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“Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle
Temi il folle: egli non farà né ciò che si conviene né ciò che conviene. Temilo perché è folle. E non gli estorcerai niente, di ciò su cui far leva è ragionevole, e vigliaccamente, secondo ragione, ricattare. Sarai capace di avvicinarlo solo nello stigma e nel timore. Egli non si redime né può, né ha da servirgli d’esser redento: e questo lo rende un Dio, al tuo confronto. Dove tu indugi, sarà tiranno, farà strame e macello. Dove tu tiri dritto, indugerà con gusto e letizia, e gentilezze squisite che non puoi né devi conoscere – inusitate e imprevedibili. Deliberatamente carezzerà il nemico, fuori d’ogni ragione utile, e trafiggerà chi gli sorride tendendogli la mano; ma potrebbe anche arrivare a torturare il suo torturatore, e il nemico far soccombere, fra sangue e guano, e senza una ragione, ancora, che tu comprenda o possa al modo suo.  Il suo genio è nudo, lo si sa, non ha strade segnate e avversa l’idea stessa di direzione. Alle pesanti palpebre della stagnazione, preferisce la follia esagitata del propugnare uscite dal solco. Delira, lo si sa, aggiunge all’ovvio più tondo logiche dispari e grappi di stelle acuminate. Siderali distanze lo separano dall’ordinario elevato a regola, è dissipatore d’anima e ingegno. Abbiate timore della sua bestiale, innocente virtù, perché porta tempesta dove non si alzerebbe un solo vento; perché depone doni e profferte all’altare della dissidenza più sistematica. Il suo pensiero coopta spesso Ockham, ma di gioco ridonda, sempre, e sperimentante bellezza. Il suo eccedere cuce in segreto le ferite senza voce del mondo, ma è anche la benedizione del bastante. Egli onora luoghi e parti di sé che i più ignorano o misconoscono, e sa che il suo linguaggio è enigma insolubile presso chi esibisce una povera grammatica prona alle leggi del verosimile e ai suoi regni filistei. L’audacia del suo fuoco è fulgida e sbilenca, divora parole cortigiane come smesse pelli, condanna ogni autismo intellettuale e morale, prende campo in una eterna battaglia per tenere in vita parti del mondo che altrimenti morirebbero in serie senza un lamento.  Ha presumibilmente conosciuto anguste corsie, di perdita di sé e estorsione di ciò che essere non voleva, e che strozzavano vista e cuore, cucivano il giorno e la notte in un’uguale trama di protratta anestesia. Ha conosciuto la guarigione come ricatto e la libertà gabellata per necessità di guarigione. Egli è guerriero, guerriero della mente e amico della mano sinistra. Innalza la bellezza al di sopra del suo stato bruto di vento tagliente e nuda terra, e la pone nel calice di un fiore muto. Strappa all’assenza un barlume di presenza, una traccia, qualcosa che aggira l’ovvio e descrive cerchi soavi di farfalla. Lotta contro i suoi stessi sogni, che ha visto mutare in incubi di piombo e cristallo, magma e tempesta – profondo come una galassia, temprato e destro al soffrire… Disperatamente fuori dal cerchio di luce del domato fuoco d’ogni civiltà. Temilo perché senza essere a modo tuo, egli è in sé, e più che te od altro. Temilo perché non fa ciò che serve, perché è un mostro e un Dio, in salute della sua malattia, che veleni morali non sa: tutti gli elementi in lui coesistono e sono, senza prevalere l’uno sull’altro, secondo ragione, che non sia natura alla natura sparsa, come lava nella lava. Temilo perché non potrai piegarlo avvicinandolo a te, perché non potrai ricattarlo – benedizioni o maledizioni non conoscendo, che inflitte siano, o da chicchessia ammannite. Egli è sempre distante oceani e stelle, egli è dove tu paventi e non comprendi: nel suo male e nel suo bene, ontico e ontologico assieme. Per questo né si salva né salvezza concepisce, e la sua colpa sempre, è originaria, i suoi fini terrifici e netti – che son l’una cosa e l’altra senza giustificazioni. Temilo perché lo torturasti proprio come un folle, quando violento non fu né esser voleva, e lo blandisti spremendo altra violenza, per paura della sua violenza, dalle nutrite tette della sua anima superiore. Temilo perché inventasti tu la colpa e la cura, e mai sapesti andare oltre il delitto dell’una nell’altra. Temilo perché Napoleone e Hitler furono e sono colpevoli, e non folli abbastanza, e della stessa tua colpa che abbisogna d’un concetto in soccorso all’inerzia del suo macchinico sfacelo, ma mai fuori da essa, se non per “pruderia” morale dell’inconcepibile. Temilo perché ottimizzare il delitto a scopi ritenuti superiori, è cosa tua e non sua. Temilo, perché, al fine, la libertà non potrà essere né merce né privilegio desunto – nel bene e nel male. Temilo in entrambe, dunque. Massimo Triolo *Nell’articolo: opere di Johann Heinrich Füssli (1741-1825) L'articolo “Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle proviene da Pangea.
