Costantino Kavafis è il poeta di paradossi. Il primo e principale è che un
giovane privo di formazione scolastica grecofona e mai vissuto in Grecia, sia
diventato uno dei maggiori poeti greci del Novecento. Il suo greco era quello di
un autodidatta, che non di rado faceva errori di ortografia sconcertanti. Il
secondo paradosso è che Kavafis non ha mai pubblicato una raccolta di versi in
vita. La prima è uscita postuma, nel 1935, due anni dopo la sua morte. Le
sporadiche pubblicazioni su riviste provinciali e di scarsa circolazione gli
erano valse in Grecia lazzi e derisioni a causa della sua omosessualità.
Kavafis nasce ad Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863, ultimo di nove figli di
Petros e Charìklia Fotiadi, esponenti di importanti famiglie aristocratiche
(Fanarioti) di Costantinopoli, ricchi titolari di un’azienda di import-export
con succursali in Inghilterra. Due anni dopo la morte di Petros, nell’agosto
1870, Charìklia e i figli si trasferiscono a Liverpool e a Londra. Nel 1876
l’impresa di famiglia fallisce; l’anno seguente, via Parigi e Marsiglia, i
Kavafis tornano ad Alessandria, dove Costantino si iscrive al liceo commerciale.
Nel 1882, in seguito a gravi scontri tra il partito nazionalista e gli occupanti
britannici (l’Egitto è un loro protettorato), in cui rimane distrutta la casa di
famiglia, Charìklia e i figli più giovani riparano a Costantinopoli – all’epoca
capitale dell’impero ottomano –, dove rimangono fino al 1885. È in questo
periodo che Costantino comincia a scrivere versi e ad avere le prime esperienze
omosessuali. Sempre nel 1885, a 22 anni, ritorna ad Alessandria, dove risiederà
fino alla morte, avvenuta il 29 aprile 1933, giorno del suo settantesimo
compleanno.
Si dedica allo studio e al lavoro, collabora con diversi giornali, frequenta la
Borsa come agente di cambio (occupazione che mantiene fino al 1902) e
approfondisce la conoscenza della letteratura greca e bizantina, nonché di
quella francese e inglese. Nel 1892 viene assunto come impiegato part time
nell’Ufficio irrigazioni del ministero dei Lavori pubblici di Alessandria, dove
si fa apprezzare per le sue conoscenze linguistiche (parla inglese, greco,
francese, arabo e un po’ d’italiano, oltre alle lingue classiche). Manterrà
l’impiego fino alla pensione, nel 1922, anno della catastrofe greca in Asia
Minore.
Una delle definizioni più pertinenti della poesia di Kavafis è forse quella del
suo traduttore francese, il poeta Dominique Grandmont. Poiché la verità non è
mai quella che ci narrano i vincitori, occorre interessarsi ai personaggi
ignorati dalla Storia, a piccoli commercianti, nobili dissoluti o assassinati,
generali traditi o dignitari esiliati; occorre prendere in esame non la cultura
“emblematica”, ma gli eventi occulti, determinanti e per questo cancellati. È
quello che Kavafis fa – dice Grandmont –, donandoci “una specie di Iliade dei
dimenticati”. Un’operazione analoga a quella di Plutarco, la cui erudizione
Kavafis ammirava, e le cui opere erano probabilmente i suoi livres de chevet,
tali e tanti sono nei suoi testi i riferimenti allo storico greco (vi sono
testimonianze di come il poeta amasse citarlo a memoria in pubblico, non senza
civetteria). Se nelle sue Vite Plutarco indaga la Storia di Roma e della Grecia
attraverso l’ethos dei personaggi, Kavafis, nelle sue poesie ‘storiche’ e
‘filosofiche’ mette in risalto gli aspetti meno noti della personalità dei suoi
protagonisti. I suoi sono sì gli eroi della Storia maiuscola, come gli Spartani
di Leonida alle Termopili, a cui il poeta dedica una delle sue poesie più belle
e commosse, ma soprattutto le umili comparse di una storia minuscola e
dimenticata. Sono sovrani macedoni, seleucidi, egiziani, tiranni greco-siriani e
imperatori bizantini dai nomi pomposi – l’Evergete, il Benefattore (trasformato
dal popolo in Kakergete, il Malfattore), il Poliorcete, l’Assediatore di città,
il Nicatore, il Vittorioso –, o nomi beffardi, come il Misopogon (l’Odiatore
della barba). Principi destinati spesso a essere uccisi dal nemico, com’è
naturale, ma anche a cadere vittime di cospirazioni ordite da amici, fratelli,
mogli infedeli. Sovrani tronfi e vanesii, messi alla berlina dal popolo con nomi
dissacranti e ironici – Schiavo, Naso aquilino, Làtiro (Cece), Fiscone (Panzone)
–, che il poeta definisce, tout court, “pagliacci”.
