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Devoti alla Lince. Indagine sull’animale-totem di Ezra Pound
Ezra Pound nomina la lince nel secondo Cantos:  > “E dal nulla, un respiro, >             fiato caldo alle mie caviglie. > Come ombre rispecchiate, le bestie, >             una coda pelosa nel nulla. > Ronfiar di lince, odoravano di brughiera le bestie… > > Sicuro fra le mie linci, > pascendo d’uva i miei leopardi”  > > (cito dalla versione, nobile, a tratti ‘obliqua’, di Mary de Rachewiltz)  All’arcana bestia, ‘Ez’ dedica uno dei Pisan Cantos, il LXXIX. La lince, in questo caso, ricorre di continuo, lasciando chiare orme grafiche, ornamenti d’artiglio: > “O Lince, mio amore, mia amata lince > Vigila sul mio otre di vino, > Proteggi il mio lambicco fra i monti > Finché Spirito entri nel whisky” La parte finale del “canto” si impenna in rito, è scandito da varie invocazioni alla lince: > “O Lince, proteggi il mio frutteto > Astieniti dal solco di Demetra”; > “Qui sono linci                       linci > S’ode un suono nella foresta >             di pardi o di bassaridi > di crotali         o fruscio di foglie? > >             Citera, fra queste linci > i cespugli di quercia sbocceranno?” > “O lince, fa che il mio mosto fermenti > Che s’illimpidisca” > “O lince vigila sul vigneto > Quando il chicco s’ingrossa sotto i pampini…” La lince non farà più comparsa nei Cantos, svanita in misterica reticenza, elusiva quanto Eleusi. Eppure, il suo ruolo nei “Pisani”, che è poi, per circostanze storiche – Pound in arresto, presso il Disciplinary Training Center, a Metato, Pisa, sotto tiro continuo di morte –, la porzione più cruda e risoluta dei Cantos, “un testamento, redatto talora in terza persona, un addio agli amici, e un’autobiografia degli affetti”, è centrale, è a zenit. Il Commento di Mary de Rachewiltz all’edizione mondadoriana dei Cantos – da cui estraggo il virgolettato – non offre chiarimenti su questa Lynx. Nell’edizione dei Canti postumi – Mondadori, 2002; poi Carcanet, 2015 –, tuttavia, Massimo Bacigalupo allude alla lince come all’“animale-totem di Pound”. Il Companion to the Cantos of Ezra Pound allestito da Carroll F. Terrell per la University of California Press (1984) non è risolutivo. Si dice che “La lince è uno dei felini sacri a Dioniso. Perpetuo refrain nel canto, la lince non è soltanto il simbolo per appellarsi al dio del sesso e del vino, ma anche l’emblema di una donna in particolare. Gli studiosi dibattono per capire se Pound si riferisca, qui, a Dorothy, a Olga Rudge, o Bride Scratton o a qualche altra amate”.  A Dioniso, è vero, sono associati i felini: non tanto la lince – felino effimero, incerto perfino nella definizione, inabile al puro simbolo, per lo più minimizzato a ‘gatto selvatico’ – quanto la pantera, la tigre, il leone. La lince rifugge alla classificazione dei bestiari antichi, a cui mal si adatta. Nei “Pisani”, per altro, Pound gioca a sobillare le associazioni; il canto si chiude con la figura del puma, “sacro a Hermes, Cimbica serva del Sole”. Il puma – Cimbica nella lingua indigena del Sudamerica – non figura, per ovvia sfasatura geografica, tra le bestie sacre a Hermes (a cui sono ascritti, piuttosto, la lepre e il falco, la tartaruga e il gallo): è egli stesso bestia ermetica. “Significa, come altre figure feline, la manifestazione del divino nella natura” (Terrell). Il puma: divora e partorisce il sole – Pound, poeta-profeta, ci lascia sulla soglia dell’enigma; non scioglie – scuce. A noi resta il flottare tra fili filatteri, l’angustia dell’ago, mangusta di metallo.  Torniamo a cavalcare la lince.  Il primo riferimento di Pound sono Le metamorfosi di Ovidio. Nel quinto libro il poeta latino dice di Linco, re degli Sciti, che attenta alla vita di Triptòlemo, devoto a Cerere, che “gli affidò dei semi ordinandogli di spargerli/ parte in terra incolta e parte in quella dopo anni ricoltivata”. Linco, “preso dall’invidia”, tenta di uccidere Triptòlemo nel sonno, “quando in lince lo mutò Cerere”.  Il mito mette in contrasto diversi aspetti ‘culturali’ che potevano attrarre Pound. Intanto, gli Sciti, rappresentati da “quel barbaro” di Linco, in contrasto con la cultura greca classica, raffigurata da Triptòlemo, cittadino della “famosa Atene”. Gli Sciti erano famosi per essere audaci guerrieri a cavallo; i loro gioielli raffigurano lupi in assalto, serpi intrecciate, leoni delle nevi e cervi dal palco immane. Dalle regioni connesse alla Scizia proviene Medea, la donna che porta il caos dov’è l’ordine. In un passo straordinario tratto dalle Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo, il re degli Sciti – o meglio, il loro rappresentante, dacché gli Sciti sono il popolo supremamente libero, all’assalto – affronta il Macedone ricordandogli che “anche il leone è stato qualche volta il pasto di piccolissimi uccelli, e la ruggine corrode il ferro. Niente è così forte che non possa essere messo in pericolo anche dal debole…”, che “non raggiungerai mai gli Sciti [perché] la nostra povertà sarà più veloce del tuo esercito, che trasporta il bottino di tanti popoli”. All’ordine – all’armonia – imposta dalla civiltà greca, gli Sciti oppongono un altro stile. Alla città – orgoglio della mente organizzatrice dell’uomo – preferiscono l’accampamento, la tenda docile al vento, senza fondamenta. Alla stanzialità preferiscono il nomadismo; alla spada e all’aratro (e al loro confratello, la nave) contrappongono l’arco e il cavallo; alla religione degli dèi olimpici, gli dèi della natura, auscultati dallo sciamano; al poema redatto dai poeti e alla filosofia oppongono i canti attorno al fuoco e i motti ancestrali, i ‘proverbi’; al tempio sostituiscono il bosco e la prateria; all’umano (l’uomo al centro del mondo) oppongono l’animale, un rapporto simbiotico con la bestia; al commercio (che inaugura l’era del profitto) il baratto; inadatti alla legge esigono la certezza del patto.  