July 21, 2025 / Pangea
“Io ero la chiave e l’oltremondo”. Sulla poesia di Giuseppe Piccoli, genio tragico
Cabbala del disincanto, dell’incastro a cose senza cautela; le date – altrimenti, meri ornamenti cronologici – paiono l’azzardo del demone che si gioca l’eternità a dadi. Giuseppe Piccoli esordisce al ‘grande pubblico’ nel 1981, nel fascicolo Poesia Tre edito da Guanda. In primo piano, figurano testi di Dario Bellezza e di Giorgio Caproni, di Andrea Zanzotto e di Maurizio Cucchi (che tanta parte avrà nella scoperta di Piccoli). Piccoli pubblica un mannello di versi, Di certe presenze di tensione, di aurorale bellezza, antartico alla fauna della poesia italiana del momento. Era nato poeta dieci anni prima, nel 1971, con un libro, Il padre pazzo, edito da Rebellato, sotto la cappa dello pseudonimo, Francesco Maria Ebreo. Titolo di preveggente mania. Nel settembre del 1981 quel poeta di inconsueto talento, “in un attacco di schizofrenia”, colpisce con un coltello da cucina i genitori: il padre morì pochi giorni dopo. Internato nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, Piccoli transita per diversi reclusori; nell’ultimo, quello di Aversa, nel febbraio del 1987, si toglie la vita. Avrebbe compiuto trentotto anni due mesi dopo, nel più crudele dei mesi; era nato a Verona.  Di Giuseppe Piccoli – un autentico paria della patria poetica – si sussurra di tanto in tanto, come si svela una sindone. Su questo foglio elettronico, nel 2018, ne ha scritto Silvano Tognacci; di recente, me ne ha instillato la lince, ben ingemmata nel cervello, Antonio Bux. Si diceva, tra l’altro, di una genia della poesia italiana – che da Dino Campana e Lorenzo Calogero e Lucio Piccoli arriva, tra singolarità d’Everest, a Ivano Fermini, Dario Villa, Gian Giacomo Menon e, appunto, a Piccoli – che abita l’altro linguaggio, una lingua, chissà, preadamitica, da mangiatori d’angeli, da precursori del fuoco, intorno a cui bisognerebbe ri-ragionare di un ‘canone’ (cannonizzando l’attuale). Sono questi – i laterali, i ronin, i dispersi e i disperati, i disparati – a costituire la vena indocile, dal caglio più puro, della letteratura nostra: dovremmo ricostruirne l’albero genealogico (dico a sprazzi: i ‘notturni’ di Tasso, Galeazzo di Tarsia, il Buonarroti poeta ‘caravaggesco’, Leopardi al bulino del conciatore di stelle, Boine…).  Quasi che: intorno al sacerdozio lirico ‘ufficiale’, attorno alla conclamata ecclesia di poeti cardinalizi, dovesse sorgere, per eccesso di povertà e d’innocenza, il ‘folle’, il fool, il “pazzo” (nel dirsi dell’Assisiate), a mo’ di capro espiatorio. Per poi riscoprirlo, notoriamente, postumo, e farsene docili – ma egli viene perché voi ne respiriate l’asperità, a quella aspiriate. Grati all’ingrato – direbbe, Andrea Ponso.   