Perché Kavafis ha un suo personale alto senso della giustizia storica: demitizza
i potenti svelandone le false glorie e le miserie, raccontandone le sconfitte e
la decadenza; riabilita personaggi a suo parere ingiustamente diffamati; in
altre parole, punta a ristabilire una sua verità. E soprattutto, al pari di
Plutarco, è impegnato a ricuperare e a far rivivere la grandezza della Grecia e
della sua lingua. Una lingua già parlata all’età del bronzo e che, come è stato
detto, “ha insegnato ai popoli la dolcezza e l’umanità”.
LE POESIE. TESTO GRECO A FRONTE
Basta, tutto ciò, a spiegare il successo straordinario, senza uguali nella
poesia del Novecento, di questo poeta vissuto ai margini di tutto – dell’impero
geografico e delle lettere, della vita sociale e professionale, dell’editoria e
della critica –, di quest’uomo colto e raffinato, greco alessandrino di nascita,
di lingua e di sentimento, costretto a guadagnarsi il pane come travet anglofono
nell’Ufficio irrigazioni del ministero dei Lavori pubblici nell’Egitto
protettorato britannico?
Certamente al suo successo universale hanno concorso altri fattori, primo fra
tutti la relativamente facile traducibilità della sua poesia nelle altre
lingue. Perché se è vero che nella traduzione va persa una delle caratteristiche
principali della poesia di Kavafis, cioè lo smalto del suo impareggiabile greco
– un amalgama di lingua colta e popolare, che conferisce al suo lessico la
levigatezza e le screziature del marmo –, molto altro si conserva, soprattutto
l’afflato morale, il sarcasmo e l’ironia con cui sono ritratti eventi e
personaggi di un mondo remoto e sconosciuto: quello dell’ecumene ellenistica,
della Siria, della Seleucìa, di Cirene, di Tiana, dei Tolomei d’Egitto, di
Bisanzio. Nell’opera di Kavafis sono stati contati i nomi di 251 personaggi, 130
dei quali storici, 64 mitologici e 57 di fantasia. Mondi lontani mille o duemila
anni da noi e per lo più estranei a gran parte delle culture e dei Paesi
odierni, ma che il poeta utilizza spesso come metafore della contemporaneità.
Un altro elemento dell’importanza di Kavafis è la straordinaria attualità della
sua poesia: che, pur essendo quella di un autore del passato, si può leggere
come un’opera dei nostri tempi. Anche spogliata, nelle traduzioni, dello
splendido orpello (l’aurea pellis) della sua lingua, questa poesia parla ai suoi
posteri, ai nostri contemporanei, e quasi certamente parlerà alle generazioni
future, con una forza e un’incisività non intaccate dal tempo. Come d’altronde
egli era ben cosciente quando diceva di sé, con la sua amabile ironia: “Kavafis
è un poeta del futuro’.
Kavafis suddivideva le sue poesie in tre categorie: “filosofiche”, “storiche” ed
“erotiche”, o sensuali. Una ripartizione che secondo alcuni critici non ha
senso, vuoi perché non pochi testi sono riconducibili all’una o all’altra
categoria, vuoi perché, come ha fatto notare il suo traduttore americano Daniel
Mendelsohn, il poeta deve essere apprezzato in una prospettiva unica: quella che
gli consentiva di guardare alla storia con l’occhio di un amante e al desiderio
con l’occhio di uno storico. Del resto lo stesso Kavafis ha affermato che “molti
poeti sono soltanto poeti, mentre io sono un poeta storico”.
