Adolf Wölfli viene interrogato dal dottor Schärer, il medico del carcere dove è
stato condotto in seguito al suo terzo tentativo di violenza sessuale. Ne ha
fatto le spese una bambina di circa tre anni che di cognome fa Dilger. Secondo
il rapporto del gendarme Zimmermann, al momento dell’arresto Wölfli si dichiara
colpevole, confessa di aver avuto l’intenzione di commettere atti osceni e di
essere stato interrotto dall’arrivo della madre.
> No dottore, non avevo ancora bevuto. Andavo verso il Dählhölzli per riposarmi,
> era un bel pomeriggio. Il fatto è che sono molto debole sia fisicamente che
> mentalmente. L’ho veduta sulla Schauplatzgasse, davanti all’ingresso di un
> palazzo, ero confuso. Sono stati loro che mi hanno messo in testa l’idea che
> avrei potuto farle qualcosa. Sono anni che non mi lasciano in pace, mi
> perseguitano in tutti i modi, gridano cose che non voglio sentire, hanno anche
> infettato il mio sangue con morbi venerei della peggior specie. Avevo una
> fidanzata, si chiamava Marie Egger, ma l’ho lasciata dopo che mi ha attaccato
> la malattia. Ha fatto marcire il mio sangue, ha rovinato per sempre la mia
> virilità.
«Le assise del Mittelland», il quadro che Wölfli dipingerà al Waldau una decina
di anni più tardi, può essere considerato il racconto trasfigurato della vicenda
giudiziaria che ne ha determinato l’arresto e il successivo internamento in
manicomio. In alto, sulla destra, probabilmente nel punto dove ha iniziato a
disegnare, è raffigurata una giovane donna che solleva l’abitino fantasia che
indossa esibendo i genitali. È con invitante malizia che sembra offrire allo
sguardo dell’osservatore la sua vulva, appesa come un oscuro frutto al fusto
candido delle gambe. La ragazza indossa stivaletti con il tacco e la sua testa
di luna piena è circondata da un turbante di aureole.
> Glielo assicuro dottore, non avevo cattive intenzioni, ho pensato che mi
> sarebbe piaciuto passeggiare con lei come due innamorati, offrirle un gelato,
> portarla alle giostre. Slacciale i pantaloncini, mi dicevano invece loro
> nell’orecchio, mettile una mano lì sotto, che uomo sei? Non vedi come ti ha
> guardato? È per questo, per i pensieri che mi mettono in testa, che ho dovuto
> premere il membro tra le cosce e soddisfare la mia voluttà.
Nell’angolo opposto del foglio Wölfli rappresenta se stesso sotto forma di una
specie di diavoletto nero con occhi sbarrati, dentini aguzzi, grandi corna
ritorte e un piccolo pene eretto. L’impressione è quella di un mostriciattolo
generato dalla fantasia di un bambino, una specie di teddy bear che la luna
piena ha trasformato in una bestia tanto famelica quanto inoffensiva.
> Sono loro che mi fanno fare questi brutti pensieri. Mi vengono dietro giorno e
> notte e non la smettono di parlarmi entrandomi nella testa. Che uomo sei, mi
> dicono, non vedi che tutti ridono di te. Sono molto debole dottore, è il vizio
> a causare la mia debolezza. Ogni volta provo a resistere, ma poi li sento
> sghignazzare. Loro vedono i miei pensieri. La bambina non l’ho toccata. Non do
> fastidio a nessuno io. Sì, in passato, ma è da tanto che rigo dritto. Quando è
> arrivata la madre sono scappato e mi sono nascosto dentro un portone. In amore
> ho avuto solo delusioni, non mi fido più delle promesse delle donne. Mi hanno
> solo preso in giro.
Sì è vero, ho il vizio del bere, ma non mi ero ancora fermato all’osteria,
ripete al dottor Schärer prima di essere congedato e riportato in cella. Quella
stessa sera il medico andrà a cena da Frau Weber, una ricca signora che da poco
si è trasferita nella capitale e che, a quanto sembra, ama sentirsi raccontare
di certe stranezze che albergano nell’animo umano. Adolf Wölfli verrà invece
trasferito dal carcere alla clinica psichiatrica Waldau dove rimarrà per il
resto della vita. È il 3 giugno 1895, da qualche mese Wölfli ha compiuto trentun
anni.
