Augusto Del Noce, fu tra i più notevoli e “inattuali” interpreti tanto del XX
secolo, quanto di quella tradizione filosofica italiana che nasce sotto gli
auspici e la lezione di Giambattista Vico. Un pensatore cristiano (anche se tale
categoria è estremamente riduttiva) che oltre le facili categorie
gramsciazioniste, storiciste e reazionarie dell’epoca cercò una via alternativa
(ispirata alla tradizione filosofica italiana e cristiana) per pensare il
Novecento e l’Italia. Delineando una filosofia che decodifica i veri nodi della
modernità e profetizza con lucida contezza i tanti sviluppi e le tante derive
del panorama politico e culturale italiano ed europeo. In questo senso la
lettura di Augusto del Noce si prefigura come una tappa obbligata, per laici e
cristiani, razionalisti e irrazionalisti, e lettori delle più varie famiglie
culturali e politiche, per confrontarsi con le vertigini della modernità e i
nodi del pensiero e della politica contemporanea. Per tale ragione non può non
essere letto il nuovo saggio sul pensatore torinese scritto da Luciano
Lanna (attualmente direttore del Centro per il libro e la lettura del Ministero
della cultura): Attraversare la modernità. Il pensiero inattuale di Augusto Del
Noce, edito da Cantagalli con una densa prefazione di Giacomo Marramao e un
inedito testo delnociano del 1961. Lanna, studioso irregolare, lettore
infaticabile ancor prima che giornalista (professione che ha svolto per tanti
anni), ha dedicato al pensiero e alla cultura la sua nutrita attività
saggistica. Dottore di ricerca in scienze filosofiche e sociali, si è sempre
interessato del pensiero del Novecento e delle ricadute del movimento delle idee
sul piano politico. Per meglio comprendere le idee e il pensiero delnociano
abbiamo, quindi, intervistato il direttore Luciano Lanna.
Quali sono i tratti caratteristici della figura e del pensiero di Augusto del
Noce e quanto è attuale la riflessione delnociana?
La riflessione del filosofo torinese si colloca per intero all’interno di quello
che Hobsbawm definì il “secolo breve”, non fosse per il fatto che Del Noce
nacque nel 1910 e ha lasciato questa vita alla fine del 1989. Dico questo per
spiegare come il suo pensiero si è subito modulato come una interpretazione
filosofica del presente storico. Per Del Noce una filosofia che non fornisca
risposte agli interrogativi che il proprio tempo presenta si annulla di valore.
E anche per questa attitudine, per la sua natura di filosofare attraverso la
storia, definisce una inevitabile valenza di attualità. Rileggendo bene alcune
profezie delnociane successive al 1963 si rilevano molti dei tratti
caratteristici del nostro presente, soprattutto quelli più inquietanti. Tanto
che paradossalmente, nel sottotitolo del mio libro, parlo di “pensiero
inattuale”.
Ovvero?
Proprio nel senso di una capacità di saper guardare oltre i limiti del
presentismo anticipando scenari a venire.
Perché la filosofia di Del Noce è metapolitica?
Perché, sin dall’inizio, si prospetta come una filosofia in presa diretta con il
presente storico e con la storicità in generale. È uno stile filosofico che
conduce inevitabilmente a un percorso metapolitico in cui la riflessione
teoretica si contamina con la storia e con gli eventi politici e il pensatore
esce consapevolmente dall’accademia per confrontarsi con tutte le forze in campo
nel processo storico in cui si è coinvolti. Ogni autentica battaglia politica è
anche, per Del Noce, una battaglia filosofico-culturale, e dietro ogni vero
dibattito politico non può non soggiacere, e quindi essere elaborata, una
interpretazione della storia contemporanea che tenga uniti principi filosofici e
lettura del processo storico. Sarà un pensatore postmarxista come Costanzo Preve
a attestare la lungimiranza di questa attitudine delnociana spiegando che
> “quando il momento politico propriamente detto appare bloccato è
> indispensabile una deviazione verso un momento metapolitico, perché solo
> all’interno di una conversione metapolitica preliminare può avvenire una
> rinascita su nuove basi del momento politico propriamente detto”.
