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“Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po
La produzione letteraria (e non solo) di Gian Ruggero Manzoni è delle più variegate e peculiari. Leggendone i libri, seguendone il percorso artistico (almeno di questi anni) ci si accorge facilmente di quanto l’autore abbia un piede nel presente e un piede in un passato remotissimo. Manzoni lo vedo un po’ così, attuale e allo stesso tempo antico, mentre paziente fila una tela che ricongiunge il presente con gli albori dell’umanità.  Dopo un libro come Dialoghi infami (Medusa, 2024), tremendamente macchiato dalla contemporaneità, con Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo, 2024) facciamo un balzo indietro di millenni (come già aveva compiuto con Ultramodum), all’origine della vicenda umana, quando ancora non era Storia, sulle orme di sciamani che camminano sul sottile confine tra questo mondo e l’altro (o gli altri), fra religione e magia. Il libro raccoglie una serie di prose poetiche e disegni, suddivise in quattro sezioni: Nel lento movimento dei ghiacci, Sciamani, La quarta moira, La rinuncia. Mi domando se non stia tutto qui il senso della ricerca artistica, della scrittura come del disegno: ritrovare il filo di un discorso incominciato migliaia di anni fa e che abbiamo perso lungo la strada, ritrovare la magia di cui è ancora intrisa la realtà sotto tonnellate di cemento. Artista, poeta, scrittore; traduci e interroghi testi sacri e mercenari sanguinari: ti senti anche tu un po’ sciamano? A un recente Festival Internationnal des Traditions et Spiritualites Ancestrales et du Chamanisme, tenutosi in una vallata nei pressi di Reims, in Francia, confrontandomi con sciamani e sciamane riconosciuti quali Abdellah e Gnawa Akharraz, Vera Sakhina, Ayangat, Anja Normann, Frederic Roure, Bhola Nath Banstola, Tiegniery Diarra, Baruch Osorno, Domi Farinelli, sono stato riconosciuto, da loro, quale sciamano a mia volta… sciamano della parola, non celebrativo, cioè non operante tramite danze o gesti propiziatori, ma quale “guaritore”, così mi hanno definito, per mezzo della parola, ed “evocatore”, sempre tramite il suono che conteniamo, di entità superiori. Comunque già mia nonna Olimpia, a sua volta sciamana romagnola, mi aveva riconosciuto e, a suo tempo, mi passò il dono. Inoltre ogni buon poeta o artista o musicista è infine uno sciamano se opera per il bene e il bello, e se sempre rispettoso delle “anime naturali”.   Quale legame persiste fra l’uomo di oggi e quello che vestiva le pelli di mammut e interrogava il fato seguendo il volo degli uccelli? Sono lo stesso uomo unicamente in tempi diversi. Tutte le massime domande sono ancora sul tavolo prive di risposta, quindi nulla sapeva del cosmo e di sé l’uomo primitivo e nulla sappiamo di noi e del cosmo… o, meglio, della dimensione che ci contiene e che conteniamo… noi umani del XXI° secolo. Giusto sappiamo che un giorno moriremo e che la Terra è tonda e ruota attorno al Sole, mentre la Luna ruota attorno alla Terra, poi stop, che altro si sa? Dimenticavo, ancora molti continuano a credere che la Terra sia piatta… e detto ciò non resta che sorridere riguardo la nostra attuale condizione.  “La magia appare incredibile solo perché è l’evento più naturale e quotidiano che ci sia”. “Ciò che è stato creato è magia, e lo sciamano non è che l’indagatore dell’indagine”. Ma cos’è la magia? Credendo in un divino generatore, creatore e demiurgo, credo anche che esistano esseri umani e animali e piante che riescono a metterci in contatto con altre dimensioni. La magia è la capacità di proiettarti o proiettare un altro essere in universi paralleli, come sostengono le varie Teorie del Multiverso, così, scientificamente, oggi vengono appellate, mentre arcaicamente avevano e ancora hanno altri nomi. La magia è entrare in esse e giungere a vibrare come le stesse, fino alla scoperta della propria “nota armonica”, come la definiva il teosofo, pedagogista, filosofo, esoterista austriaco Rudolf Steiner. Il sommo Guido Ceronetti giustamente scriveva nel suo Il silenzio del corpo, un libro che consiglio:  > “La fame di magico è più che legittima, il rischio è, sempre, che il malvagio > destino la orienti, per sfogarla, sulla stella del male. Ma di magia buona c’è > oggi molto più bisogno che di medicina buona”. Quando