere, per cui non c’era stato altro che mangiare e bere, scopare e > dormire, macchinare, consumare e morire, stavamo per essere travolti da un > flagello dalle inesauribili e perverse riserve immaginifiche. Gianluca Pìtari *In copertina: un collage di Max Ernst (1891-1976) L'articolo “Il ghigno della vita che lotta”. Vincenzo Montisano o della rinuncia al consolatorio. proviene da Pangea.
November 28, 2025 / Pangea
Chi, almeno una volta, non ha ambito alla dissoluzione? Intorno a un romanzo di Mathias Enard
Alzi la mano chi almeno una volta nella vita non ha ambito la dissoluzione. Quella spinta misurata ma inflessibile che ribolle in certe notti gravide d’insonnie e cattivi presagi. Chi non ha desiderato in cuor suo dei motivi, magari uno solo ma imperioso e irrevocabile, cui aggrapparsi per accelerare il personale processo di disfacimento. Dal caos abbiamo mosso le nostre prime, luminose isterie, nel caos torneremo a deporle. Fra questi due fuochi ci si balocca con la vita… e capita di venir svegliati nella notte dal nostro grande e ormai ex amore che ci chiama da una nazione fredda e lontana per sussurrarci una sola parola: Vladimir. Lui, Volodia, il terzo elemento, il russo poliglotta e appassionato di letteratura che ha preso il nostro posto nel cuore di lei, Jeanne, e che a onor del vero è divenuto anche il nostro più intimo sodale. Una triade in odor di beatitudine, ma che a ben vedere ha lavorato fianco a fianco alla propria corruzione; dodici mesi sotto lo stesso tetto a mescere sogni, vodka e incoscienza. E ora che Vladimir ha deciso d’imboccare la somma scorciatoia, qualcosa inizia a mutare di segno. Un soffio un tempo mite che oggi risalendo il petto si condensa in cristalli di malinconia e dileggio, è il biancore russo che squassa tutto ciò che russo non è. > “Scoprivo la carne rossa di Mosca, il piccolo appartamento di Jeanne vicino al > parco tutto fangoso in quella fine autunno; non faceva molto freddo, ma > nevicava, e il nevischio copriva la città di un sudario di sporcizia. Mi > aggrappavo al braccio di Jeanne, come un bambino spaventato dalla fragorosa > grandezza della città, di quei viali trasformati in autostrade che i pedoni > umiliati sono costretti ad attraversare prendendo dei sottopassaggi […] i > vecchi supermercati sovietici trasformati in una versione ancora più lussuosa > delle Galeries Lafayette o del Bon Marché, davanti ai quali sostavano enormi > SUV neri con i vetri oscurati da cui scendevano, o meglio scivolavano fuori, > certe altissime bionde in pelliccia, appollaiate su tacchi talmente sottili > che ti pareva avrebbero bucato l’asfalto e si sarebbero conficcati, conficcati > nelle profondità della città: ma la città non diceva niente, non si lamentava > di essere sforacchiata di spilli come una bambola vudù, semmai vagheggiava, la > capitale, di essere un fognaiolo che dal sottosuolo avrebbe potuto gettare uno > sguardo sotto le gonne cortissime di quelle aguzzine dell’asfalto e del > desiderio che andavano a scialacquare migliaia di rubli in biancheria di pizzo > d’importazione al GUM dalla crosta dorata le cui ghirlande brillavano molto > più del Cremlino, molto più di San Basilio, molto più del cupo bunker del > mausoleo di Lenin, il cui illustre occupante di sicuro non aveva niente da > ridire, tutt’altro, e ogni tanto aveva forse una bella erezione di cera al > passaggio di quei battaglioni di gambe nere e setose che attraversavano la > piazza e che erano comunque per lui una novità rispetto al rumore di scarponi > dei vecchi tempi.” E se la sorte, come un altro celebre Vladimir cantava, ha avuto in serbo per te cavalli bradi, beh, allora c’è la possibilità che le tue giornate siano state verniciate con una malta posticcia che non tarderà a scrostarsi. Capita perciò che dopo otto giorni da quella telefonata tu stia prendendo un treno, in verità il treno per eccellenza, la Transiberiana, per accompagnare il tuo adorato rivale nel suo ultimo viaggio verso il villaggio natale nei pressi di Novosibirsk, in Siberia. Tremila e più chilometri (degli oltre novemila necessari per raggiungere