Da qui si giunge all’opposizione radicale, radicata in una visione del mondo. Alla civiltà fondata sull’agricoltura e i suoi culti (Cerere/Demetra) gli Sciti contrappongono la civiltà della caccia e della razzia. Alla civiltà del pane preferiscono la civiltà del vino (Dioniso). Al feroce irenismo, l’ira e perfino l’invidia (termine a cui era associata, in luce del mito, la lince), che è poi l’invadere, che è poi l’evadere per ambizione. Alla civiltà ‘coniugale’ preferiscono quella dell’assalto all’arma bianca: la Baccante meglio che la moglie. È sotto la coltre di Dioniso – il cui culto è stato esportato a Oriente – che si muove la Scizia.    Faccio un passo di lato – anzi, un affondo.  Riguardo al lignaggio della lince Pound scrive: “Manitou, dio delle linci, ricorda il nostro grano”. Il meccanismo è analogo all’idea del puma sacro a Hermes: coincidenza di opposti, epica del sobillare le culture. Manitou, infatti, è il “Grande spirito” dei nativi americani, in particolare – leggo dal solito Companion – “è il nome con cui gli indiani Algonchini identificano il potere che permea tutte le cose”.  Pound, in sacro sincretismo, recluso nella gabbia pisana – dunque: privo di biblioteca, nella piena del morire, impollinato da memorie dispari –, autentica angelica bestia, fonde il mito greco (trapiantato nella cultura latina) con quello dei nativi. Nel bestiario degli Algonchini – gli Ojibwe, in particolare, che abitavano nella regione dei Grandi Laghi – spicca la figura di The Great Lynx, “Mishipeshu”. Questa lince è una belva chimerica, “in qualche modo simile a un drago, è un felino con le corna, simbolo del suo potere. Ha zampe palmate che gli rendono facile il nuoto, dorso e coda ricoperti di squame. Mishipeshu vive nelle profondità dei laghi. Ha forma felina, è anfibio, ma viene descritto come un rettile. È lui la causa di inondazioni, mulinelli, e dell’improvvisa rottura del ghiaccio in inverno. Se implorato, garantisce successo nella caccia, cibo in abbondanza” (Serge Lemaître, “Mishipeshu”, The Canadian Encyclopedia). Sul genio della lince, il più sfuggente dei simboli, nella mitologia amerinda Claude Lévi-Strauss ha scritto un libro, Storia della Lince.  La marziale sapienza degli Algonchini ricorda quella degli Sciti: destrezza nell’ammansire la bestia, genio della caccia; quei corpi, poi, in armature leggere, stupendamente pronti a un destino disertore.  Più che raffigurare una qualche felide amata, la lince è figura del poeta. La lince è l’animale che – a differenza della pantera, del leone, della tigre – non si inscatola nei bestiari o nelle cronache esoteriche, non si riassume in una attitudine o in un aggettivo. La lince è la bestia imprendibile e imparagonabile per antonomasia; c’è, non si fa vedere e tutto osserva; lascia lievi tracce sulla neve, predilige la solitudine. Secondo un mito dei nativi, la lince è all’origine della nebbia: è l’assoluto invisibile. Come il poeta, è l’animale costantemente in estinzione – che sfugge perfino ai proclami di chi vorrebbe proteggerla. È la bestia che in cattività muore. Emblema del ‘mostruoso’ – cioè, del meraviglioso – che non accetta alcuna norma imposta alla bellezza. È il miracolo.  Tra i tanti poeti devoti alla lince, va citata Emily Dickinson, bianco felino di Amherst. In una lettera a Catherine Scott Turner, inviata nell’estate del 1860, insegna che la lince ha il talento dell’astuta prudenza: > “Una scusa molto ben congegnata, cara, ma con una Lince come me [a Lynx like > me] completamente inefficace – Trovare è lento, occasioni per perdere così > frequenti in un mondo come questo, perciò io trattengo con estrema attenzione, > una prudenza così astuta può sembrare non necessaria, ma è l’abbondanza, mia > cara, a motivare coloro che hanno conosciuto la povertà, e il Salvatore ci > dice, Kate, che i poveri sono sempre con noi”.  > > (traduzione di Giuseppe Ierolli) Molti anni dopo, nel 1981, Ted Hughes – formidabile costruttore di bestiari lirici – scriverà una poesia sulla Lynx: > “Le zampe silenti della foresta, > delle nuvole, delle montagne > hanno il loro meritato riposo > sotto l’orecchio di Lince.  > Dormono del suo sonno – come  > in un profondo – profondo – lago. > > Non disturbare la belva > o le nuvole apriranno gli occhi, > la foresta, in silenzio, > sposterà tutti i boschi > e le montagne, arse di nebbia, > svaniranno tra le loro pietre”.  Esiste atto di devozione più grande? La lince – per sempre legata ai suoi arcani: il lago e la nebbia – dorme: i boschi, i cieli, le pietre sono il suo sogno. Al risveglio, tutto svanirà. Allo stesso modo, anche noi siamo il frutto del sogno del poeta, il felide felice.  *In copertina: Ernesto Ornati ritrae Ezra Pound, Rapallo, 1967 L'articolo Devoti alla Lince. Indagine sull’animale-totem di Ezra Pound proviene da Pangea.