Giuseppe Piccoli (1949-1987) Mi placo. È stato Maurizio Cucchi a insediare Giuseppe Piccoli tra i grandi Poeti italiani del secondo Novecento. Nell’antologia omonima (Mondadori, 1996; 2004) Cucchi parla di “un inconsueto dire enigmatico, tra profetico e quotidiano, che non è collegabile con altre esperienze di autori del suo tempo”, parla di “originalità e forza di una fisionomia poetica tra le più notevoli della sua generazione”; accenna a qualche nobile lettura – Rebora e Campana, soprattutto – pur restando, Piccoli, “per strade del tutto autonome”. Piccoli viene inserito in una sezione fittizia, “Tendenze di fine secolo”, che lo accomuna, per puro dato anagrafico, immagino, a Viviane Lamarque e a Roberto Mussapi, a Franco Buffoni e a Gianni D’Elia, tra gli altri. Una silloge di Piccoli, Foglie, fu accolta nell’Almanacco dello Specchio edito da Mondadori nel 1983: insieme a lui, testi di Kavafis e di Marguerite Yourcenar, di Ferruccio Benzoni e di Ted Hughes, di Roberto Mussapi e di Mario Luzi.  Il primo libro incompiutamente compiuto di Piccoli uscì postumo, per Bertani, nel 1987, Chiusa poesia della chiusa porta. A curarlo, Arnaldo Ederle, fraterno di Piccoli. Proprio Ederle dedica a Piccoli due servizi su “Poesia”, la rivista di Nicola Crocetti: prima nel febbraio del 1997 (Giuseppe Piccoli. Del corpo e dell’anima, n. 103), poi nel febbraio del 2007 (Giuseppe Piccoli. Tre presenze, n. 213), in cui ricostruisce la vita lirica, l’ispirazione inafferrabile del poeta, assemblando “altre tessere del mosaico drammatico di Giuseppe Piccoli che ribadiscono lo spessore della sua presenza nel quadro non solo poetico, ma anche sociale e umano dei nostri giorni, evidenziando, nelle zone più dolenti dello spirito, le profonde inesauribili risorse della sensibilità artistica che riscattano, nel segno della poesia, il significato di un’intera esistenza”. Nel 2012, per Lietocolle, Maria Piccoli ha curato Fratello poeta: il libro risulta “non disponibile”, da allora non c’è traccia di pubblicazioni. Efficace il sunto che ne fa Nicola Crocetti:  > “L’emarginazione dovuta alla sua vicenda personale si ripercuote sulla sua > poesia, e rende difficile il suo riconoscimento artistico. Perché Giuseppe > Piccoli è un ottimo poeta, uno dei migliori della sua generazione. E > nonostante l’interessamento di rari amici (Arnaldo Ederle, Maurizio Cucchi), > la sua ricca produzione di versi (dieci volumi; il primo, Il padre pazzo, del > ’71) è ancora pochissimo nota”. > > (Prima disperazione. Piccoli, gli ardori del «ladro di fuoco», in “il > Giornale”, 6 luglio 2014). Il nocciolo di versi qui trascritti testimonia un irredimibile candore, il purissimo ‘nuovo mondo’ nella mente del poeta: non è il tragico a confonderci, ma il confinamento in una perenne primavera. Un alleluia da oltremondani, da oltraggiati, che nelle minime cose del creato assiste a una rivelazione con gli uncini, alla casa infuocata che chiami, per analogia, sole. Così al dolore è consegnato un supremo detto dono. Sono poesie cristalline, queste, che si sbriciolano appena pronunciate – una pronuncia con le rondini negli occhi, e i roseti –, conseguenti al mistero, da tenere a lungo sul palato, nel loro avvelenato zucchero. S’intravede una cristianità senza paramenti, qui, senza più tempio, sguainata, di avvenuto regno – un oro non disgiunto dal sangue.  