*
Al momento dell’ingresso in manicomio viene assegnata a Wölfli la sigla 4224 D
3. Ragioni di pubblica decenza prevedono infatti che il nome dei pazienti venga
sostituito da uno pseudonimo o più semplicemente da un numero. Sulla prima
pagina della cartella clinica, alla voce domicilio, si può leggere: Carcere
giudiziario, Bühlstrasse 27, Berna; a quella indirizzo dei familiari: Ufficio
del Giudice Istruttore II, Berna. La diagnosi definitiva, stilata dopo qualche
settimana, è di dementia paranoides, al giorno d’oggi si direbbe schizofrenia.
> Mi spiano, mi osservano, i loro occhi mi seguono dappertutto. Appoggiano
> strumenti infernali alle pareti della camera per ascoltare i miei pensieri.
> Intossicano il mio corpo con i vapori malefici che fanno passare dalle fessure
> della porta. Tutta la notte li sento parlare, guardatelo il pover’uomo, si
> dicono, di niente è capace, mi indicano col dito e ridono, nessuna donna si
> alzerebbe la gonna per lui – scrollano la testa e ridono – guardatelo, può
> solo strizzarsi l’affarino che ha tra le gambe.
Al Waldau Wölfli trascorre la maggior parte del tempo in regime di isolamento a
causa del suo comportamento violento e aggressivo. Ha crisi di rabbia esplosive
nel corso delle quali se la prende con le cose – distrugge tavoli, sedie, porte
– e con gli altri pazienti che, dice, fanno rumore e parlano male di lui alle
sue spalle. Ne hanno già fatto le spese il paziente Amsler e il paziente Wernli
che sono stati scaraventati a terra e presi a calci. Ha colpito pesantemente
anche il paziente Weibel pur essendo quest’ultimo paralitico. In conseguenza
della caduta provocata da un suo violento attacco il paziente Bill è caduto
fratturandosi il collo del femore. Recentemente al paziente Zang ha staccato con
un morso un lembo del labbro superiore. È molto nervoso, pallido in volto, suda
copiosamente, sente voci a contenuto sessuale, annota il medico in cartella, ma
non manifesta l’intenzione di fuggire come ci si potrebbe aspettare da lui. In
un’ultima crisi di rabbia Wölfli ha fatto a pezzi la seggetta presente nella
cella e con la gamba che ha staccato dalla sedia ha sfondato la porta e
distrutto tutte le formelle di una grande finestra del corridoio. Dopo tali
intemperanze non gli viene concesso il permesso di lasciare la cella. Il
paziente inganna il tempo disegnando, scrive il medico prima di rimettere la
cartella di Wölfli nello schedario.
*
Tutto sembra cominciare grazie ad un intervento magico, un mondo compiuto e
perfettamente definito emerge d’un tratto dal nulla senza che prima ci fossero
state avvisaglie della sua comparsa sotto forma di abbozzi, prove, tentativi non
portati a termine. Pare davvero una creazione divina, l’estrazione di un
universo di grande complessità e bellezza dalla mente di un uomo brutale,
miserabile, grossolano, insomma una specie di idiota sgraziato e fallimentare
anche nei suoi tentativi criminali.
Nella sua foto più celebre Adolf Wölfli è ritratto in piedi mentre con il
braccio alzato e l’indice proteso indica una sua opera appesa al muro. Ha il
corpo tozzo, segnato da una certa pinguedine, i pantaloni arrotolati fino al
ginocchio e tirati su dalle bretelle ben oltre la vita, i baffi cespugliosi, un
basco nero in testa. Quanti l’hanno conosciuto lo descrivono come astioso,
violento, tendente all’enfasi e all’autoesaltazione. È difficile che susciti
simpatia o compassione.
Inganna il tempo disegnando, l’osservazione del tutto banale che il medico
annota coglie, seppur involontariamente, un aspetto centrale di ciò che
fa Wölfli nella sua cella del Waldau. I suoi scritti, i suoi celebri disegni
spiraliformi, l’ossessiva ripetizione di pochi gesti sembrano essere davvero
modi per immobilizzare il tempo ingannandolo. Il tempo viene fatto ruotare su se
stesso come una trottola e ruotando viene tenuto fermo in un punto del suo
corso. La trottola per rimanere in piedi deve però continuare a girare. Se il
suo movimento si ferma la trottola crolla a terra assieme a tutto il resto.