October 2, 2025 / Pangea
“Ci riconduca allo splendore”. Alla ricerca di Ezra Pound. Ovvero, in gita da Mary
Il 9 luglio del 2025 Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, compie cento anni. Un po’ Sfinge, un po’ menhir è lì, memoria stilita, memoria petroglifo, a sigillare lo stigma del padre. Mary, col suo dire fermo, pieno di meli e di vespe, pare un monito. Il padre, ‘Ez’, il poeta che si è fatto carico – come profeta, maestro, pioniere, lottatore – del Novecento (e forse della ‘fine’ della letteratura per come l’abbiamo conosciuta, sfinendola), è nato nell’ottobre del 1885; quarant’anni fa Mary pubblicava la ‘sua’ prima edizione dei “Cantos” nei ‘Meridiani’ Mondadori. L’introduzione – in impeccabile ‘distanza’ – attaccava così: “The Cantos: poema scritto in pubblico, ma anche poesia chiusa. Dai trovatori Pound ha imparato a coprire le proprie tracce. E più i giri si volgono verso il centro di sé e della sua tribù, più si imbozzola. Ma per chi riesce a rompere il guscio è un entrare nella ‘ghianda di luce’, un reggere ‘la sfera di cristallo’”. Un poema che riassuma azione e divinazione, tenacia e teurgia, storia e mito, assiduità e assurdo. Che impresa vertiginosa. I giorni di Mary paiono consustanziali a quelli del padre: qualcosa che ha a che vedere con il patto. Investita del compito di penetrare i “Cantos”, la ragazza ha tremato, tumultuoso il sì, consapevole che ogni investitura è crocefissione. Pound ha unito in sé Provenza e Giappone, Usa e Cina, eppure, di biblica essenza è tale paternità.  Ad ogni modo. Qui si ricalca il reportage di un viaggio compiuto a Brunnenburg, alla corte di Mary: fu stampato, in origine, tempo fa, sul “Giornale”. Mantiene una sua stremata ‘autenticità’. L’ultima volta, ho sentito Mary lo scorso anno: parlammo di Pound e del Giappone, del desiderio di tradurre i suoi drammi No; lei, la ragazza, citava Aristotele – cento anni sono un soffio per chi levita sui millenni.  ** La fine è una luna enorme, davanti all’autostrada, simile al calcagno di Dio. Rimini-Brunnenburg andata e ritorno. In un giorno. Agosto luciferino. Oltre novecento chilometri. Abbiamo sorbito il tè con la Storia della letteratura. Tanto basta. Accompagno Walter Raffaelli nel forte dei principi de Rachewiltz, appena sotto Castel Tirolo, dove abita Mary, la figlia di Ezra Pound. Dopo Vanni Schewiller, Raffaelli è l’editore poundiano per antonomasia: ha pubblicato testi di Ezra, le poesie di Mary e della figlia Patrizia, i libri del marito di Mary, l’egittologo Boris. Il castello dei de Rachewiltz è arpionato alla roccia come un urlo. La strada per arrivare è ripida, intitolata – vivaddio – a Pound. Pochi elementi, però, entrando nella dimora, arcigna, ricordano il poeta. Un manifesto racconta un ciclo estivo di concerti; l’ingresso è per il Museo agricolo. Da un’aiuola sbuca la faccia di Pound scolpita da Gaudier-Brzeska. Al castello sono ospiti dei musicisti: nastri sonori avvolgono chi entra. Mary sbuca all’improvviso da una porta laterale. Minuta ed energica, classe 1925, un sorriso ampio come un balcone di gerani e quegli occhi, azzurri e spogli, che pietrificano i ricordi. Ci conduce per una scala a chiocciola. Sulle pareti, schizzi vorticisti tratti da “Blast”, la rivista creata da Pound insieme a Wyndham Lewis. Più tardi sorbiremo il tè su una teca di vetro. Sotto le tazze, piccolissimi monili egizi, occhi, orecchini, pettini, divinità enigmatiche, che adornavano tombe di tremila anni fa. «Vuole accomodarsi sulla sedia di William Butler Yeats o su quella di Ezra Pound?». Un senso d’inferiorità rende le mie ossa acciaio. Per il momento resto in piedi. Da una parte c’è il ritratto di Pound fatto da Rolando Monti: il poeta, davanti al mare ligure, cammina in avanti, bruscamente, con la mano sinistra in tasca, ma guarda, severo, indietro. Sotto, libri di Pound in tutte le lingue del pianeta. Una parte della libreria è dedicata alle pubblicazioni di Pound in italiano. Dalla stanza, un bunker in cui si è frenato il tempo, la vista sulla valle di Tirolo è vertiginosa. «A mio padre non piacevano le case né i nidi», mi dice la figlia, che alternativamente chiama Pound «Pound» o «mio padre». «Secondo lui le case erano inutili. Un uomo, diceva, non ha bisogno di case, ma di due valigie. Una per i vestiti. L’altra per i libri». La cassa dei libri di Pound, in legno, c’è anche quella, griffata «Ezra Pound, Rapallo». Su una parete, il calco dei visi del poeta e di Olga Rudge, l’amata, la madre di Mary. Su un tavolo, la copia dell’Ulisse di James Joyce dedicata a Pound. Insieme a Mary, ci accompagna nella discussione la figlia Patrizia. Più tardi, all’uscita, incrocio l’altro figlio, Siegfried, che cavalca la bicicletta manco fosse uno stallone. «Pound qui non stava bene», dice, sibilando, Mary. Dopo dodici anni di reclusione nel manicomio criminale di St. Elizabeths, Washington D.C., nell’estate del 1958, Pound attracca in Italia, a bordo della “Cristoforo Colombo”. Va a stare da Mary e da Boris, nel castello tirolese, vasta solitudine di campi verdi, rocce in picchiata, gelo. «Mio padre è e resta un americano: aveva bisogno di spazio. Qui sentiva freddo. Questi luoghi gli trasmettevano una certa angustia intellettuale. Cominciò a fare il processo a se stesso, visto che non fu mai processato. Si accusava, si interrogava se avesse sbagliato tutto… La gente non può immaginare, ma per sopravvivere nel campo di prigionia a Pisa, prima, e poi al St. Elizabeths, Pound ha dovuto concentrarsi totalmente sul suo lavoro. Altrimenti, sarebbe impazzito». Quelli del ritorno sono anni durissimi per il poeta.  > «Non riconosce più l’Italia che ha lasciato anni prima. Gli crolla > letteralmente il mondo addosso. La morte di Ernest Hemingway e di Hilda > Doolittle nel 1961, quella di E.E. Cummings nel 1962, di William Carlos > Williams nel 1963, di Thomas S. Eliot nel 1965… Pound vede morire tutti i suoi > amici, vede disintegrarsi un’epoca». Mentre Mary parla appaiono e scompaiono nella stanza i volti di quegli uomini che hanno cambiato la letteratura occidentale. Di fianco a Mary si spalanca una nicchia con la biblioteca consultata da Pound. Mi accompagna. I libri sono coperti da una carta trasparente. Estrae alcuni volumi, una storia della Cina antica, in francese. «Nel 1940 Pound pubblica i Cantos LII-LXXI, quelli relativi all’epica cinese e agli scritti di John Adams. Vede, Pound a Rapallo, in quegli anni, non faceva il fascista, studiava…». Che fine ha fatto quel mondo, gli Eliot, i Joyce, gli Hemingway, quella energia? Oggi la cultura è mercanteggio di sciocchezze. «Cosa la stupisce? Dopo l’epoca di Dante sono dovuti passare secoli per avere un Leopardi!». Risposta rotonda. «E poi, io non voglio uscire da questa stanza, sono nel pieno di quell’era, di quegli istanti, lo capisce?». Lo capisco, certo. Anch’io vorrei annegare qui. Ezra e Mary Quest’anno, un ennesimo anniversario poundiano. Il rammarico di Mary si percepisce, vivo come un fuoco, sotto pelle. «Spererei che Mondadori pubblicasse un’edizione economica dei Cantos, per rendere più accessibile l’opera di Pound». Invece niente. «Il problema è che per non incorrere nelle accuse di fascismo bisogna sempre mascherare Pound con un involucro sufficientemente grande. Magari parlarne con altri autori, in contesti più ampi». Quando Mary se ne esce, «vorrei fondare una Repubblica poundiana!», ci zittiamo tutti. Parla piano, con accuratezza. «Pretendo che qualcuno, il governo degli Stati Uniti d’America, un gruppo di Università americane, restituisca a mio padre la personalità giuridica. Dal 1945, quando, senza processo, fu internato al St. Elizabeths, Pound non ha più riavuto i suoi diritti civili: e cos’è un uomo privo di diritti?». Più che l’ira, la rassegnazione colora il viso di Mary, sulle cui spalle grava un secolo di grande letteratura. Gli ultimi anni di Pound replicano il silenzio – «che equivale a una dichiarazione di non-colpevolezza» – opposto in quel 1945 alle autorità americane.  > «Negli ultimi anni mio padre non parlava con nessuno. Una fotografia lo > ritrae, magrissimo, davanti a una rosa. Un articolo di Indro Montanelli, che > in passato non era stato molto gentile con Pound, lo descrive a Venezia, in > un’aula piena di persone, forse un’ambasciata, seduto, che gioca con un > gatto».  L’articolo di Montanelli, Pound, uscì sul “Corriere della Sera” l’11 aprile del 1971. L’episodio ricordato da Mary è raccontato in questo modo dal grande giornalista: > «In salotto, si rimise sul divano al suo posto di esule e risprofondò nella > sua lignea immobilità. Di vivo, c’erano solo le mani, che continuamente si > cercano e auscultano, ma con dolcezza e senza orgasmo. Esse sembravano > esercitare non so quale ipnotico potere su Crim, la gattina siamese di > Liselotte che, accucciata ai suoi piedi, le fissava con le pupille dilatate da > una folle stupefazione. Poi, scalato il sofà con un soffice balzo, cominciò a > leccargliele. E infine vi si raccolse facendone la sua cuccia e reclamandone > la carezza. Per un poco, Pound subì. Subì anche lo sguardo della bestiola che > gli teneva gli occhi negli occhi, unica fra tutti noi a non sentirsene > turbata. Poi la prese delicatamente per la collottola e la rimise accanto a > sé. Ma Crim non si diede per vinta e ricominciò la sua morbida insinuante > ascensione dal cuscino alle ginocchia di Pound e dalle ginocchia alle braccia, > fra le quali si accoccolò. Tutti seguitavano a parlare, ma senza distogliere > lo sguardo da quel muto dialogo – forse un idillio, forse un duello – fra Ezra > e il gatto».   > > (L’articolo è accolto in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e > incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021) Alcuni taccuini mostrano la poesia estrema di Pound, quella dei Drafts and Fragments. Scrittura minima, obliqua, confusa. Orfica. «Oggi finirei i Cantos in un altro modo…». Sono venuto fin quassù per capire questo. Dove finiscono davvero, in quella turba di note dalla grafia oracolare, i Cantos? «Le ipotesi più veritiere sono tre. I Cantos terminano con la frase “ma la bellezza esiste”, che non è confluita nel poema. Oppure con “Un po’ di luce, come un barlume/ ci riconduca allo splendore”. Infine, ed è la fine che preferisco, il capolavoro di Pound si blocca su questo verso: let the wind speak, lascia che parli il vento». Il poeta, a quel punto, non ha più verbo né voce: è realizzato. *In copertina: Ezra e Homer Pound insieme a Mary  L'articolo “Ci riconduca allo splendore”. Alla ricerca di Ezra Pound. Ovvero, in gita da Mary proviene da Pangea.
July 9, 2025 / Pangea
“La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di Ezra Pound
Due anniversari poundiani ci ‘obbligano’ a rileggere il poeta-totem del secolo. Il primo è sul bivio della tragedia: ottant’anni fa – era il maggio del 1945 – Pound viene arrestato con l’accusa di alto tradimento, recluso in un campo, a Pisa, in durissime condizioni. In giugno subisce diverse visite psichiatriche; sarà poi scortato nel reclusorio militare di St. Elizabeths, Washington DC. D’altro stampo il secondo anniversario: il 9 luglio Mary de Rachewiltz compie cento anni. La figlia – nata dall’unione di Pound con la violinista Olga Rudge – ha dedicato la vita alla divulgazione e alla traduzione delle opere del padre, custodendone il carisma. Una mostra, allestita presso il Palais Mamming di Merano, “Mary’s Dream. Portrait of a Lady”, ne riassume l’esistere, a suo modo rude – e regale. In memoria di Ezra Pound, l’ultimo numero di “Studi Cattolici”, la rivista di Ares – tra i rari, integerrimi editori ‘poundiani’ in Italia – dedica un “Quaderno” speciale da cui abbiamo estratto lo studio di Alessandro Rivali, già autore del libro-intervista “Ho cercato di scrivere Paradiso. Ezra Pound nelle parole della figlia” (Mondadori, 2018). Il fascicolo è arricchito da materiali poundiani inediti tratti dall’archivio di Cesare Cavalleri; è trascritta inoltre una lettera di Pound alla figlia dalla prigione di Pisa il 19 ottobre del 1945, di particolare bellezza, a liceità di un ‘compito’: “sei autorizzata a curare il mio ms [manoscritto] ma non voglio che tu venga sommersa, preferirei piuttosto che tu scriva dieci pagine per conto tuo invece di curarne un centinaio. Ok per un lavoro di dieci anni nel tuo tempo libero, ma attenta a non affondare in un lavoro accademico”.  ** Ottant’anni fa – era il 3 maggio del 1945 – iniziò la prigionia del poeta Ezra Pound (1887-1972). Sulle sue spalle pesava la gravissima accusa di tradimento, per aver parlato – da cittadino statunitense – ai microfoni della Radio Fascista1. Dopo i primi interrogatori, relativamente tranquilli, a Genova, presso il Centro del controspionaggio americano distaccato presso la 92ª Divisione Usa, il 25 maggio il poeta fu portato al campo di reclusione e rieducazione per soldati americani costruito nel comune di Metato, a nord di Pisa. Qui, Pound fu rinchiuso in una gabbia non troppo diversa da quelle che abbiamo visto nei servizi tv dedicati alla prigione di Guantanamo. Esposto al sole cocente di giorno e alla luce dei riflettori di notte, in uno spazio ristrettissimo e senza ripari, incerto sulla sua condizione futura, che avrebbe potuto anche condurlo sulla sedia elettrica, il poeta pensò – come mi confidò la figlia Mary – al suicidio, forse tagliandosi i polsi con il reticolato con cui era stata rinforzata la sua gabbia. Il 18 giugno Pound patì un collasso nervoso dovuto all’asprezza della detenzione, e di conseguenza gli furono concesse condizioni mitigate nell’infermeria del campo.  In queste circostanze così drammatiche il poeta continuò a scrivere quei Cantos che nel suo intento dovevano essere il Grande poema americano e a cui si era dedicato anima e corpo dagli anni della Prima guerra mondiale (i primi tre canti, poi completamente rivisti, uscirono su Poetry nel 1917).  I canti nati dalla prigionia di Pisa – i famosi Pisan Cantos, vincitori del prestigioso Premio Bollingen del 1949 – sono forse il momento più alto e commosso della multiforme avventura poetica di Pound. Sono il personalissimo “Purgatorio” di un uomo su cui «il sole è tramontato», che scopre che «la carità più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole», che si sente un «cane bastonato sotto la grandine» e che comprende che «chi ha trascorso un mese nelle celle della morte / non crede più alla pena capitale / Dopo un mese nelle celle della morte un uomo / non ammetterà gabbie per belve». Nel suo Commento ai Cantos, in appendice all’edizione del ‘Meridiano’ Mondadori, la figlia Mary scriverà dei Pisani: «Si possono considerare anche un testamento, un addio agli amici e un’autobiografia degli affetti». Pound nel campo di Pisa scrive sull’improvvisato materiale che ha a disposizione, fosse pure un lembo di carta igienica (se ne può vedere uno in foto nell’edizione New Directions dei Pisan Cantos curata da Richard Sieburth2). Pound diventa uno scriba che ha per appiglio lo scrigno della memoria e per ispirazione la realtà osservabile dalla gabbia. È «sostenuto» dall’apparizione di una lucertola, nota «gli uccelli selvatici [che] mangiavano pane bianco», come «un grillino verde / smeraldo più pallido» a cui «manca la zampina destra», suggerisce perfino a un felino intruso di cambiare le sue abitudini: «Gatto ladro nottambulo lascia stare i miei duri tomi / non è cibo per gatti / se tu fossi più furbo / verresti all’ora dei pasti / quando la carne abbonda / non puoi mangiare i manoscritti né il Confucio / e neppure la Bibbia / fuori da questa scatola di lardo / timbrata W, 11 o o 9 o / che mi fa da guardaroba». E ancora, Pound benedice il vento che «sa di mare» e lo «toglie all’inferno, alla fossa / alla polvere e alla luce accecante». Nei Pisani Pound è la «formica solitaria da un formicaio distrutto» e «dalle rovine dell’Europa» si chiede se rivedrà «le antiche strade», inoltre riavvolge il nastro della memoria fino al giorno in cui lasciò l’America per l’Europa con 80 dollari in tasca e il sogno di diventare poeta. Nel suo “diario di un dolore” dietro i reticolati scriverà alcuni dei più toccanti versi del Novecento, tra cui quelli indimenticabili del Canto 81: «Quello che veramente ami rimane, / il resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua vera eredità». Il primo traduttore dei Pisani fu Alfredo Rizzardi che compendiò bene i motivi portanti dell’opera:  > “Nei Canti pisani la fantasia scopre la memoria, e il suo calore non è più > fuoco fatuo, ma giunge a bruciare. Costante in ogni pagina è la scoperta della > propria vita passata, per cui le figure evocate nel cerchio infiammato della > propria vita passata paiono ancora più reali, più vive di quelle sbiadite, che > lo circondano. Amici. Compagni di giovinezza, figure care: evocate dalla terra > dei morti quasi il Poeta vi avesse posato il piede e a essi parlasse”3.   * I Drafts and Fragments Se i Pisani sono felicemente noti, non si può dire lo stesso per l’ultimo tassello del grande poema incompiuto (o “infinito” secondo la suggestione della figlia Mary) dei Cantos. Quei Drafts and Fragments che in Italia conosciamo in tre edizioni: Scheiwiller (1973, a cura di Mary de Rachewiltz), Guanda (1981, a cura di Carlo Alberto Corsi e Michelangelo Coviello) e quella del ‘Meridiano’ Mondadori preparato sempre da Mary de Rachewiltz nel 1985 per il centenario della nascita di Pound.  Questi ultimi frammenti sono di una bellezza lacerante. Schegge purissime. Bagliori carichi di pietasche segnano il tempo di un uomo al tramonto della vita. Di un uomo che aveva scontato senza processo tredici anni di manicomio criminale a Washington e che, una volta tornato in Italia, correva l’estate del 1958, sognava di dare un “Paradiso” al suo poema. La realtà fu ben diversa, senz’altro più cruda.  