osserviamo una civiltà arcaica (anche quella più vicina a noi, come quella contadina) con i suoi riti, ci appare come in balia delle superstizioni, eppure era una civiltà più solida della nostra. Siamo oggi, più di allora, vittime di superstizioni? Direi che il “rito del consumo” sia la superstizione più nefanda che oggi ci possa essere, idem la “messa del denaro”, paragonabile ad ogni “messa nera”. Tutto ciò che oggi divide e rende predatori risulta quale attuale superstizione, ciò che invece unisce è ‘savietà’, saggezza, buon senso, cultura base, consapevolezza, massima osservazione, “antica credenza popolare”, compenetrazione, quindi passata e accettabile superstizione. Sì, un tempo, anche noi Occidentali, oggi definiti evoluti, emancipati, civili, tramite l’attenzione persistente riuscivamo a compenetrare la materia e il mistero così come l’altro o l’altra da sé, al punto di partorire modi di dire valevoli ovunque atemporalmente. Quindi necessita suddividere la superstizione, come poi la magia, in bianca o nera. Su ciò che oggi definiamo idolatria o, peggio, ignoranza, un tempo si sono costruiti imperi, ma l’antica superstizione era troppo attinente al destino e allo stare attenti ai “segni” per poterla definire volgarmente ubbia. I “segni” e la capacità di interpretarli sono da considerarsi come le tracce lasciate sul suolo che i pellerossa riuscivano a leggere. L’interpretazione dei “segni” e delle atmosfere era l’arcaica buona, benevola, accrescente superstizione.  Questo lento movimento dei ghiacci, questo andare alla deriva, rappresenta un po’ la tua idea dell’umanità oggi. In alcuni passaggi sembri suggerire una fratellanza umana originaria perduta, ormai scaduta in uno “scontro tra simboli che, nell’errore, si leggono avversi… si disegnano quali contrari, di sanguinari eccessi o di ecatombi, oppure di massacri”. È una fratellanza recuperabile? Sì, la lenta deriva dei freddi… dei gelidi ghiacci è il nostro attuale andare. Mai gli uomini sono stati fratelli per sangue, quanto, invece, fratelli per idea, per idealità, quindi per fede, perciò uniti anche se non si è stati scaturiti dalla medesima carne. Gli ovuli e l’utero che rendono non solo fratelli ma gemelli si chiamano: credo comune, comune rappresentazione mentale, comune opinione, convinzione comune, sentire comune, spirito comune, volontà comune, divinità comune, comune magia. Nell’oggi l’Occidente ha perduto quei valori fondamentali che ho pocanzi elencato. Siamo molto… troppo lontani gli uni dagli altri. Crollata una memoria comune, così che nascessero infinite memorie, ecco che la frammentazione… la polverizzazione disintegra ogni possibile verità comune, o, meglio ancora, ogni comune verità.  La quarta moira, cioè il nulla, l’assenza di prima e dopo, la fine della fine, domina una parte centrale del libro. Qual è il tuo rapporto con la morte e con ciò che viene (se viene) dopo? Sono solito dire che i miei genitori più che vivere mi hanno insegnato il come morire con estrema dignità, sacralità, coraggio e spiritualità. Il senso di morte ha sempre aleggiato a casa mia, ma non in accezione cupa, oscura, deprimente, scoraggiante, quanto come persistente preparazione alla stessa. Ogni attimo può essere l’ultimo e per quell’ultimo necessita essere pronti. Infine la mia esistenza, finora, è stata un persistente apprestamento alla morte, con tutto quello che ne consegue, quale prima componente il cercare di vivere… sì, di vivere ogni attimo come appunto fosse l’ultimo. Ciò che di noi resta, così come ciò che di questo universo resterà, non sarà neppure un punto su di una mappa ampia quanto la potenza dell’inesprimibile. Il mio e il nostro nulla è il saper morire quindi il saper vivere in quell’inesprimibile. A tal proposito tanto mi fu caro quello strabiliante scritto titolato, in italiano, La Lettera di Lord Chandos, in tedesco “Ein Brief”, del grande Hugo von Hofmannsthal. Valerio Ragazzini ** Brani tratti da Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo) di Gian Ruggero Manzoni Ogni dimensione ride attorno a me, e mai mi priverò di quello che la mia fede dona. Un sorriso è il Cristo, mai un atto d’accusa. Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana. È ancora un antico sogno che riconduce alla mia terra d’origine, a quell’arcaico intrico di rami, rovi, edera, canne, alghe palustri. È nella natura aspra della mia gente che saldo la tragedia, ma anche l’elevazione, del nostro destino di eterni immaturi. Che gioia! Che ritrovata incoscienza pudica! Forse che l’Età dell’Oro dimori in un colpo di zappa o nel tergersi la fronte dal sudore? La genuinità perduta solca ancora la palude. Nulla è scomparso. Tutto è ancora lì, se apri gli occhi di tua madre, e, del padre, se indossi gli stivali di gomma e i pantaloni di velluto. * Mi diceva un filosofo e musicista di Praga: “La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo”; la stessa accusa fu di mia nonna, indagatrice di segni e di premonizioni sulla corteccia degli olmi o dei pioppi padani. Lei mai volle salire in auto, se non il giorno che la portarono all’ospedale dove le diagnosticarono che entro un mese sarebbe morta e che si preparasse a salpare. Al che si fece riportare nel suo letto (posto al centro della nostra casa), accese la candela che aveva sul comodino, recitò le orazioni e si spense con l’ultima goccia di cera scivolata… mentre le api, riunitesi, con lei migrarono in un’altra chiesa dimenticata… su di un altro altare. * Al che si disse che oltre la velocità della luce, pur sempre relativa, non si può andare, visto che non esiste alcun modo di accelerare una spinta fin oltre i 300.000 chilometri al secondo, se non fornendo un’energia che risulti al di là dell’estremo, quindi ardua, impossibile, lontana da noi, inavvicinabile, cattiva e infinita, non certo piccola giostra che tramite il calore muove pale, vele, seggiolini, camei, sputando sulle madri che glabre ammirano con facce ebeti i loro figli… privi di futuro, carne già morta, di già polvere, di già rutto di un mulinello di cielo, o coda gelida di uno spegnersi sia di stelle che d’illusioni… che di risorse… che di fermenti… che di fittizie occasioni. * L’11 maggio del 1872 il cielo d’Europa venne ammutolito da una pioggia di meteore in fiamme che cessarono in una nuvola di cenere che avvolse per giorni animali da latte, neonati, baldracche, lumache e api, poi connestabili, carabinieri, netturbini, scava pozzi, e pur anche cani e aironi, quale benedizione di me demone che per non molto custodirò l’equilibrio dei corpi astrali, così che lei, la gran signora, nella gravità copuli col marito mentre, gli ultimi gemiti, siano dell’amante, poi dell’amante, e dell’amante ancora, nella perduranza di una sterile ginnastica, frutto di una Gomorra petulante e allucinata, incensata dallo sperma di un toro che annaffia probi e tagliagole, avvocati, notai, banchieri, i quali si riconoscono fra loro tramite anelli ai lobi, occhi truccati, turbanti e gemme, cinismo, volgarità e nessuna carità parziale, cristiana, o chissà dove e come, la stessa, sia nata e possa custodire un valore ultraumano o solo menzogne, o sterili sermoni. *In copertina e nel testo, alcune opere di Gian Ruggero Manzoni L'articolo “Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po proviene da Pangea.
April 16, 2025 / Pangea
“Un uomo uguale a un altro”. L’eterno tema del doppio: da Dostoevskij e Saramago a “Twin Peaks”
> «E questo tema del doppio, questo tema amato e variato, delibato e citato, > fosse una maschera di comodo per il vero tema: del triplo, del quintuplo, del > millesimo e via?». > > (M. Mari, Locus Desperatus, Einaudi, 2024) In questo breve passaggio il protagonista di Locus desperatus di Michele Mari ci riporta alla ricorrente paura del doppio, fino alle estreme conseguenze di una riproduzione seriale, forse infinita dell’essere umano. Il tema del doppio, del sosia, del gemello malvagio, del doppelgänger uscito da qualche dimensione parallela, da qualche Loggia Nera, è un tema su cui si è scritto moltissimo (per uno studio significativo, si veda O. Rank, Il doppio, SE, Milano, 2001). Incarna forse una paura atavica dell’uomo moderno, così ossessionato dalla propria individualità, dal suo essere unico e irripetibile, che inevitabilmente compare una figura identica in tutto e per tutto, ma con scopi spesso ignominiosi, partorita dalla mente o da un luogo oscuro, pronta a sottrargli proprio questa unicità. Immagini riflesse nello specchio che si staccano e vanno per la loro strada; la propria ombra venduta al diavolo che torna per prendere il nostro posto; l’uomo nero di Esenin, riflesso dello specchio, che si accosta al letto del poeta per torturarlo nelle