L’Alessandrino aborre gli abbandoni e gli sdilinquimenti lirici. Scandaglia con
severità l’animo umano ma ha pietà delle sue debolezze. Esalta il primato
dell’Arte e della Poesia. Rimarca con orgoglio la bellezza e l’unicità
dell’inestimabile patrimonio della cultura e della lingua greca ricevuto in
eredità, e che egli ha contribuito ad arricchire forgiando a suo uso e consumo
un idioma nuovo, che rende unica, riconoscibile e inimitabile la sua voce.
Kavafis riserva il suo sarcasmo ai fanatici e ai puritani, lui che ha come unica
religione la tolleranza. Infine, rivendica la legittimità del sentimento e della
passione in ogni sua forma, anche in quelle “che la morale corrente condanna”. E
sulla sua opera intera appone il sigillo dell’ironia.
Domina, nell’opera di Kavafis, il tema del tempo che tutto altera; la presenza
del passato nel nostro presente, la realtà inestricabile dall’immaginazione. E
ci sono, imprinting inconfondibili, l’eros e la memoria, soprattutto nelle
poesie “erotiche” o sensuali. Sono i testi originati dagli incontri casuali
sulle scale di casa (al pianterreno dello stabile in cui abitava, al numero 10
della rue Lepsius – oggi museo – c’era un bordello), a teatro o nei luoghi di
piacere che frequentava. Sono i versi sull’esaltazione della bellezza fisica
(labbra rosse, capelli neri profumati, pelle di gelsomino, occhi di zaffiro,
corpi modellati da Amore), sul desiderio erotico inappagato, sugli amori e i
luoghi della giovinezza rievocati con rimpianto a distanza di anni. In questi
testi, un terzo circa delle 154 poesie del “canone”, la sua omosessualità
compare inizialmente per accenni timidi e velati (si considerino i tempi e
l’ambiente in cui visse e scrisse), per farsi nel tempo più ardita e quasi
sfrontata. E anche per alcuni di questi testi non di rado chiama ‘in soccorso’
personaggi e autori della Grecia antica, quasi a voler dare maggior vigore al
diritto della sua diversità, a rivendicare con orgoglio una delle fonti
principali della sua ispirazione. Nelle poesie in cui parla apertamente di amore
omoerotico, Kavafis ricorre al vocabolario usato nella società in cui vive,
definendolo “illecito”, “morboso”, “anomalo”. In altre parole, un tipo di
piacere (nella mia traduzione delle sue poesie questa parola compare 40 volte)
considerato perversione. E tuttavia, in una nota privata del 1902, il poeta
afferma che per lui “la perversione” è “fonte di grandezza”.
Non è mancato, in Grecia e altrove, chi ha attribuito all’omosessualità di
Kavafis una parte importante del suo successo. Secondo costoro, sarebbero stati
i suoi paladini omofilòfili a diffonderne l’opera e a incoraggiarne le
traduzioni. È indubbio che amici e ammiratori come E. M. Forster, Maurice Bowra,
Wystan H. Auden hanno concorso a far conoscere Kavafis nel mondo anglosassone,
l’unico che allora contasse veramente ai fini della diffusione planetaria di un
nome, di una figura, di un’opera. Forster, che conobbe Kavafis ad Alessandria
durante la Prima guerra mondiale, nel 1919 pubblicò un articolo in cui
descriveva il valore del suo lavoro, l’uso inimitabile della lingua e la sua
“inconsueta filosofia”. L’immaginazione del pubblico fu colpita in particolare
dalla descrizione del “gentiluomo greco in paglietta, ritto in piedi,
assolutamente immobile, in un angolo sghembo del mondo”. Di Auden è rimasta
famosa la definizione del suo “inconfondibile tone of voice”, che sopravvive
alla traduzione. Bowra ne elogiò la lingua magistrale, che mescola il greco
erudito e i testi antichi con lo slang della moderna Alessandria.