Un’ininterrotta poiesis è ciò a cui Wölfli è condannato, altrimenti c’è
l’abisso, l’angoscia incontrollabile delle voci che additano, insultano, rendono
la vita impossibile.
Wölfli chiamerà le sue prime opere Composizioni musicali. Si tratta di disegni a
matita, in bianco e nero, su carta da giornale, in cui fanno la loro comparsa
anche i righi con i quali decorerà fino alla fine le immagini come festoni
appesi sopra una piazza affollata. I pentagrammi sono sostituiti da esagrammi,
ma l’impressione è comunque quella di essere di fronte ad uno spartito
variopinto, un antifonario riccamente miniato. Non a caso sono firmati
da Adolf Wölfli, compositore di Schangnau.
*
> Sono nato il 29 febbraio 1864 a Nütchern vicino a Bowyl. Mio padre girava la
> regione lavorando come scalpellino. Se sobrio e di luna buona era capace di
> finire il lavoro che gli veniva affidato, ma appena intascata la paga, invece
> di tornare a casa dai suoi infelici bambini e dalla loro madre, se la beveva
> in qualche bettola tra gentaglia come lui. Era considerato un poco di buono,
> entrava e usciva di prigione.
I medici del Waldau erano soliti chiedere ai nuovi internati, o almeno a quelli
in grado di farlo, di redigere una loro memoria autobiografica. Wölfli, che si
trova nella condizione di detenuto in attesa di giudizio, la scrive anche al
fine di giustificare il suo comportamento alla luce della tormentata e
miserabile condizione che fin dalla nascita ha patito. Con ogni probabilità si
tratta del primo scritto che Wölfli porta a compimento.
> Sono il più giovane di sette fratelli, due dei quali sono morti da piccoli.
> Non ho sorelle. Mia madre, che per quanto ne so era una lavandaia, non
> riusciva a sfamarci e siamo stati tirati su grazie al sostegno della
> parrocchia. Quando avevo otto anni ci hanno divisi. Mi madre non godeva di
> buona salute e presto Nostro Signore la liberò dalle sue sofferenze. Io venni
> mandato a Oberei a lavorare da un falegname. Sarebbe stato un valido artigiano
> se non fosse stato per il bere. Sua moglie, che era una donna rigida e dura,
> faceva la sarta e spesso andata a cucire in casa di altri. Quando tornavo da
> scuola non c’era nessuno ad aspettarmi e in cucina non trovavo niente per
> mettere a tacere la fame tranne che tre o quattro patate e raramente anche una
> crosta di pane che bagnavo nell’acqua fredda. Il resto del cibo era tenuto
> sottochiave. Quando facevano baldoria offrivano da bere anche a me. All’inizio
> la grappa mi disgustava, ma alla fine non mi tiravo indietro e ne ingurgitavo
> in quantità. È stato così che nel giro di un anno sono diventato un giovane
> ubriacone.
L’autobiografia che Wölfli scrive è ricca di dettagli e umori, il tono è spesso
enfatico e lascia largo spazio all’autocommiserazione, ma non manca di una certa
forza narrativa soprattutto se si tiene conto che l’autore è un semianalfabeta.
Wölfli racconta di sé per una decina di pagine, più di quante sarebbero state
necessarie per esaudire la richiesta dei medici, ma che non sono niente se
paragonate alla biografia allucinata e interminabile che inizierà a scrivere
tredici anni più tardi, il folle viaggio di parole con cui abbandonerà la sua
condizione di internato soggetto a rigide misure restrittive per inventarsi
nuove vite e nuovi mondi in cui viverle.
*
Passano gli anni al Waldau, così come passano nel resto della Svizzera e
dell’intero mondo. È il 1908 quando Wölfli comincia la sua seconda autobiografia
dopo quella scritta su richiesta dei medici all’ingresso in manicomio. La camera
dove è obbligato a stare è sporca e in disordine. Appoggiata a una parete c’è
una soggetta che emana un forte odore di escrementi. Wölfli è in piedi davanti a
un piccolo tavolo dove sono posati alcuni grandi fogli. Ha le maniche della
camicia arrotolate e in testa il basco nero che non si leva quasi mai. Tra le
dita stringe una matita quasi nuova. Gliene danno due all’inizio di ogni
settimana. Osserva il filo di grafite dipanarsi nitido sul pallore della carta,
passa poi il palmo della mano sul foglio come per stirarne le impercettibili
pieghe e ammira quanto ha scritto compiacendosi per la sua bella calligrafia,
così chiara e musicale. Più guardo il movimento della mano più mi pare la
delicata danza di una giovane ballerina, si dice piegando di lato la testa per
cambiare la prospettiva. Ricomincia a scrivere.