ore notturne: da E. A. T. Hoffmann fino a David Lynch, ci rendiamo conto che non si tratta di una tematica unicamente letteraria; nonostante si tratti di una fantasia, anche se del tutto improbabile che questo capiti nella realtà, l’apparizione di un altro uguale a noi rappresenta forse la più grande delle paure dell’uomo moderno fino ai giorni nostri, e l’idea che l’altro si nasconda proprio dentro noi stessi rende il tutto ancora più inquietante. Se questo tema viene periodicamente riproposto in differenti chiavi, è per via dell’abitudine che ha l’uomo di torturarsi mettendo in scena le proprie paure al fine di esorcizzarle. Si può dire che l’uomo, spinto da una morbosa curiosità, goda nel gettare uno sguardo nell’abisso, almeno finché dal fondo non emerge un altro se stesso, uguale in tutto e per tutto. Il più grande libro su questa tematica è probabilmente Il sosia di Dostoevskij. In questo racconto seguiamo la vicenda del burocrate Goliadkin che, fin dalle prime pagine, stenta a esistere.Quest’uomo si vergogna di tutto, in particolare della sua presenza; vive in modo appartato, mai in vista; quando noleggia una carrozza per fare bella figura si vergogna se qualche conoscente lo riconosce; pensa di essere un uomo onesto e di agire onestamente, ma è il più malizioso di tutti; è ossessionato da ciò che gli altri pensano o dicono sul suo conto; spesso si lascia andare a fantasticazioni a tal punto contorte e articolate da materializzarsi davanti ai suoi occhi, tanto da credere in una fitta cospirazione ordita ai suoi danni, così machiavellica da prevedere l’uso sfacciato di un suo sosia reperito chissà dove. Anche se per tutto il racconto Goliadkin lotterà con le sue forze (davvero esigue e inconcludenti, a dire il vero) contro questo sosia malvagio, è stato lui in primis a rinnegare se stesso, a non voler essere riconosciuto; e tale opera di estraniamento giunge al culmine dopo l’ennesimo momento di profondo imbarazzo in società, dopo essersi intrufolato a un ballo al quale era stato rifiutato, e quindi ricacciato via in malo modo. Questo sosia si insinua nella sua vita timidamente, come un possibile alleato, ma ben presto rivela la sua natura malvagia. Esso incarna tutte quelle caratteristiche che Goliadkin disprezza negli altri: il doppiogiochismo, la natura adulatoria, l’oscenità dei modi, ecc. E grazie a queste sue “doti” riesce più simpatico ai superiori e agli amici di Goliadkin, tanto da prenderne progressivamente il posto. In un certo senso, la mente di Goliadkin sembra aver partorito questo sosia malvagio per giustificare il suo rigetto dalla società: in parole povere, se loro non mi vogliono, è perché io sono un uomo onesto, mentre la buona società ammette solo persone false e arriviste. Goliadkin è ben più di un semplice nevrotico che naufraga nella follia, è il prototipo dell’uomo del sottosuolo: egli odia la società, ma allo stesso tempo odia esserne escluso. Il sosia è un vincente, possiede tutte quelle viscide caratteristiche che gli possono garantire il successo e di cui Goliadkin è sprovvisto. Infatti l’originale accusa la sua copia di volergli rubare il posto, ma lui, quel posto, non ce l’ha e mai lo potrà avere. Non gli spetta. Diremo di più: tutta la vicenda è lo stesso Goliadkin a portarla avanti, in più occasioni si ripromette di far finta di niente, di lasciare che le cose facciano il loro corso, di continuare la sua vita rettamente, ma non ci riesce. Sono cose che capitano, capita di avere un sosia, non c’è niente di male, si ripete; ma qualcosa di male c’è eccome, perché non si tratta di un sosia, ma di una parte di sé. Insiste nel dirsi una persona onesta, “Pulito, retto, lavato, piacevole, senza rancore…”, ma è colpevole di vedere il male in ogni persona che lo circonda, dall’umile servitore al capo del suo dipartimento. Ai suoi occhi, straccioni e Eccellenze, amici e nemici, fanno tutti parte dello stesso liquame che trama alle sue spalle. Dostoevskij sembra suggerirci che la natura stessa dell’uomo è duplice, fondata su bene e male.Goliadkin, avendo la presunzione di mostrarsi per quello che è, in tutta la sua sincerità, perde la sua maschera, gli si stacca letteralmente di dosso e incomincia una vita propria (come fece a suo tempo il naso di Gogol’). Forse perché è la società stessa, con i suoi inganni, le sue riverenze, le sue meschinità, a esigere che gli individui indossino una maschera.  