Come si colloca Augusto del Noce nel Novecento italiano ed europeo?
Si colloca nel cuore di quel dramma ed esperimento filosofico-politico che è
stato il Novecento, sia italiano sia europeo. Per quanto riguarda in particolare
il nostro paese, Del Noce era infatti convinto della centralità e della
paradigmaticità della esperienza italiana sulla interpretazione transpolitica
dell’intera storia contemporanea. E questo, va precisato, non arbitrariamente o
per partito preso, ma anzi con argomentazioni fortemente stringenti e motivate.
Quando parliamo di esperienza italiana ci si riferisce alle specificità politica
e culturale dell’Italia quale campo sperimentale dell’intelligenza politica e
filosofica nell’approccio alla modernità. Per dirla tutta: Del Noce coglie nella
via italiana alla modernità una serie di percorsi – da Vico alla filosofia del
Risorgimento, passando per Dante, Gramsci e Gentile – in grado a suo dire di
comprendere il Moderno in tutte le sue sfaccettature. Di individuarne gli
scacchi e gli esiti nichilistici ma, anche, di prospettarne uno sbocco diverso.
Quello di una modernità con l’anima e aperta alla trascendenza. Stabilito che
Gentile con l’attualismo perveniva allo stesso esito immanentistico di
Heidegger, solo rovesciandone il pessimismo nichilismo in un futurismo
ottimistico, Del Noce affronta – sino al suo ultimo libro, uscito postumo – la
riflessione gentiliana che, a suo dire, obbligava a un ripensamento dell’intera
storia della filosofia moderna. Al punto che “per affrontare la questione della
modernità, l’attualismo è davvero un documento decisivo”. Ecco, l’opera
principale di Del Noce, Il problema dell’ateismo, va intesa in questo senso come
uno dei testi chiave, al pari delle opere di Heidegger o di Löwith, della
riflessione novecentesca europea.
Come si pone Del Noce rispetto al tema della “organizzazione della cultura” e
nello specifico dell’egemonia culturale?
E qua arriviamo a Gramsci, che fu il teorico della cosiddetta organizzazione
della cultura e del concetto di egemonia culturale. Autore al quale Del Noce
dedica un suo importante lavoro del 1978, Il suicidio della rivoluzione. Ma sul
tema Del Noce fu chiaro come pochi. Il pensiero dello studioso sardo conobbe,
dopo varie alternanze, un periodo di successo in Italia nel periodo che va dalla
seconda metà del ’74 all’autunno del ’76. La sua riscoperta si imponeva
nell’ambito marxista dopo il declino di Lukàcs e il fallimento della scuola di
Francoforte. Quando tutto sembrava mettere in luce come la via gramsciana fosse
l’unica attraverso cui il marxismo e l’eurocomunismo potessero affermarsi in
Occidente. È una riscoperta che condusse a una nuova contrapposizione
nell’Italia degli anni Settanta: non più quella classista tra capitalismo e
proletariato ma tra un “risorgente fascismo” e un “rinnovato antifascismo”,
tanto da trasformare il fascismo in una categoria – come sottolineava Del Noce –
“metastorica”. Il risultato è stata una ricomprensione italiana del marxismo
attraverso una sua declinazione storicistica e illuministica che coincide con il
compromesso con la borghesia in funzione antifascista. Scompare del tutta
l’anima rivoluzionaria, messianica e soprattutto antiborghese del comunismo e si
finisce in una declinazione, per così dire, laica, democratica e antifascista. È
l’eurocomunismo. Per cui il gramscismo, secondo Del Noce, conduce dritto dritto
al “suicidio della rivoluzione”, alla sua eutanasia, al suo cedimento alle
logiche della società borghese e tecnocratica. La via nuova al socialismo,
conclude il filosofo torinese, diventa transizione dal vecchio al nuovo
capitalismo. Altro è il discorso delnociano sulla formulazione di una via
metapolitica verso una egemonia diversa da quella neomarxista, illuminista o
azionista. Tanto che tutto il suo impegno si mosse in questa direzione, a
cominciare dal suo supporto decisivo a case editrici come Borla o Rusconi,
guidate dal suo allievo Alfredo Cattabiani. Sino al suo collaborare con le
riviste cielline come “Il Sabato” e “30Giorni”… Nel mio libro parlo esplicitante
di “via editoriale alla metapolitica”.