> Voll Wehmuht, Reue, Schmerzen, Angst und Grahm, pieno di tristezza, rimorso,
> dolore, paura e nostalgia di casa, ho già trascorso quattordici interi anni
> della mia misera esistenza dietro alla porta chiusa di una cella e ciò a causa
> di un errore commesso in passato. Sono stato costretto ad abbandonare i miei
> parenti ed anche l’infelice persona amata per lasciarli in balia di estranei.
> Il mio buon sangue è stato versato, la pace divina se n’è andata e con un
> cuore bruciato io adesso affondo morendo sopra un cuscino che non è il mio.
Wölfli intitolerà il fantasioso racconto della sua vita Von der Wiege bis zum
Graab, Dalla culla alla tomba.Aggiungerà poi una seconda frase, forse per
rimediare a quello che probabilmente gli era sembrato un titolo troppo modesto:
O, attraverso il lavoro e il sudore, il dolore e il tormento, pregando alla
maledizione. Comincia il racconto in modo convenzionale, ripetendo l’incipit già
utilizzato in passato, ma quasi subito la scrittura slitta, devia, rimbalza,
viene catturata dalla fantasia più sfrenata, dal sogno o dal delirio. Il
protagonista della storia è un bambino di nome Doufi – il diminutivo di Adolf –
che con la sua famiglia lascia la Svizzera per cercare fortuna in America. Da
qui partirà per un viaggio intorno al mondo e fuori dal mondo, tra pianeti e
stelle. Sarà pieno di avventure e peripezie, di catastrofi naturali e incidenti,
di scontri e lotte dai quali il piccolo Doufi ogni volta si salverà per
miracolo. Concluderà scrivendo il testamento in cui nomina il nipote Rudolf
erede delle ricchezze che ha accumulato durante il viaggio.
Bisogna continuare e Wölfli continuerà, continuerà fino alla fine. Riempirà
duemilanovecentosettanta pagine che raccoglierà in nove volumi illustrati da
settecentocinquantadue disegni. A questa prima opera ne seguiranno altre per un
totale di circa venticinquemila pagine che andranno a formare quarantacinque
grandi libri che lo stesso Wölfli provvederà a rilegare, contenenti, oltre al
testo, milleseicento disegni e millecinquecento illustrazioni ottenute con la
tecnica del collage. In aggiunta utilizzerà anche sedici quaderni. I
quarantacinque ingombranti volumi che raccolgano i suoi scritti, messi l’uno
sopra l’altro, avrebbero raggiunto e superato l’altezza della stanza. Per
questo, quando si trattò di fotografarli, si optò per disporli su due pile,
l’una alta fino quasi al soffitto, l’altra poco più alta di un tavolo.
La data di dimissione di Wölfli dal Waldau coincide con la data della morte,
il 6 novembre 1930. L’ultima nota della cartella clinica dice: il paziente è
deceduto questa mattina alle ore 8 e 10 minuti.Solo alcuni giorni prima, con le
lacrime agli occhi, Wölfli aveva detto che a causa degli intensi dolori causati
dal tumore allo stomaco non ce la faceva più a disegnare. Il medico annota in
cartella che il paziente non mangia, beve solo acqua e non ha più forze; scrive
anche che è molto amareggiato perché ha capito che non ce la farà a terminare in
tempo la Marcia funebre, l’opera alla quale sta lavorando da almeno un paio di
anni e che gli sarebbe piaciuto portare a termine per l’imminente Natale.
> Era buio fino a dove il loro sguardo poteva arrivare. Tutti gli spiriti si
> librarono sopra le acque e giunsero sulla terra ferma. Orfeo disse, che sia
> luce, e luce fu. Allora il sole inviò sulla terra i suoi raggi luminosi. Non
> passarono che poche ore prima che l’ultimo raggio di sole cadde sulla terra.