Ma diremo di più: Dostoevskij lascia intendere che vedere il marcio in ogni cosa credendosi senza peccato, porta verso il baratro, a perdere se stessi. Non riconoscere la propria fragilità, le proprie debolezze, porta l’uomo a credersi un dio e quindi a perdersi. Un altro grande esempio è quello offertoci da Saramago: in una Lisbona contemporanea e affollatissima, dai tratti meno cupi della San Pietroburgo innevata di metà Ottocento, ambienta il suo dramma sul sosia con L’uomo duplicato. Qui non ci troviamo di fronte alla paranoia di un uomo meschino che sfocia nella follia, ma di un fatto, se non reale, verosimile. Seguiamo l’esistenza di un professore di storia dal non comune nome di Tertulliano Maximo Afonso, il quale conduce una vita grigia e inespressiva; a dare una svolta a questa quotidianità è una scoperta sconcertante: in un film per nulla famoso, di quelli a scarso budget, scorge un uomo del tutto identico a lui. È una comparsa, o fa piccole particine, ma è uguale a lui. Incomincia così una forsennata caccia all’uomo (all’uomo uguale a sé) in mezzo a milioni di individui.  Anche in questo caso salta subito agli occhi la futilità del tutto, perché una volta rintracciato quell’uomo completamente identico tranne che nel nome, non sa bene cosa fare. Una volta scoperta l’esistenza di un doppio, che però non si conosce, cosa impedisce al protagonista di continuare la sua vita come prima? Perché deve assolutamente trovarlo e parlargli? E per dirgli cosa? La scoperta di un sosia è una cosa senza senso che però rende la vita di prima insensata, invivibile. Dirà che lo ha voluto rintracciare per semplice curiosità, ma allo stesso tempo qualcosa di minaccioso si insinua fra i due uomini uguali. Nascono pensieri morbosi e ossessivi, come quelli sulla morte:  > “Un uomo uguale a un altro, che importanza ha, se vuole che glielo dica > francamente, l’unica cosa che in questo momento mi preoccupa per davvero è se, > visto che siamo nati nello stesso giorno, in uno stesso giorno moriremo pure > […]”. In una brulicante metropoli contemporanea, la presenza di un sosia blocca la vita di un uomo; non può esserci un altro come me, non deve esserci. Possono esistere milioni di persone, miliardi, ma la presenza di qualcuno col nostro stesso volto è inammissibile. Saramago mette così in scena l’ossessione per i corpi, in particolare per il vuoto che li abita. Corpi che possono essere riempiti con un altro spirito, un’altra vita, a piacimento. Corpi intercambiabili perché contengono spiriti scialbi, grigi e del tutto simili, ugualmente meschini. Se questi spiriti non fossero così aridi, verrebbe da pensare, avrebbero le qualità necessarie per accettare un simile scherzo della natura, girarsi dall’altra parte e passare oltre, ma non ci riescono, perché posseduti dalla stessa smania di unicità delle loro fattezze. Come il protagonista, anche il sosia incomincerà a sentire la necessità di un confronto, di mettersi di fronte a questo essere uguale, anche lui per curiosità, dice, ma finendo investito dal panico generato dalla perdita dell’unica cosa che per loro conta: l’esteriorità. Ma tanto in Dostoevskij quanto in Saramago, la paura del sosia non si limita solo al caso specifico, ma nasconde infine una paura più raccapricciante: se ne esiste uno uguale a me, perché non potrebbero essercene molti altri? > “…a ogni battere del suo piede sul granito del marciapiede, saltava fuori come > di sotto terra un altro uomo, identico, esattamente simile al signor Goliadkin > ma repugnante per depravazione di cuore. E tutti costoro, copie conformi, > subito, al loro comparire, si mettevano a correre uno dietro l’altro e, come > una fila di oche, si snodavano in lunga catena arrancando dietro il signor > Goliadkin senior, sicché non c’era modo di sfuggire a quelle copie, e al > signor Goliadkin, degno del tutto di comprensione, mancava il fiato per il > terrore… e alla fine comparve una paurosa moltitudine di copie perfette, tanto > che tutta la capitale pullulava di queste copie”. > > (F. Dostoevskij, Il sosia) Valerio Ragazzini *In copertina: René Magritte, La reproduction interdite, 1937 L'articolo “Un uomo uguale a un altro”. L’eterno tema del doppio: da Dostoevskij e Saramago a “Twin Peaks” proviene da Pangea.
April 3, 2025 / Pangea