Che tipo di interpretazione dà il filosofo del Sessantotto?
Non banale né scontata. Come egli stesso spiegherà in Appunti per una filosofia
dei giovani, la contestazione se interpretata nel suo significato etimologico,
era una messa alla prova della cultura immanentistica moderna. Se, nonostante il
suo esaurirsi, l’immanentismo rimaneva attivo come mentalità dominante negli
anni Sessanta, il cristianesimo e le culture sapienziali sopravvivevano solo
come perbenismo borghese e come ricordo di un mondo consegnato al passato. Ed è
proprio a questo compromesso di facciata che il ’68, secondo Del Noce, pose le
domande necessarie e radicali da parte di giovani generazioni insoddisfatte dal
compromesso. Poi, Del Noce, che troverà sintonia con la scuola di Francoforte e
gli autori del primo ’68, contesterà la successiva deriva gramsciana e
barricadera che il movimento intraprenderà. Così come Del Noce contesterà gli
accenti surrealisti espressi da alcuni leader sessantottini. Mentre, in
positivo, si ritroverà con la declinazione che della contestazione daranno don
Giussani e i suoi amici.
Quale continuità c’è tra Del Noce e la migliore traduzione filosofica italiana
(da Vico a Machiavelli, da Gioberti a Gentile)?
Del Noce, ricordiamolo, è un filosofo cattolico che non si forma nell’alveo del
tomismo o dell’università cattolica. Ha sempre avuto fede ma il suo percorso si
delinea nell’ambito della cultura laica, di cui tenta di evidenziare le
contraddizioni, le aporie, gli scacchi. Studia nello stesso liceo di Leone
Ginzburg, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. All’università studia con pensatori
laici. Ma individua da subito una via alternativa rispetto al filone Bruno,
Spaventa, Croce, Gobetti, Gramsci… In lui il filo è quello che parte da Vico, si
innesta nel pensiero cattolico del Risorgimento, incrocia pensatori irregolari
come Tilgher, Rensi, Martinetti… E si precisa nell’incontro col suo maestro
Carlo Mazzantini.
Cosa intende per approccio ucronico alla dimensione storica e come mai tale
paradigma è la chiave del pensiero delnociano?
La storia, per Del Noce, non è come per tutti gli immanentisti, siano essi
illuministi, idealisti, storicisti, marxisti o positivisti, un percorso lineare
e deterministicamente inteso. La storia è aperta. Del Noce riprende un concetto
coniato da Charles Renouvier, secondo il quale la storia non va vista come una
freccia ma come un albero con tante ramificazioni possibili e dalle quali è
sempre possibili ripartire. La modernità non è a una sola dimensione. Nessun
determinismo potrà mai ingabbiare la storia. Ecco perché Del Noce è fuori del
binomio tradizionalismo/progressismo. E la sua fiducia nella storia come
continua e aperta esegesi è attestato da alcune parole del suo ultimo scritto:
> “Ora che è in via di esaurimento, il ciclo rivoluzionario si svela non un
> processo irreversibile, come avevano ritenuto sia i progressisti che i
> tradizionalisti, ma un processo storico reversibile, contro cui è dunque
> possibile combattere”.