> Una parola divina accese allora la luna e una moltitudine di stelle
> scintillanti disegnarono un cerchio nel blu del firmamento.
*
A partire dal 1907 e fino al 1920 lavora al Waldau in qualità di assistente
medico il dottor Walter Morgenthaler, lo stesso che firmerà l’internamento di
Robert Walser. Decide di raccontare la storia di quel suo strano paziente
costantemente dedito al disegno e alla scrittura, ma, essendo lo psichiatra di
natura più contenuta, si limita a centotrentaquattro pagine, sufficienti però a
risvegliare l’interesse per i lavori di Wölfli tra gli amatori di quel genere di
bizzarrie – la cosiddetta arte dei pazzi – e a non far disperdere nell’oblio del
tempo il nome dello psichiatra.
Paolo Miorandi
L'articolo “Con un cuore bruciato”. Marcia funebre per Adolf Wölfli proviene da
Pangea.
Tag - follia
Temi il folle: egli non farà né ciò che si conviene né ciò che conviene.
Temilo perché è folle. E non gli estorcerai niente, di ciò su cui far leva è
ragionevole, e vigliaccamente, secondo ragione, ricattare. Sarai capace di
avvicinarlo solo nello stigma e nel timore.
Egli non si redime né può, né ha da servirgli d’esser redento: e questo lo rende
un Dio, al tuo confronto.
Dove tu indugi, sarà tiranno, farà strame e macello. Dove tu tiri dritto,
indugerà con gusto e letizia, e gentilezze squisite che non puoi né devi
conoscere – inusitate e imprevedibili.
Deliberatamente carezzerà il nemico, fuori d’ogni ragione utile, e trafiggerà
chi gli sorride tendendogli la mano; ma potrebbe anche arrivare a torturare il
suo torturatore, e il nemico far soccombere, fra sangue e guano, e senza una
ragione, ancora, che tu comprenda o possa al modo suo.
Il suo genio è nudo, lo si sa, non ha strade segnate e avversa l’idea stessa di
direzione. Alle pesanti palpebre della stagnazione, preferisce la follia
esagitata del propugnare uscite dal solco. Delira, lo si sa, aggiunge all’ovvio
più tondo logiche dispari e grappi di stelle acuminate. Siderali distanze lo
separano dall’ordinario elevato a regola, è dissipatore d’anima e ingegno.
Abbiate timore della sua bestiale, innocente virtù, perché porta tempesta dove
non si alzerebbe un solo vento; perché depone doni e profferte all’altare della
dissidenza più sistematica. Il suo pensiero coopta spesso Ockham, ma di gioco
ridonda, sempre, e sperimentante bellezza. Il suo eccedere cuce in segreto le
ferite senza voce del mondo, ma è anche la benedizione del bastante. Egli onora
luoghi e parti di sé che i più ignorano o misconoscono, e sa che il suo
linguaggio è enigma insolubile presso chi esibisce una povera grammatica prona
alle leggi del verosimile e ai suoi regni filistei. L’audacia del suo fuoco è
fulgida e sbilenca, divora parole cortigiane come smesse pelli, condanna ogni
autismo intellettuale e morale, prende campo in una eterna battaglia per tenere
in vita parti del mondo che altrimenti morirebbero in serie senza un lamento.
Ha presumibilmente conosciuto anguste corsie, di perdita di sé e estorsione di
ciò che essere non voleva, e che strozzavano vista e cuore, cucivano il giorno e
la notte in un’uguale trama di protratta anestesia. Ha conosciuto la guarigione
come ricatto e la libertà gabellata per necessità di guarigione. Egli è
guerriero, guerriero della mente e amico della mano sinistra. Innalza la
bellezza al di sopra del suo stato bruto di vento tagliente e nuda terra, e la
pone nel calice di un fiore muto.
Strappa all’assenza un barlume di presenza, una traccia, qualcosa che aggira
l’ovvio e descrive cerchi soavi di farfalla. Lotta contro i suoi stessi sogni,
che ha visto mutare in incubi di piombo e cristallo, magma e tempesta – profondo
come una galassia, temprato e destro al soffrire… Disperatamente fuori dal
cerchio di luce del domato fuoco d’ogni civiltà.
Temilo perché senza essere a modo tuo, egli è in sé, e più che te od altro.