In una memoria, Cucchi parla del “giovane timido e gentile” e di “diversi faldoni colorati, una grande quantità di suoi versi. La quantità mi aveva un po’ sorpreso e un po’, inizialmente, anche scoraggiato…”. L’appunto, straniante, non è estraneo alla pratica di questi poeti da primo uomo e da fine dell’umanità, poeti senza tempo, di pleistocenico genio: la scrittura ‘continua’, la pratica assidua che sconfina nell’incanto dell’ossesso. Tutto va cantato, continuamente – nulla a che fare con le ‘occasioni’, ma con l’amore che la sentinella porta all’aurora e alla notte bicorne, con la veglia perpetua. Quando s’interrompe il canto, finisce il mondo.   *** Baci. Ma nell’aria c’è una malattia dell’Essere: la chiami noia per ripetermi e quindi evadere ogni possibilità di offesa. La chiamo «mondo» e, rinnovandomi, c’è questa splendida facoltà di intesa. * Sinché resista questa scorza d’uomo, sin che la polpa non s’asciughi, apri la finestra sul mondo: perché di te sia inconsumabile il vero vento e la reale rosa bianca, dell’uno e dell’altro bimbo, di quelli che reggono il velo di Ecce Homo.  * Perché la grazia sia verde, e sia verde il contagio, avvicinati: io spalmo di olio le tue mani. E per andare lontano, più lungi, sarò amante del dolore cristiano.  * Chi sono? Una sillaba acquisita nel cerchio provvidenziale, la sicurtà che non è più straniera nel prezzo quotidiano del dubbio che io mi trovi in condizione immortale. Ma il “tu” che non scappa dalla solitudine, il testo reale e non imbrogliato, la caduta sul suolo amato sono l’ortica, che mi punge come fa una mamma. * Separàti da un muro, l’idiota e l’angelo scrivono lo stesso poema, per venticinque anni, con grazia di arguzie e senno squisitamente demoniaco. E la stessa farfalla entra ed esce, per ricapitolare la storia dei suoi voli: ma quelle folte rase sopracciglia dell’idiota… e quel verso di ufo che gli angeli atterrisce… * Se ti chini sul mondo che si divide del mezzogiorno o della mezzanotte in un giorno d’estate vedrai e udrai le foglie cantare nate da te dallo spirito dell’albero con mille ciliegie o le albicocche e vedrai sentirai capirai palpitare le ciocche di capelli della tua bella che non sa parlare. E capirai sentirai gli anelli dell’aria di sé in stelle mutare. * Tu ed io abbiamo avuto sempre poca dimora, ma tanto cielo. Eppure forse tra i due quello che più astiosamente cercò l’esilio dalla terra, resto io: ché dove suona il sole è sempre pronta una macchia di sangue. * Pensò che le brune stelle portavano alla scuola alla casa al primo amore al libro. Lo si vide sospirare per questo. Lo si vide piangere per questo. Per questo né amante né marito ma rincasando una sera s’angosciò. E non era stato solo il libro.  Il verme che tutti ci divora è questa ansiosa ansia di lenzuola che vestono il suo corpo in un sudario. * Ma per chi non ha strada c’è la caverna dove un muto infante si rifugia chiamando il padrone: non scesi con la lampada nell’antro né vidi i morti fare all’amore, né pensai a mia madre china al cucito né sorpresi il maestro che disegnava alfabeti. Ma l’angelo che il fanciullo custodisce era il mio seno nella casa segreta: io ero la chiave e l’oltremondo mani e piedi e bocca offerti al sacerdote.  Giuseppe Piccoli *In copertina: Eugène Delacroix, Schizzi di tigri e uomini, 1828 ca. 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June 6, 2025 / Pangea