Numerosi sono stati, fin da subito e soprattutto in Grecia, i detrattori del
poeta. A cominciare dal patriarca delle lettere greche Kostìs Palamàs, assertore
della poesia lirica e della lingua popolare, il quale definì i testi
dell’Alessandrino meri reportages, “annotazioni indegne di diventare poesie”.
Molti altri intellettuali ateniesi manifestarono apertamente la loro ostilità
alla poesia di Kavafis, imputandogli errori di ortografia e l’uso di una lingua
improbabile (viene in mente la nostra Amelia Rosselli), senza risparmiargli
commenti ingenerosi e imitazioni crudeli. Perfino Nikos Kazantzakis diede voce a
un’opinione comune: “Kavafis è uno degli ultimi fiori di una cultura. Un fiore
dalle foglie doppie scolorite, dal lungo stelo svigorito, un fiore senza
seme”. Seferis ribadì in altro modo le proprie riserve: “Kavafis è una fine, non
un inizio”. E più avanti Elitis lo definirà un “innovatore, ma vecchio”.
Certo è che al suo apparire la poesia di Kavafis provocò scompiglio e ribellione
nell’ambiente letterario provinciale e sonnacchioso della Grecia d’inizio
secolo. Ma nel 1924, nel momento degli attacchi più virulenti contro di lui, la
rivista ateniese “Nea Techni” gli dedicò per la prima volta un numero speciale.
Tra i vari articoli, quello del poeta Napoleon Lapathiotis ne prendeva le difese
e si scagliava contro i suoi avversari accusandoli di “animosità, invidia,
parzialità fanatica, superficialità meschina, ignoranza totale e sistematica di
ciò che significano l’Arte e l’artista”. L’opera di Kavafis, scriveva
Lapathiotis, è invece “originale, senza precedenti” e, come “una quintessenza
della poesia, schiude gli orizzonti dell’Arte universale”.
Lungo fu il processo di maturazione di Kavafis, considerato spesso un “poeta
della vecchiaia”. Tuttavia, una volta raggiunta la pienezza espressiva (verso i
quarant’anni), egli rifiutò gran parte della produzione precedente, escludendola
dalle 154 poesie del “canone”, lo stesso numero dei sonetti di
Shakespeare. Anche se è indubbio che alcune delle poesie “rifiutate” e “inedite”
avrebbero potuto benissimo far parte delle poesie del “canone”.
Oggi sono innumerevoli, in tutto il mondo, le schiere degli estimatori e
lettori, che hanno fatto di Kavafis il poeta più tradotto, più conosciuto e uno
dei più amati del Novecento. A partire, in Italia, da Filippo Maria Pontani, il
primo a presentarlo integralmente più di mezzo secolo fa e la cui versione, al
pari della poesia di Kavafis, sfida il tempo.Giorgio Seferis ha scritto che “al
di là della sua poesia Kavafis non esiste”. In effetti la sua vita somiglia a
quella di alcuni dei personaggi storici minori da lui riesumati, ma che la
scintilla di un evento, di un motto insignificante, di un epitaffio
semicancellato, del volto di un bel giovane visto per strada o raffigurato su
una moneta, di un nome storico dimenticato o fittizio, accende di improvvisi
bagliori. Il poeta visse per lunghi anni in isolamento volontario: un’esistenza
schiva, punteggiata da rare assenze dalla sua amata Alessandria – se si
eccettuano gli anni trascorsi da ragazzo in Inghilterra e a Costantinopoli,
brevi visite a Parigi e ad Atene e l’ultimo soggiorno di sei mesi nella capitale
greca per essere operato di un cancro alla laringe che ne segnò la fine.
Giornate scandite dai discreti incontri omosessuali nelle case di piacere o nel
suo appartamento, da passeggiate in città, da soste nei caffè popolari, da
appassionati conversari con amici e visitatori occasionali. E, cosa più
importante, dalle immersioni notturne negli studi e nelle letture di autori
classici e storici antichi.