Temilo perché non fa ciò che serve, perché è un mostro e un Dio, in salute della
sua malattia, che veleni morali non sa: tutti gli elementi in lui coesistono e
sono, senza prevalere l’uno sull’altro, secondo ragione, che non sia natura alla
natura sparsa, come lava nella lava.
Temilo perché non potrai piegarlo avvicinandolo a te, perché non potrai
ricattarlo – benedizioni o maledizioni non conoscendo, che inflitte siano, o da
chicchessia ammannite.
Egli è sempre distante oceani e stelle, egli è dove tu paventi e non comprendi:
nel suo male e nel suo bene, ontico e ontologico assieme. Per questo né si salva
né salvezza concepisce, e la sua colpa sempre, è originaria, i suoi fini
terrifici e netti – che son l’una cosa e l’altra senza giustificazioni.
Temilo perché lo torturasti proprio come un folle, quando violento non fu né
esser voleva, e lo blandisti spremendo altra violenza, per paura della sua
violenza, dalle nutrite tette della sua anima superiore.
Temilo perché inventasti tu la colpa e la cura, e mai sapesti andare oltre il
delitto dell’una nell’altra. Temilo perché Napoleone e Hitler furono e sono
colpevoli, e non folli abbastanza, e della stessa tua colpa che abbisogna d’un
concetto in soccorso all’inerzia del suo macchinico sfacelo, ma mai fuori da
essa, se non per “pruderia” morale dell’inconcepibile.
Temilo perché ottimizzare il delitto a scopi ritenuti superiori, è cosa tua e
non sua.
Temilo, perché, al fine, la libertà non potrà essere né merce né privilegio
desunto – nel bene e nel male. Temilo in entrambe, dunque.
Massimo Triolo
*Nell’articolo: opere di Johann Heinrich Füssli (1741-1825)
L'articolo “Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle proviene da
Pangea.
Cabbala del disincanto, dell’incastro a cose senza cautela; le date –
altrimenti, meri ornamenti cronologici – paiono l’azzardo del demone che si
gioca l’eternità a dadi. Giuseppe Piccoli esordisce al ‘grande pubblico’ nel
1981, nel fascicolo Poesia Tre edito da Guanda. In primo piano, figurano testi
di Dario Bellezza e di Giorgio Caproni, di Andrea Zanzotto e di Maurizio Cucchi
(che tanta parte avrà nella scoperta di Piccoli). Piccoli pubblica un mannello
di versi, Di certe presenze di tensione, di aurorale bellezza, antartico alla
fauna della poesia italiana del momento. Era nato poeta dieci anni prima, nel
1971, con un libro, Il padre pazzo, edito da Rebellato, sotto la cappa dello
pseudonimo, Francesco Maria Ebreo. Titolo di preveggente mania. Nel settembre
del 1981 quel poeta di inconsueto talento, “in un attacco di schizofrenia”,
colpisce con un coltello da cucina i genitori: il padre morì pochi giorni dopo.
Internato nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, Piccoli
transita per diversi reclusori; nell’ultimo, quello di Aversa, nel febbraio del
1987, si toglie la vita. Avrebbe compiuto trentotto anni due mesi dopo, nel più
crudele dei mesi; era nato a Verona.
Di Giuseppe Piccoli – un autentico paria della patria poetica – si sussurra di
tanto in tanto, come si svela una sindone. Su questo foglio elettronico, nel
2018, ne ha scritto Silvano Tognacci; di recente, me ne ha instillato la lince,
ben ingemmata nel cervello, Antonio Bux. Si diceva, tra l’altro, di una genia
della poesia italiana – che da Dino Campana e Lorenzo Calogero e Lucio Piccoli
arriva, tra singolarità d’Everest, a Ivano Fermini, Dario Villa, Gian Giacomo
Menon e, appunto, a Piccoli – che abita l’altro linguaggio, una lingua, chissà,
preadamitica, da mangiatori d’angeli, da precursori del fuoco, intorno a cui
bisognerebbe ri-ragionare di un ‘canone’ (cannonizzando l’attuale). Sono questi
– i laterali, i ronin, i dispersi e i disperati, i disparati – a costituire la
vena indocile, dal caglio più puro, della letteratura nostra: dovremmo
ricostruirne l’albero genealogico (dico a sprazzi: i ‘notturni’ di Tasso,
Galeazzo di Tarsia, il Buonarroti poeta ‘caravaggesco’, Leopardi al bulino del
conciatore di stelle, Boine…).