Gli anni del “ritorno” non furono facili. Pound era invecchiato, era stato privato della personalità giuridica e affidato alla moglie Dorothy, nominata suo tutore legale, da tanti era considerato un “nemico” dal passato ingombrante, sentiva la mancanza di troppi amici. Eppure, in quel tempo difficile, iniziò gli appunti per l’ultimo tratto del suo lungo viaggio. Iniziò a scrivere a Brunnenburg, il castello di Mary e Boris de Rachewiltz a Tirolo, pochi chilometri sopra Merano, cercando di combattere i demoni che di volta in volta lo tentavano: i rigori del clima, l’isolamento del luogo, la solitudine, lo spaesamento e persino la gelosia delle donne intorno a lui, come avrebbe annotato nel Canto 113. Per il poeta Brunnenburg sarebbe dovuta essere la personale Ezuversity dove accogliere discepoli e amici e continuare a scrivere (come aveva fatto negli anni di reclusione in cui aveva lavorato alle sezioni Rock Drill e Thrones dei Cantos). Invece iniziò il sofferto periodo del tempus tacendi. Resta magnifico il ritratto di Grazia Livi per Epoca tracciato a cinque anni di distanza dal rientro in Italia:  > “La prima cosa che colpisce, in Ezra Pound, è la sua genialità ormai vinta e > naufragante oltre gli illusori confini del mondo. È ancora diritto e solenne > d’aspetto, con la faccia asciutta ornata da una bianca barbetta appuntita, le > mani magre e agili, il gesto da gentiluomo che subito si alza in piedi e offre > la sua poltrona, ma nello stesso tempo si ha la chiara impressione che egli > non appartenga più a sé stesso e che tutti gli elementi della sua persona > siano coordinati fra di loro in maniera puramente fisica, funzionale. L’occhio > è come vitreo e contempla le facce, gli oggetti con una fissità dolorante; la > voce emerge a fatica dal torace stanco a comporre lentissime frasi meditanti; > i piedi immobili sul tappeto, sono calzati di pantofole. Non c’è un libro, > attorno a lui, che testimoni della sua gloria trascorsa: solo un’edizione > parigina dei primi sedici Cantos, pubblicata nel 1925 […]. Questo, infatti, è > Ezra Pound al giorno d’oggi: non un uomo ma un simbolo, che mantiene rapporti > soltanto formali con la vita; non un personaggio, ma una presenza che guarda > alle vicende di questo mondo con animo già liberato, già lontano, già > naufragante nella tragica e illuminata saggezza che precede la fine”4.  Il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano è una miniera di informazioni per gli amanti di Pound, in primis perché custodisce l’archivio Scheiwiller, l’intrepido editore che sostenne sempre il poeta americano, pubblicando nel 1955, tra l’altro, in anteprima mondiale, Section: Rock-Drill 85-95 de los cantares. Nell’archivio è custodita un’interessante lettera di Ugo Dadone (1886-1963), amico di Boris e poliedrica figura di giornalista, viaggiatore e “agente segreto”, che ospitò Pound a Roma nel 1961. Dadone raccontava con preoccupazione a Scheiwiller le difficilissime condizioni del poeta. A suo dire, Pound si sentiva in colpa per aver combinato “guai” a Brunnenburg, era depresso perché non aveva più amici, il suo conto in banca era in passivo e non voleva più pubblicare perché non sarebbe stato comunque pagato; infine, non si sentiva in grado di fare nulla di buono perché non aveva più idee da svolgere.  Era il Pound che l’anno prima aveva scritto a Eliot (15 aprile 1960) dicendo che si sentiva seduto sulle proprie “rovine”: a tale missiva l’autore di The Waste Land rispose con un telegramma: «Tu sei il più grande poeta di sempre. E io devo tutto a te».  * L’iter della pubblicazione degli ultimi Cantos In questo contesto delicato iniziò l’iter che avrebbe rocambolescamente portato alla pubblicazione dei meravigliosi Drafts and Fragments. La figlia Mary parlò di «un crepuscolo con tenerezza e rimpianto e un’affermazione della propria innocenza», mentre Massimo Bacigalupo nel suo indispensabile L’ultimo Poundparlò di «una nuova, sofferta, temperie psicologica»: > “Il Poeta che s’era lasciato allegramente alle spalle la pietra miliare del > Canto 100 senza quasi farci caso e che emerge indenne, “aloof”, cinquanta > pagine innanzi dalle “onde scure” che hanno più d’una volta minacciato di > sommergerlo, sente ora che la sua poesia – e la sua vita – ha i giorni > contati, che il “nemico” – non più l’ossessivo “they” ma l’oscurità, la morte, > e anche un mondo di cultura dal quale egli è escluso – sta guadagnando terreno > da tutte le parti, al punto di invertire le posizioni mantenute nonostante > tutto – in quanto conditio sine qua non dello scrivere – sino a ora”. Nel ricco saggio Hall of Mirrors6 Peter Stoicheff ha ricostruito un periodo di vicenda della pubblicazione di questi ultimi Cantos, pubblicazione che avvenne con un Pound riluttante che non si sentiva pronto per l’ultima revisione e che fin dal 17 ottobre 1959 aveva annotato «la bellezza perduta per mancanza di energia nella mano che scrive»7. Tutto nacque dall’intervista che Donald Hall chiese a Pound per la Paris Review, rivista di cui Hall era allora poetry editor. Si incontrarono per tre giorni a Roma, in via Poliziano, nel tempo in cui Pound era ospite di Dadone. Pound voleva essere pagato per l’intervista e in risposta si sentì dire che si sarebbe potuto fare, ma che l’intervista sarebbe dovuta essere corredata da poesie inedite. Pound propose gli inediti Versi prosaici e alcune lettere inedite a Basil Bunting, ma la proposta venne respinta; la rivista rilanciò per avere un’anteprima di nuovi Cantos. Pound mandò le bozze di sette Canti acconsentendo poi alla pubblicazione dei Canti 115 e 116. Quando James Laughlin, lo storico editore di Pound con le sue New Directions, vide il materiale, scrisse al poeta che aveva letto qualcosa di veramente meraviglioso, erano versi semplicemente «magnifici». Non fu però Laughlin a pubblicare l’ultimo tassello dei Cantos. Fu “bruciato” nel 1967 dall’edizione pirata di Fuck You Press (un nome un programma…) di Ed Sanders, che aveva avuto il materiale “incandescente” da Tom Clark, un ragazzo che stava preparando una tesi sulla struttura dei Cantos e che a sua volta aveva ricevuto i dattiloscritti da Hall. La Fuck Press stampò (o disse di aver stampato…) 300 copie dei Drafts and Fragments che andarono subito a ruba. Per Laughlin si trattò di un’edizione disgustosa, ma fu il volano perché New Directions desse il via all’edizione autorizzata che noi conosciamo. Una curiosità: c’è stato anche uno studioso come Joshua Kotin che si è messo sulle tracce delle 300 copie per cercare di “mapparle” (finora è riuscito a rintracciare il destino di 152 esemplari)8. Una nota a margine. L’intervista di Pound con Hall fu pubblicata nel prezioso Per conoscere Pound9 e offre molti spunti sugli ultimi pensieri del poeta. Pound ricordava come un poeta dovesse avere «una curiosità continua», come l’artista «dovesse continuare a muoversi». Non dissimile il suo consiglio per i giovani. A suo parere andavano incoraggiati