Del Noce negli anni della sua formazione scopre l’ucronia tramite Adriano
Tilgher, un pensatore che mutuando il concetto da Renouvier lo utilizzò contro
lo storicismo crociano. E in qualche modo, anche attraverso la meditazione del
maestro di Renouvier (Jules Lequier), Del Noce ne adotterà l’ispirazione di
fondo nel suo superamento di qualsiasi filosofia della storia.
Augusto Del Noce (1910-1989)
Come nasce questo libro e come è evoluto nel tempo la sua stesura e anche il suo
autore?
Il libro riprende una mia tesi di dottorato proprio dal titolo “Attraversare la
modernità. La filosofia di Augusto Del Noce”, ma di fatto è il risultato di un
work in progress iniziato sui banchi dell’università, proseguito con il mio
continuo confrontarmi con i saggi che Del Noce pubblicava sui quotidiani e su
riviste. Ricordiamoci che Del Noce scriveva editoriali sul quotidiano “Il Tempo”
nella stessa fase in cui Pier Paolo Pasolini scriveva i suoi sul “Corriere della
Sera”. Tra l’altro il poeta di Casarsa era stato invitato a farlo dal
vicedirettore del giornale di via Solferino che poi era Gaspare Barbiellini
Amidei, un delnociano. Infine, per quanto mi riguarda, ho voluto comparare
l’opera di Del Noce con quella di altri autori da me studiati negli anni, a
cominciare da Gentile, Jünger, Zolla e Heidegger… Un lavoro che, nel tempo, ha
affinato e approfondito la mia stessa prospettiva di pensiero, in particolare
nella interpretazione della modernità.
A quale frase e citazione di Del Noce è più legato?
Senz’altro a questa:
> “Riflettere oggi sull’attualità storica non è affatto un sostituire alla
> ricerca intorno all’eterno una ricerca intorno all’effimero: corrisponde
> invece al senso preciso di una frase spesso ripetuta, che il compito che oggi
> resta al filosofo è quello della decifrazione di una crisi. Perché, oggi, la
> scommessa, ci è imposta dalla realtà storica stessa”.
Francesco Subiaco
*In copertina: un’opera di Nicolas De Staël
L'articolo Augusto Del Noce: elogio di un pensatore “inattuale”. Dialogo con
Luciano Lanna proviene da Pangea.
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"La società civile ha introiettato profondamente l’idea che le tecnologie
dell’informazione e comunicazione siano semplici merci, strumenti a nostra
disposizione. Gli esempi che abbiamo toccato mostrano in maniera lampante il
contrario. " Leggi l'articolo di Stefano Borroni Barale.
In nemmeno 50 anni le aziende della Silicon Valley sono passate dal sognare la
pace al realizzare sistemi in grado di sorvegliare silenziosamente qualsiasi
smartphone e sistemi d’arma automatici che uccidono con un minimo o nessun
intervento umano, i “killer robots”. E sembrano ben felici di mettere queste
tecnologie a disposizione di nazioni in guerra e dittatori alla ricerca di
sistemi di controllo del dissenso.
Stefano Borroni Barale da qualche mese cura la rubrica “Scatole oscure.
Intelligenza artificiale e altre tecnologie del dominio” su altraeconomia.it. Il
suo ultimo articolo è qui.
Autorevole, serioso, taciturno. Per noi, poveri studenti, incontrarlo era un
problema: “Saluto o non saluto”, il dilemma. Un cenno rapido del capo era la
risposta a chi osava salutare. Questo il mio ricordo di Carlo Bo, il Rettore
Magnifico che ha cambiato tra il 1947 e il 2001 le sorti di una città, Urbino, e
della sua Università che ora debitamente porta il suo nome. Che sapevamo di lui?
Che era un critico letterario di grande rilievo, un senatore a vita per meriti
culturali e ben poco altro. Solo dopo la laurea la curiosità mi aveva spinto a
leggere almeno Letteratura come vita.