Quasi che: intorno al sacerdozio lirico ‘ufficiale’, attorno alla conclamata
ecclesia di poeti cardinalizi, dovesse sorgere, per eccesso di povertà e
d’innocenza, il ‘folle’, il fool, il “pazzo” (nel dirsi dell’Assisiate), a mo’
di capro espiatorio. Per poi riscoprirlo, notoriamente, postumo, e farsene
docili – ma egli viene perché voi ne respiriate l’asperità, a quella aspiriate.
Grati all’ingrato – direbbe, Andrea Ponso.
Giuseppe Piccoli (1949-1987)
Mi placo. È stato Maurizio Cucchi a insediare Giuseppe Piccoli tra i
grandi Poeti italiani del secondo Novecento. Nell’antologia omonima (Mondadori,
1996; 2004) Cucchi parla di “un inconsueto dire enigmatico, tra profetico e
quotidiano, che non è collegabile con altre esperienze di autori del suo tempo”,
parla di “originalità e forza di una fisionomia poetica tra le più notevoli
della sua generazione”; accenna a qualche nobile lettura – Rebora e Campana,
soprattutto – pur restando, Piccoli, “per strade del tutto autonome”. Piccoli
viene inserito in una sezione fittizia, “Tendenze di fine secolo”, che lo
accomuna, per puro dato anagrafico, immagino, a Viviane Lamarque e a Roberto
Mussapi, a Franco Buffoni e a Gianni D’Elia, tra gli altri. Una silloge di
Piccoli, Foglie, fu accolta nell’Almanacco dello Specchio edito da Mondadori nel
1983: insieme a lui, testi di Kavafis e di Marguerite Yourcenar, di Ferruccio
Benzoni e di Ted Hughes, di Roberto Mussapi e di Mario Luzi.
Il primo libro incompiutamente compiuto di Piccoli uscì postumo, per Bertani,
nel 1987, Chiusa poesia della chiusa porta. A curarlo, Arnaldo Ederle, fraterno
di Piccoli. Proprio Ederle dedica a Piccoli due servizi su “Poesia”, la rivista
di Nicola Crocetti: prima nel febbraio del 1997 (Giuseppe Piccoli. Del corpo e
dell’anima, n. 103), poi nel febbraio del 2007 (Giuseppe Piccoli. Tre presenze,
n. 213), in cui ricostruisce la vita lirica, l’ispirazione inafferrabile del
poeta, assemblando “altre tessere del mosaico drammatico di Giuseppe Piccoli che
ribadiscono lo spessore della sua presenza nel quadro non solo poetico, ma anche
sociale e umano dei nostri giorni, evidenziando, nelle zone più dolenti dello
spirito, le profonde inesauribili risorse della sensibilità artistica che
riscattano, nel segno della poesia, il significato di un’intera esistenza”. Nel
2012, per Lietocolle, Maria Piccoli ha curato Fratello poeta: il libro risulta
“non disponibile”, da allora non c’è traccia di pubblicazioni. Efficace il sunto
che ne fa Nicola Crocetti:
> “L’emarginazione dovuta alla sua vicenda personale si ripercuote sulla sua
> poesia, e rende difficile il suo riconoscimento artistico. Perché Giuseppe
> Piccoli è un ottimo poeta, uno dei migliori della sua generazione. E
> nonostante l’interessamento di rari amici (Arnaldo Ederle, Maurizio Cucchi),
> la sua ricca produzione di versi (dieci volumi; il primo, Il padre pazzo, del
> ’71) è ancora pochissimo nota”.
>
> (Prima disperazione. Piccoli, gli ardori del «ladro di fuoco», in “il
> Giornale”, 6 luglio 2014).
Il nocciolo di versi qui trascritti testimonia un irredimibile candore, il
purissimo ‘nuovo mondo’ nella mente del poeta: non è il tragico a confonderci,
ma il confinamento in una perenne primavera. Un alleluia da oltremondani, da
oltraggiati, che nelle minime cose del creato assiste a una rivelazione con gli
uncini, alla casa infuocata che chiami, per analogia, sole. Così al dolore è
consegnato un supremo detto dono. Sono poesie cristalline, queste, che si
sbriciolano appena pronunciate – una pronuncia con le rondini negli occhi, e i
roseti –, conseguenti al mistero, da tenere a lungo sul palato, nel loro
avvelenato zucchero. S’intravede una cristianità senza paramenti, qui, senza più
tempio, sguainata, di avvenuto regno – un oro non disgiunto dal sangue.