a “migliorare la loro curiosità” senza fingere,  > “ma ciò non basta. La pura registrazione del mal di pancia, il solo svuotare > il cestino non basta. Infatti la coppa di ponce degli studenti dell’Università > di Pennsylvania aveva come motto: «Qualsiasi cretino può essere spontaneo»”. Nel corso della conversazione Pound ammetteva le sue difficoltà a concludere i Cantos con un paradiso: >  “È difficile scrivere il paradiso quando tutti i segni superficiali dicono > che dovresti scrivere un’apocalisse. È più facile trovare abitanti per > l’inferno o anche per il purgatorio. Sto cercando di riunire e fissare i più > alti voli della mente…” * La verità sta nella tenerezza Pur con queste drammatiche premesse, gli ultimi frammenti di Pound restano tra i momenti più alti della sua poesia. Sono l’esame di coscienza di un grande dolente all’epilogo della vita. Sono le illuminazioni piene di tenerezza di un uomo che ha inseguito l’arte (rinnovandola) in ogni istante della sua vita. Che ha visto da vicino la bellezza, la morte e la disperazione. È un poeta in cerca di «una quieta dimora», di «un amato e quieto paradiso» e che, come scrive nel Canto 110, riesce a vedere con occhi di «corallo o turchese». È una scrittura difficile, ma allo stesso tempo carica di accensioni ed epifanie. Ritornano i luoghi cari, dalla Liguria a Venezia, gli affetti, gli eletti da inserire nel paradiso (Mozart, Agassiz e Linneo), i versi perfetti segnati dalla lunga confidenza con l’Estremo Oriente: «Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e promontorio. / E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza, / Una luce azzurra sotto le stelle».  È un poeta che, come tutti i grandi poeti, dona sentenze memorabili che racchiudono un mondo: «La verità sta nella tenerezza». Ritorna il tema dell’umiltà, così presente nei Pisani, perché è «un uomo che cerca il bene, / e fa il male», ed è consapevole che «la bellezza non sta nella pazzia / Anche se cocci ed errori miei mi circondano. / E non sono un semidio, / Non riesco a dargli un nesso. / Se in casa l’amore manca, manca tutto».  E, ancora, «Ammettere l’errore e tenere al giusto: / Carità talvolta io l’ebbi, / non riesco a farla fluire. / Un po’ di luce, come un barlume / ci riconduca allo splendore ora».  Un poeta della sensibilità di Giovanni Raboni colse al volo la grandezza di questi frammenti. Nell’introduzione alla bellissima edizione Guanda preparò una memorabile pagina di accompagnamento, in cui tra l’altro affermava:  > “Col passare del tempo, la grandezza della poesia di Pound mi appare sempre > più evidente, solitaria e indimostrabile. A volte ho l’impressione di trovarmi > solo a contemplarla, e mi prende il timore che, a chi me ne chiedesse conto, > non saprei rispondere che con un gesto di rinuncia o una parola di sgomento. > Altre volte, è come se questa grandezza mi fosse stata rivelata in sogno, e il > suo segreto, la sua prova scomparissero, si dissolvessero ogni mattina con > l’avvento della luce… […] Ma ecco, intanto, una buona occasione per rileggere, > e ripensare, Pound: questi stupendi Drafts & Fragments, che… hanno il grande > merito o vantaggio di mostrarci un Pound anche praticamente in bilico e > tensione fra “poema” e “frammento”, fra la drammatica, impossibile ricerca > dell’unità e della compiutezza e l’esaltante vitalità della dispersione, > dell’esplosione, del molteplice. Insomma, un Pound ancora più fortemente e > visibilmente “potenziale” – sino al puro abbozzo, al puro appunto stenografico > –, ancora più vicino del solito a quello stato di energia pura, non incarnata > né incarnabile una volta per tutte, che costituisce la verità più profonda (il > segno – il sogno – più vero) della sua grandezza”. Il parere di Raboni si accorda perfettamente a quanto scrisse Ford Madox Ford per l’opuscolo che accompagnò la pubblicazione americana di XXX Cantos nel 1933:  > “La prima parola da dire sui Cantos è bellezza. E l’ultima sarà bellezza. La > loro straordinaria incomparabile bellezza. Formano una storia del mondo senza > eguali vista da queste coste che sono la culla della nostra civiltà… E una > sola cosa è necessaria alla nostra società più della Storia. Ed è che ci sia > da qualche parte un’opera d’arte o qualcuno che produce un’opera d’arte che > ogni volta che la visiti susciterà infallibilmente in te delle emozioni. > Questo è quanto fanno i Cantos”.  E per avere la misura di questa tersa grandezza forse non c’è modo migliore che riportare alcuni luminosi frammenti della versione finale dei Cantos scelta da Mary de Rachewiltz:  “Ho provato a scrivere il Paradiso non ti muovere, lascia parlare il vento  così è Paradiso Lascia che gli Dei perdonino quel che ho costruito  Chi ho amato cerchi di perdonare  quello che ho costruito  […]  Uomini siate non distruttori”.  Alessandro Rivali 1 Sulla vicenda si veda il recente Luca Gallesi, Ezra Pound a Pisa – Un poeta in prigione, Ares, Milano 2024. Per un inquadramento a tutto tondo degli ultimi anni di Pound: A. David Moody, Ezra Pound: poet, vol. III, The Tragic Years 1939-1972, Oxford University Press, Oxford 2015. 2 New Directions, New York 2003. 3 A. Rizzardi, La maschera e la poesia in Ezra Pound, in Canti Pisani di Ezra Pound, Guanda, Parma 1953, p. XXIII.  4 G. Livi, “Vi parla Ezra Pound: Io so di non sapere nulla”, intervista con Ezra Pound, Epoca, n. 652, 24 marzo 1963, pp. 90-93. 5 M. Bacigalupo, L’ultimo Pound, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1981, p. 525. 6 P. Stoicheff, The Hall of Mirrors: “Drafts & Fragments” and the End of Ezra Pound’s “Cantos”, University of Michigan Press, Michigan 1995.  7 Commento a Stesure e frammenti dei Cantos CX-CXVII, in E. Pound, I Cantos, a cura di Mary de Rachewiltz, Meridiani Mondadori, Milano 1985, p. 1629. 8 Sulla vicenda, l’articolo dello stesso J. Kotin “The Fuck You Press Cantos: A Census”, realitystudio.org/bibliographic-bunker/fuck-you-press-archive/the-fuck-you-press-cantos-a-census/ 9 A cura di Mary de Rachewiltz, con un saggio introduttivo di M.L. Ardizzone, Mondadori, Milano 1989. L'articolo “La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di Ezra Pound proviene da Pangea.