Oggi il suo nome ritorna accostato a quello di Giovanni Spadolini grazie ad Anna
T. Ossani. Una duplice straordinaria sorpresa: Anna T. Ossani legge gli scritti
di Bo su Spadolini, prefandoli e annotandoli e aggiunge in appendice le lettere
di Spadolini a Bo in un corposo volume pubblicato da Raffaelli editore Rimini
come dodicesimo volume della Collana “Quaderni della Fondazione Bo” e
intitolato Carlo Bo, Giovanni Spadolini “Uno storico che è uno scrittore”, a
cura, appunto, di Anna T. Ossani. Il volume è già in libreria.
Duplice sorpresa per il nome della curatrice, una dei docenti preferiti dei miei
tempi universitari e perché i saggi si muovono tra letteratura, storia politica
restituendoci un panorama storico-politico-letterario che va dagli anni ’60 alla
morte di Spadolini nel ’94 (cinque i saggi di Bo pubblicati dopo la morte di
Spadolini, compresi nel volume). Il saggio introduttivo, “Continuare a inseguire
l’arcobaleno senza fermarsi” mi ha affascinato subito, sin dal titolo; gli
avant-propos ai singoli testi di Bo danno la misura della competenza di chi
scrive.
Oggi incontro Anna T. Ossani, la professoressa che mi ha insegnato ad amare il
teatro e parlo con lei della recentissima pubblicazione.
Sono stato uno studente impertinente e vorrei fare una impertinente prima
domanda, posso?
“Sentiamo quanto è impertinente”.
È vero che nella tua ricca biblioteca ci sono scaffali pieni di libri di storia
e di politica, oltre che di letteratura, teatro, musica, ma tu sei
un’italianista, ci hai insegnato a leggere i testi, ad amare il teatro. Come mai
questa scelta che mi sembra quasi estravagante rispetto alla tua storia, alla
tua carriera?
“Estravagante proprio no. Sin dalla tesi di laurea dedicata a Giuseppe Mazzini,
a come si coniugava nella sua opera il rapporto tra letteratura e politica,
divenuto poi il mio primo libro, sin dal secondo, Mario Morasso, agli studi su
Futurismo e Fascismo, Tommaso Monicelli, Francesco Meriano, la prima linea di
ricerca è stata quella. Poi ragioni accademiche hanno fatto il resto”.
Insisto: perché proprio Spadolini e Bo, anzi Bo che legge Spadolini e attraverso
le sue recensioni, i suoi elzeviri, le sue note sul politico toscano ci fa
capire il rapporto di amicizia, di vera e propria sodalità nato tra loro in più
di trent’anni di frequentazioni?
“Amo le intersezioni: e qui le intersezioni non stavano solo tra un critico
letterario che legge uno storico, tra un cattolico che legge un laico, ma
nell’oggetto stesso della ricerca. Da subito sfogliando le lettere di Spadolini
e leggendo i saggi di Bo, la connessione era evidente: Storia, Letteratura,
Politica; culture intrecciate; passato e presente; la grande Firenze
dell’umanesimo civile e la Firenzina di oggi; il destino dell’Italia e un’Italia
e un’Europa che non sono state in grado di compiersi. Stupefacenti, attualissime
e concordanti le posizioni di entrambi. Bo non è stato solo uno straordinario
critico letterario, ma anche un commentatore libero, anzi un libero commentatore
di ragioni di attualità. Bargellini lo aveva invitato a scrivere per i
giornali; e Bo negli anni Cinquanta non può non avere curiosità per quel
giovanissimo storico che già aveva terremotato gli studi non solo con un
approccio diverso alla materia storica (condotto attraverso documenti
filologicamente probanti spiegati al lettore, panorami amplissimi e folgoranti
ritratti, restituiti magari con pennellate rapide, ironia toscana, lingua
smaltata), ma perché da cattolico leggeva con attenzione e condivisione le
parole di un laico su Giolitti e i cattolici, L’opposizione cattolica, ad
esempio, e capiva soprattutto di trovarsi di fronte ad un abilissimo
comunicatore che spiazzava il lettore sin dai titoli dei suoi libri
(penso al Papato socialista, alle Due Rome,Il Tevere più largo, eccetera). Un
libro dal titolo Il Papato socialista non può non incuriosire, forse da subito
spiazza. Non solo: la distanza tra un cattolico ligure taciturno, ombroso, che
vive – diceva Spadolini – “ai confini e oltre i confini del dubbio”, e un laico
dall’oratoria fluente che ostenta una quasi olimpica serenità è solo apparente.