Con altrettanta parsimonia distribuì la propria opera, che si rifiutò sempre di
raccogliere in volume, e che incessantemente correggeva, riscriveva, cancellava,
intervenendo anche sulle feuilles volantes a stampa che distribuiva agli intimi
e a pochissimi eletti, assillato dalla smania di riuscire ad apporre l’ultimo
tocco di perfezione alla sua poesia.
Kavafis visse quasi esclusivamente al servizio della Poesia e dell’Arte, del suo
amore per la lingua e dell’appassionata dedizione alla cultura greca: cose tutte
che elevò a vertici empirei. Questa è stata, e continuerà a essere, la sua
eredità.
Nicola Crocetti
*
11 poesie di Kavafis nella traduzione di Nicola Crocetti
La satrapia
Che disastro! Sei fatto
per cose grandi e belle
e hai sempre questa sorte ingrata
che coraggio e successo ti rifiuta;
hai consuetudini vili come intralcio,
meschinità, indifferenze.
Ed è tremendo il giorno che ti arrendi
(il giorno che rinunci e che ti dai per vinto)
e ti metti in cammino verso Susa
per andare a trovare il re Artaserse
che benigno ti accoglie alla sua corte
e ti offre satrapie e favori.
E tu le accetti con disperazione
queste cose di cui non sai che farti.
Ben altro chiede l’anima, per altre cose piange:
per le lodi del popolo e dei Dotti,
i difficili, inestimabili consensi;
e l’Agorà, il Teatro, le Ghirlande.
Come può darti tutto ciò Artaserse?
La satrapia può darti queste cose?
E senza queste, me la chiami vita?
*
Itaca
Se ti metti in viaggio per Itaca
augurati che sia lunga la via,
piena di conoscenze e d’avventure.
Non temere Lestrigoni e Ciclopi
o Posidone incollerito:
nulla di questo troverai per via
se tieni alto il pensiero, se un’emozione
eletta ti tocca l’anima e il corpo.
Non incontrerai Lestrigoni e Ciclopi,
e neppure il feroce Posidone,
se non li porti dentro, in cuore,
se non è il cuore a alzarteli davanti.
Augurati che sia lunga la via.
Che siano molte le mattine estive
in cui felice e con soddisfazione
entri in porti mai visti prima;
fa’ scalo negli empori dei Fenici
e acquista belle mercanzie,
coralli e madreperle, ebani e ambre,
e ogni sorta d’aromi voluttuosi,
quanti più aromi voluttuosi puoi;
e va’ in molte città d’Egitto,
a imparare, imparare dai sapienti.
Tienila sempre in mente, Itaca.
La tua meta è approdare là.
Ma non far fretta al tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni;
e che ormai vecchio attracchi all’isola,
ricco di ciò che guadagnasti in viaggio,
senza aspettarti da Itaca ricchezze.
Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
avrai capito Itaca che vuol dire.
*
Più che puoi
Se non riesci a farla come vuoi, la vita,
sforzati almeno più che puoi
di non prostituirla
nei contatti eccessivi con la gente,
con i gesti eccessivi e le parole.
Non la svilire col portarla
troppo spesso in giro, con l’esporla
ai rapporti e ai commerci
dell’insensatezza quotidiana
finché diventi estranea ed importuna.
*
Assai di rado
È un vecchio. Senza forze, curvo,
storpiato dagli anni e dagli abusi,
cammina a passo lento nella viuzza.
Ma appena rientra in casa a rintanare
il suo misero stato e la vecchiaia, riflette
sulla parte che ha ancora presso i giovani.
Adolescenti ora dicono i suoi versi.
I loro occhi vivi son colmi delle sue visioni.
Le loro menti sane e sensuali,
le loro carni ben tornite e sode,
la sua idea di bellezza fa vibrare.
*
Una notte
La camera era povera e triviale,
nascosta sull’equivoca taverna.
Dalla finestra si vedeva il vicolo
sudicio e angusto. Da sotto
provenivano voci di operai
che giocavano a carte e facevano baldoria.