In una memoria, Cucchi parla del “giovane timido e gentile” e di “diversi
faldoni colorati, una grande quantità di suoi versi. La quantità mi aveva un po’
sorpreso e un po’, inizialmente, anche scoraggiato…”. L’appunto, straniante, non
è estraneo alla pratica di questi poeti da primo uomo e da fine dell’umanità,
poeti senza tempo, di pleistocenico genio: la scrittura ‘continua’, la pratica
assidua che sconfina nell’incanto dell’ossesso. Tutto va cantato, continuamente
– nulla a che fare con le ‘occasioni’, ma con l’amore che la sentinella porta
all’aurora e alla notte bicorne, con la veglia perpetua. Quando s’interrompe il
canto, finisce il mondo.
***
Baci. Ma nell’aria c’è una
malattia dell’Essere: la chiami
noia per ripetermi e quindi
evadere ogni possibilità di offesa.
La chiamo «mondo» e, rinnovandomi,
c’è questa splendida facoltà di intesa.
*
Sinché resista questa scorza
d’uomo, sin che la polpa
non s’asciughi, apri
la finestra sul mondo:
perché di te sia inconsumabile
il vero vento e la reale rosa
bianca, dell’uno e dell’altro
bimbo, di quelli che reggono
il velo di Ecce Homo.
*
Perché la grazia sia verde,
e sia verde il contagio, avvicinati:
io spalmo di olio le tue mani.
E per andare lontano, più lungi,
sarò amante del dolore cristiano.
*
Chi sono? Una sillaba acquisita
nel cerchio provvidenziale,
la sicurtà che non è più straniera
nel prezzo quotidiano del dubbio
che io mi trovi in condizione immortale.
Ma il “tu” che non scappa dalla solitudine,
il testo reale e non imbrogliato,
la caduta sul suolo amato
sono l’ortica, che mi punge
come fa una mamma.
*
Separàti da un muro, l’idiota
e l’angelo scrivono lo stesso poema,
per venticinque anni, con grazia
di arguzie e senno squisitamente
demoniaco. E la stessa farfalla
entra ed esce, per ricapitolare
la storia dei suoi voli: ma quelle
folte rase sopracciglia dell’idiota…
e quel verso di ufo
che gli angeli atterrisce…
*
Se ti chini
sul mondo che si divide
del mezzogiorno
o della mezzanotte
in un giorno d’estate
vedrai e udrai
le foglie cantare
nate da te
dallo spirito dell’albero
con mille ciliegie
o le albicocche
e vedrai sentirai capirai
palpitare le ciocche di capelli
della tua bella
che non sa parlare.
E capirai sentirai
gli anelli dell’aria
di sé in stelle mutare.
*
Tu ed io abbiamo avuto sempre
poca dimora, ma tanto cielo.
Eppure forse tra i due quello
che più astiosamente cercò
l’esilio dalla terra, resto io:
ché dove suona il sole è sempre
pronta una macchia di sangue.
*
Pensò che le brune stelle
portavano alla scuola alla casa
al primo amore al libro.
Lo si vide sospirare per questo.
Lo si vide piangere per questo.
Per questo né amante né marito
ma rincasando una sera s’angosciò.
E non era stato solo il libro.
Il verme che tutti ci divora
è questa ansiosa ansia di lenzuola
che vestono il suo corpo in un sudario.
*
Ma per chi non ha strada
c’è la caverna dove un muto infante
si rifugia chiamando il padrone:
non scesi con la lampada nell’antro
né vidi i morti fare all’amore,
né pensai a mia madre china al cucito
né sorpresi il maestro che disegnava alfabeti.
Ma l’angelo che il fanciullo custodisce
era il mio seno nella casa segreta:
io ero la chiave e l’oltremondo
mani e piedi e bocca offerti al sacerdote.
Giuseppe Piccoli
*In copertina: Eugène Delacroix, Schizzi di tigri e uomini, 1828 ca.
L'articolo “Io ero la chiave e l’oltremondo”. Sulla poesia di Giuseppe Piccoli,
genio tragico proviene da Pangea.