July 3, 2025 / Pangea
In memoria di due amici (e dell’incontro mistico tra Dante e Ezra Pound)
Gli editori hanno avuto un’indubbia influenza sulla mia vita, in un modo o nell’altro. A Milano, molti anni fa – e sono davvero molti – mi ritrovai a cena con due amici e un alto funzionario della narrativa Mondadori. Questi amici che intendo ricordare erano lo storico del cristianesimo Remo Cacitti e l’editore Mario Guaraldi. L’uso dell’imperfetto è d’obbligo, poiché Remo è passato dal tempo all’eterno il 3 marzo 2023, Mario ha intrapreso lo stesso viaggio lo scorso 2 febbraio.   A quella sorta di convivio pensavo lo scorso 2 febbraio viaggiando verso Rimini, dove il più lungimirante editore che io abbia conosciuto, Mario Guaraldi, stava morendo. Di lui scrisse allora Davide Brullo qui su Pangea. Non mi soffermerò quindi su ciò che è già stato scritto, e “con miglior plettro”. Ricorderò solo qualcosa di quell’episodio dove Remo e Mario si incontrarono per la prima ed ultima volta, poiché in seguito non ci sarebbe stata un’altra occasione.  Quella sera io avevo letteralmente le ore contate, nel senso che dovevo fare rientro da una certa licenza (niente affatto poetica!) entro la mezzanotte, come Cenerentolo, poiché a quell’ora finiva l’incantesimo della libertà. Si parlò di molte cose, ed io, come al solito, più che alto rimasi ad ascoltare. Ma ad un certo punto si fece il nome di Tolstoj, e qui trovai la forza di vincere la timidezza. Parlai di Guerra e Pace, che avevo letto e riletto, in vari momenti della mia vita, persino in francese e in inglese (conservo le edizioni Gallimard e Collins), non avendo potuto leggerlo in originale. E, in particolare, mi venne in mente e parlai di quelle che stimo alcune tra le più ispirate pagine della letteratura universale: quelle della morte del principe Andrej. Pagine che – chiunque le abbia lette – difficilmente può dimenticare. Ricordate, lettori? Ferito nella battaglia di Borodino, il principe Andrej Bolkonskij viene trasportato via da Mosca e una notte, in una isba, mentre la sua amata e ritrovata Natascia lo veglia al lume di candela, in apparenza concentrata a far la calza, egli si assopisce e sogna. Sogna una “cosa” che vuole entrare nella stanza, e lui che la teme, però si sente impotente di fronte ad essa.  Scende giù dal letto e striscia sino alla porta e cerca di impedirglielo. Ma “quella cosa” sembra onnipotente mentre l’energia vitale del principe Andrej è al lumicino. Così la porta cede alla forza e “quella cosa” entra nella stanza e si disvela: è la morte. Ma in quello stesso istante, il principe Andrej apre gli occhi e intuisce che la morte è un risveglio.  Voglia Dio che lo stesso sia accaduto alle anime generose di Remo e Mario. Ricordo che quella sera milanese l’editore Guaraldi sfogliava un post-libro che aveva pubblicato col titolo Due viaggi di Ulisse. Conteneva un mio breve racconto seguito dalle due versioni del viaggio: Pound che omaggia Dante col XXVI canto dell’Inferno, dopodiché questi gli recita la versione contenuta nei Cantos. Mario aveva voluto dedicare questo reciproco riconoscimento poetico, non solo immaginario, alla figlia di Pound: > “Si ringrazia Mary de Rachewiltz per essere stata al gioco di questo ideale > dialogo fra Dante e Pound”. L’alto funzionario intanto sembrava sorpreso (glielo leggevo nello sguardo) che uno con la mia storia, un “ex combattente e reduce” della sinistra più guerrigliera e sinistrata, potesse provare empatia per uno scrittore che – di certo a sua insaputa (!) – era diventato l’icona dei buzzurri di Casa Pound. Mario mi liberò dall’imbarazzo dicendo che io i Cantos li avevo letti e apprezzati per davvero e che Mary de Rachewiltz non vedeva l’ora di liberare il nome del padre incatenato in quella casa di tortura. (A tal fine, anni dopo Mary de Rachewiltz avrebbe intentato persino una causa legale.) Remo Cacitti intervenne ricordando un memorabile incontro che Pier Paolo Pasolini aveva avuto nel 1968 a Venezia col grande vecchio e poeta maledetto.  Qui concludo il mio breve ricordo di quel convivio con i miei amici con poche righe tratte dai Due viaggi di Ulisse. > “Quando lo spirito di Ezra Pound dalla bella Venezia giunse al Limbo, qualcuno > in cielo sentì una fitta all’anima. Era il suo pupillo T. S. Eliot, che in > vita mortale gli aveva dedicato il poema La Terra Desolata: ‘Al miglior > fabbro!’ Allora costui si alzò dal suo posto nella Rosa paradisiaca e si mise > a girare tra gli altri beati con una petizione il favore dell’antico maestro. > > Anche Dante era pronto a firmare. Ma quando T. S. Eliot gli fu davanti rimase > con la penna d’angelo sospesa in un dubbio, o forse era soltanto il desiderio > di conoscere l’autore dei Cantos di Babele, prima di firmare per la salvezza > della sua anima. Così decise e così si accinse a fare, dopo aver pregato > l’Autore della vita affinché gli permettesse di lasciare il suo scranno per > ritornare un poco nel Limbo dei sospiri. Poi che gli fu concesso, già esperto > della strada in breve si ritrovò fra le tenebre dell’Inferno, nel primo > cerchio: vide subito la ‘ghianda di luce’ dov’erano gli spiriti magni. Pound > si aggirava nel settore orientale come Alice nel Paese delle meraviglie, a > fare la conoscenza dei ricchi di scienza e arte…” Enzo Fontana L'articolo In memoria di due amici (e dell’incontro mistico tra Dante e Ezra Pound) proviene da Pangea.
April 22, 2025 / Pangea