Li accomuna l’amore per la lettura che è per entrambi una continuo riconoscersi,
un continuo esame di coscienza, la bibliofilia, l’onestà intellettuale, la
cultura, l’attenzione al lettore sempre coinvolto, l’apertura all’Europa, a
discipline diverse, a culture diverse, il rifiuto degli sgambetti, dei magheggi
della politica, delle divisioni interne ai singoli partiti che continuavano
(forse è meglio usare il presente) a rallentare un vero processo unitario del
paese e l’invito continuo ad ascoltare la ragione e il dialogo tra le parti.
Saranno allora i grandi fondi di Bo negli anni delle aspre polemiche sul
divorzio a cementare la loro sodalità contro una “guerra di religione”, come Bo
scriveva sul “Corriere della sera” diretto, tra il 1968 e il 1972, proprio da
Spadolini. Spadolini e Bo hanno accompagnato il lavoro storico, il lavoro
letterario, quello giornalistico e quello politico seguendo una precisa idea
di Cultura che mancava e manca nel Palazzo; che è anche un modo nuovo di
guardare gli avvenimenti, di cercarne le ragioni, non di fare chiasso attorno ai
fatti. Ed è il primo grande merito del giornalista Spadolini e di Bo
giornalista: testimoni lucidi e distaccati interpreti. Non solo: dai 26 testi
che ho pubblicato e annotato emerge un comune destino che per entrambi ha
origine a Firenze (l’uno perché vi è nato, l’altro perché vi ha studiato e letto
a San Miniato, nel 1938, Letteratura come vita, involontario manifesto
dell’Ermetismo), ma finirà per svolgersi altrove: a Bologna, a Milano, a Roma
per Spadolini, a Urbino, Milano e Roma per Bo. Entrambi sono due scrittori, due
costruttori”.
Carlo Bo (1911-2001)
Fermati un attimo: cosa significa quando dici due scrittori, due costruttori?
“Non basta scrivere bene per essere scrittori. Spadolini non ha solo lucida
consapevolezza del tempo in cui vive, ma un’ipotesi progettuale, una
responsabilità etica e un messaggio da offrire al lettore. Insomma, si tratta di
cultura, di politica culturale da leggersi sia sul piano intellettuale che su
quello pratico, concreto. Ecco perché parlo di due costruttori. Non è stato, il
loro, “Un vivere di carta”, ma l’unica possibilità di vivere durante il
Fascismo. Sono stati ‘costruttori di ponti’, di relazioni, operatori culturali
nel senso gobettiano del termine ma anche concretamente operativi: cosa è stata
la Fondazione se non il voler riportare a Firenze una nuova cultura e anche
tramite la Nuova Antologia darle nuova vita e slancio? Firenze riportata
culturalmente a una nuova grandezza. Urbino rivoluzionata nelle sue strutture
universitarie, nelle sue facoltà, nei suoi docenti. E per entrambi, da Roma, dal
Senato un lungo inflessibile monito a dire basta alle partigianerie, alle
miserie quotidiane, entrambi testimoni e interpreti di una nuova cultura anche
politica”.
Come hai insegnato, comincio dalle soglie del testo. Cosa significa il titolo
del tuo intervento introduttivo: “Continuare a inseguire l’arcobaleno senza
fermarsi”?