E lì, sull’infimo e sordido giaciglio,
ebbi il corpo d’amore, ebbi le labbra
sensuali e rosate dell’ebbrezza –
rosate di una tale ebbrezza, che anche adesso
che scrivo, dopo tanti anni!,
nella mia casa solitaria, m’ubriaco ancora.
*
Torna
Torna sovente e prendimi,
torna e prendimi amata sensazione –
quando il ricordo del corpo si ridesta
e trascorre nel sangue il desiderio antico;
quando labbra e pelle rammentano,
e alle mani pare di nuovo di toccare.
Torna sovente e prendimi, di notte,
quando labbra e pelle rammentano…
*
Lontano
Questo ricordo lo vorrei ridire…
Ma ormai s’è così spento… quasi più nulla resta –
perché giace lontano, negli anni primi dell’adolescenza.
Pelle come di gelsomino fatta…
Quella sera d’agosto – ma era agosto?…
Ricordo appena gli occhi; erano azzurri, credo…
Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro.
*
Guardai così fissa
Guardai così fissa la bellezza
che se n’è riempito lo sguardo.
Linee del corpo. Labbra rosse. Membra sensuali.
Capelli come da statue greche presi:
anche se spettinati sempre belli,
caduti un po’ sopra le fronti bianche.
Volti d’amore, come li voleva
la mia poesia… le notti della mia giovinezza,
nelle mie notti incontrati di nascosto…
*
Aspettando i barbari
– Che aspettiamo, raccolti nell’agorà?
Oggi devono arrivare i barbari.
– Perché è così inoperoso il Senato?
E perché siedono senza far leggi i Senatori?
Perché oggi arrivano i barbari.
Che leggi devon fare i Senatori?
Quando verranno, faranno leggi i barbari.
– Perché l’imperatore s’è alzato così presto
e sta alla porta maggiore della città
solenne in trono, e indossa la corona?
Perché oggi arrivano i barbari.
E l’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. Anzi ha disposto
di offrirgli una pergamena. Sulla quale
gli ha scritto molti titoli e nomine.
– Perché stamani i due consoli e i pretori
sono usciti con toghe rosse ricamate?
Perché indossano bracciali colmi di ametiste
e anelli con smeraldi splendidi e lucenti?
Perché oggi impugnano le preziose mazze
dai raffinati ceselli d’argento e d’oro?
Perché oggi arrivano i barbari;
e queste cose abbagliano i barbari.
– Perché i valenti retori non vengon come sempre
a fare i loro discorsi, a dire le loro cose?
Perché oggi arrivano i barbari;
e hanno a noia concioni ed eloquenza.
– Perché questa inquietudine, d’un tratto,
questo scompiglio? (Come si sono fatti serî i volti.)
Perché si svuotano in fretta strade e piazze
e tutti tornano a casa pensierosi?
Perché si è fatta notte e non son venuti i barbari.
Messaggeri son giunti dai confini
e han detto che non ci sono più barbari.
E ora, senza barbari, che sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
*
Giorni del 1901
Questo aveva dagli altri di diverso:
che pure nella sua dissolutezza,
nel soverchio esercizio dell’amore,
e nonostante l’armonia consueta
tra il suo atteggiamento e l’età,
c’erano istanti in cui – ma beninteso
istanti rari – dava l’impressione
che la sua carne fosse quasi intatta.
Dei suoi ventinove anni la bellezza,
la tanto cimentata dal piacere,
in quegli strani istanti ricordava
un efebo maldestro che all’amore
la prima volta il corpo casto cede.
*
Termopili
Onore a quanti nella loro vita
si fecero custodi delle Termopili,
senza mai venir meno a quel dovere.
Integri e giusti nelle loro azioni,
ma sempre con pena e compassione;
generosi se ricchi, e generosi
sia pur con poco se indigenti,
soccorrevoli quanto possono;
pronunciando sempre la verità,
ma senza detestare i mentitori.
E sono degni di più grande onore
se prevedono (e molti lo prevedono)
che all’ultimo comparirà un Efialte
e comunque i Persiani passeranno.
Traduzione di Nicola Crocetti
L'articolo “In un angolo sghembo del mondo”. Kavafis, il gigante solitario
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