il capolinea, Vladivostok) in cui lanciarti in un monologo tanto delirante quanto rivelatorio, se non altro su te stesso e le tue sin troppo umane debolezze. > “Non scriverò mai così, Vlado, lo sai, mai e poi mai, quella lingua inaudita, > ripetitiva fino all’ipnosi, cattiva, incantatoria, di una cattiveria, di una > cattiveria allucinata, avevo vent’anni quando ho letto quel libro, Vlad, > vent’anni e sono stato preso da un’energia straordinaria, un’energia > folgorante che è esplosa in una stella di tristezza, perché ho capito che non > sarei mai riuscito a scrivere così, non ero abbastanza pazzo, o abbastanza > ubriaco, o abbastanza drogato, allora ho cercato in tutto questo, nella > follia, nell’alcol, negli stupefacenti, più tardi nella Russia che è una droga > e un alcol, ho cercato la violenza che mancava alle mie parole, Vlad, nella > nostra amicizia smisurata, nei miei sentimenti per Jeanne.” La steppa, nel suo “sterminio di boschi e di anime”, non concede tregua, coagula i sentimenti. Sequenze d’immagini residenti in un altro spazio-tempo che risalgono furtive lungo i nervi, fino a ovattare il presente. Come d’incanto tutto prende forma, una forma inconsueta, lontana da quella più solida e consolatoria che ci eravamo ripetuti essere la nostra. E in un lungo piano sequenza ecco il nostro rapporto con Jeanne, fatto di eccessi e tenerezza, l’ultima vacanza a Lisbona… poi la Russia. > “Arrivando all’aeroporto ho visto il monumento che indica il limite > dell’avanzata tedesca, sulla strada per Leningrado, due cavalli di frisia > giganti per fermare i carri armati smisurati del ricordo.” L’iniziale diffidenza nei tuoi confronti, che abbiamo messo sotto spirito per cavarne più tardi i frutti inebrianti del nostro affetto. La mia fisicità estranea alla neve. La sensazione di essermi disperso, ma non a sufficienza. I miei Carver, Kerouac, Cendrars sempre un passo in là, eleganti e pazzi quanto basta; quella pazzia aggraziata che non riesco ad acciuffare malgrado le ripetute integrazioni chimiche. E ora ho dovuto perdere ancora una volta Jeanne, che pure mi aveva chiesto di restare. > “In metropolitana ha tirato fuori dalla borsa una minuscola boccetta di > profumo, ne ha versato una goccia sul polso destro e l’ha sfregato contro il > sinistro, meccanicamente. Me l’ero scordato questo gesto. Mi si è stretto il > cuore, avevo voglia di abbracciarla, di stringerla a me, di tenerla stretta. > L’ho soltanto guardata.” Ma io qui dovevo essere, a salutare nella nebbia il fantasma di Mandel’štam che tira dritto fino a Vladivostok, lo spettro dello zar Nicola II a poche verste da Ekaterinburg. E un po’ inizio a invidiarli questi cimiteri verdi cullati dalle rotaie, queste lapidi sono meno sole di noi, Vladimir. Mi vado convincendo che forse avevamo gli occhi troppo belli per passarla liscia. Penso che farò un altro pezzo di strada con te, amico mio. Parigi è triste e non ci sono che ombre a farmi la posta. > “E nella solitudine di questa stanza d’albergo, a Novosibirsk, la città del > freddo, dell’Ob’ silenzioso e del ghiaccio, mi addormenterò. Mi addormenterò, > prenderò le pastiglie che ho in valigia. Le molecole che ci hanno dato tanta > felicità, le prenderò per addormentarmi, le manderò giù con un bel bicchiere > d’acqua siberiana; penserò a Jeanne, penserò a te sapendo che ti rivedrò, > penserò alla tua ninnananna, a quella canzone così bella e così allegra e così > triste giacché non c’è niente di più simile alla morte del sonno, mi > abbondonerò alla tua ninnananna, mi addormenterò ascoltandoti e in sogno > stringerò la mano magra di Jeanne, con le sue vene in rilievo che mi piaceva > tanto sfiorare col dito, e saremo tutti e tre, in quel sonno, e penserò a voi, > un’ultima volta, e mi addormenterò.” Gianluca Pìtari *Mathias Enard, “L’alcol e la nostalgia”, Edizioni e/o, 2017, traduzione di Yasmina Mélaouah In copertina: Il’ja Repin, Ritratto di Jelizaveta Zvantseva, 1889 L'articolo Chi, almeno una volta, non ha ambito alla dissoluzione? Intorno a un romanzo di Mathias Enard proviene da Pangea.
March 14, 2025 / Pangea