“Una delle accuse mosse a Spadolini durante la lunga carriera politica è stata
quella di essere sì un mediatore ma di non avere coraggio, di essere fragile.
Accuse mosse prima e dopo la morte di Spadolini all’interno dell’agone politico
ma anche fuori di esso. Ebbene: Bo respinge fortemente questa tesi e la frase di
Calamandrei, amico del padre, grande uomo di cultura e grande politico, l’ha
assunta come monito per tutta la vita. Avere un progetto di vita e cercare di
portarlo sino alla sua conclusione senza fermarsi anche se l’arcobaleno non si
raggiunge mai, se si sposta anche il tuo obiettivo e si accresce e si allarga
nonostante le batoste. Per questo dico che Bo e Spadolini sono stati due
costruttori: di ‘ponti’, per riprendere titolo della rivista di Calamandrei;
ponti tra culture, tradizioni, momenti storici, posizioni politiche dissimili,
ponti da costruire tra partiti, nazioni, culture nel segno di un’Europa che deve
portare ancora a compimento il sogno del Manifesto di Ventotene, di un
Mediterraneo che deve porsi come luogo di incontro e non di scontro tra civiltà.
Consiglio vivamente ai politici di oggi di leggere certe pagine
dei Bloc-Notes (anche sul Manifesto di Ventotene). Mauriac e oltre Mauriac,
scrive Bo. Basterebbe pensare a Spadolini che ha istituito il Ministero per i
Beni culturali, a che cosa ha fatto nella breve durata di questo incarico per
capire cosa significa essere dei costruttori”.
Giovanni Spadolini (1925-1994)
Cosa pensava Bo di Spadolini giornalista e cosa pensava Spadolini di Bo
giornalista?
“Bo distingue subito Spadolini dagli altri giornalisti quando ancora Spadolini
era il direttore del Resto del Carlino per il suo essere un uomo di cultura: ciò
lo distinguerà, secondo Bo, anche dagli uomini del Palazzo che ‘rodomonteggiano’
per inutili problemi, ‘tacciono’ per cose gravissime. Sono parole di Bo: gravi,
pesanti. Ognuno le legga come vuole o come può. Grandissimo giornalista
Spadolini per Bo, capace di cogliere l’essenza del problema, del fatto, in poche
righe, di tenere il discorso e di far pensare. Quando Bo inizia a scrivere per
il Corriere della sera e poi arriva la direzione Spadolini, la collaborazione
tra i due si fa più stretta; la libertà del giornalista si accompagna alla
sapienza del direttore consapevole di avere accanto non solo un grande critico,
ma anche un grande commentatore di ragioni di attualità. Gli interventi di Bo
sul “Corriere della sera” vanno in entrambe le direzioni”.
Quale è il sotterraneo intento di questo libro?
“Nessun intento sotterraneo. Volevo leggere pagine di Bo mai lette, volevo
leggere un po’ di più di Spadolini che conoscevo in parte come politico, poco
come storico. La sua scrittura ha un fascino che avvolge, nutre, ti costringe a
pensare. E Bo, con la sua linea curva, con il suo procedimento ‘aggirante’, con
i suoi giudizi non dati, con il suo bulino incide poco a poco e mette a nudo
l’uomo segreto, lo scrittore segreto del Capanno di Pian dei giullari e lo
storico straordinario, almeno per me, dei Bloc-Notes dove puoi capire perché ci
troviamo, oggi, in questa dolorosa situazione culturale, prima ancora che
politica. Una preveggenza che affascina e stupisce. Bo lo ha scoperto subito e
ce lo ha restituito in tutta la sua grandezza come storico, come politico e
soprattutto come uomo”.
Alessandro Carli
*In copertina: J.M.W. Turner, L’arcobaleno, 1817
L'articolo “Continuare a inseguire l’arcobaleno”. Carlo Bo e Giovanni Spadolini:
appunti di cultura politica proviene da Pangea.