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“Estinguerci sarebbe una benedizione – ma possiamo provare a risvegliarci”. Dialogo con Jorie Graham
Nel 1997 il “New Yorker” dedica un ampio servizio a Jorie Graham, “the most celebrated American poet of her generation”. L’articolo, Big Poetry, è bello, ardito, arioso. Stephen Schiff ha agio nel mostrarci la poetessa “vestita di nero dalla testa ai piedi, con un numero sufficiente di bracciali, collane e anelli da far venire l’ernia a una danzatrice del ventre”. Studenti, studiosi, passanti le fanno spazio “con tenero riguardo e cenni di assenso”. Nella fotografia che ingioiella l’articolo, la Graham ha uno sguardo colpevolmente innocuo. Il giornalista la descrive così: “occhi vasti, vispi; fronte aperta, bocca che sboccia nel broncio e dappertutto una massa di capelli scuri”. Alcuni – compreso Mark Strand, il poeta – sussurrano, “è un genio”.  Nata a New York da Curtis Bill Pepper – inviato speciale per “Newsweek”, scrittore, autore, tra l’altro, di un romanzo biografico centrato sulla vita di Leonardo da Vinci – e da Beverly Pepper, scultrice, cresciuta a Roma, studi alla Sorbona e alla New York University, la Graham è stata, da ragazza, assistente di Michelangelo Antonioni: voleva fare la regista. Esordisce alla poesia nel 1980 con Hybrids of Plants and of Ghosts, subito elogiato dal “NY Times” – dissero di “una poetessa di enormi ambizioni, dal ritmo spericolato” –; seguono libri pressoché infallibili – The End of Beauty, 1987 e Region of Unlikeness, 1991, ad esempio – fino al “Pulitzer for Poetry”, ottenuto nel 1996 con The Dream of the Unified Field. “Poetry” la definisce “uno dei poeti statunitensi più noti e celebrati della generazione post-bellica”: ogni suo libro è – per natura lirica tellurica – un ‘caso’. Jorie Graham, potremmo dire, esercita una politica attraverso la poetica. Per dirla in modo più frugale, usando le parole del critico americano Calvin Bedient, la Graham “è una campionessa mondiale nel porre le domande più radicali… Ciò che le importa è la speranza insita nell’interrogativo, non la risposta”. Anche l’ultimo libro, 2040, è un libro interrogativo, è un libro-scavo – dacché ogni domanda prevede una zappa, una pala, il desiderio di dissotterrare qualcosa interrando qualcos’altro. Scritto dal 2020, pubblicato nel 2023, tradotto quest’anno da Crocetti, 2040 ha per interrogativo l’estinzione dell’uomo e il massacro del creato. “Protagonista principale di questa raccolta poetica è una speakerautobiografica che vaga, sola e disorientata, in uno spazio avvolto nel silenzio, in limine fra un mondo che non esiste più e a un passo dalla potenziale estinzione dell’umanità e della sua storia millenaria”, scrive Antonella Francini, la traduttrice della Graham in Italia, nella partecipe introduzione al libro, Il potere della memoria. Il libro ruota intorno a una lettera Al 2040 – p.78 della versione italiana – di cocente bellezza:  “Gli anni spinsero la loro durata in noi come lunghe corde bagnate, e noi ci aggrappammo, ci tennero appesi per andare avanti, & in alto, ci impedirono di annegare nei minuti terribili. Una volta mi sedetti & piansi mentre guardavo sorgere il sole & i fiocchi cadere come ignara del movimento dalla notte al giorno – ci sia almeno una differenza – altrimenti qualsiasi cosa rimanda del desiderio se ne andrà – altrimenti non ci sarà  nulla di ciò che ho salvato – nulla da salvare – fate rifiorire il giorno in un segmento di tempo – fa freddo – il sogno è cosa difficile da scorgere” Il libro alterna parti in prosa a vertigini in versi, estreme cupezze ed estreme tenerezze. Si vedono boschi, nevi, uccelli a sciami, sciabordio di bestie – e malinconia, rapimento, rabbia. Pochi umani in giro.   > “Non ho nulla da offrire. > Il mondo è sempre stato > pronto per il mondo.  > Il fiume in secca. > Vedo pesci sulle rive senza uccelli. > Cuore umano, mi dico, cosa ci fai qui, questo è troppo > per posarci > lo sguardo. > I pesciolini galleggiano nel salmastro.  > La corrente rallenta. Gridi di uccelli della sera come vetro infranto, > un grido e hanno finito”. Non è, fieramente, un poeta facile, Jorie Graham. Non è poeta di proclami, bensì di rivelazioni e di affondi. È stata la prima donna, ad Harvard, ad aver coperto la cattedra di “Rethoric and Oratory” che fu – tra gli altri – di Seamus Heaney. Per capire il ‘personaggio’ – o meglio: l’impeto politico di una intellettuale totale –: Jorie Graham è tra i produttori di The Voice of Hind Rajab, il film che ha straziato la scorsa Mostra internazionale del cinema di Venezia – da cui ha raccolto il Leone d’argento – e che racconta l’uccisione di una bambina palestinese, Hind Rajab, appunto, da parte dell’esercito israeliano.  L’ultimo libro di Jorie Graham è previsto per il prossimo anno. S’intitola Killing Spree. Il suo ‘metodo’ lirico mescola i modi di Wallace Stevens ai toni del contemporaneo, i ‘modernisti’ alla modernità. I temi sono quelli di oggi, urticanti: “devastazione ambientale, senso della perdita, instabilità politica”. Credere nel potere della parola, nel segreto sussurrato dal verbo, penso – dopo tutto, confidare con sciamanica ostinazione in un qualche risveglio.  Mi pare che 2040 sia un libro, allo stesso tempo, potentemente poetico e fortemente “politico”. Esprime una poetica della politica. Come è nato – e perché? La poesia è in primo luogo uno strumento in grado di mettere in moto l’intera anima (“dell’uomo”), come ci ricorda Coleridge. Quindi, siccome vivo in un mondo che va verso l’autodistruzione e siccome la poesia nasce dall’esperienza del poeta – corpo, mente, anima – non c’è altra esperienza che possa guidare la mia scrittura. Non ho altro corpo se non questo corpo mortale. Come ci ricorda Aristotele, siamo per natura “animali politici”. Vorrei sottolineare questa nostra caratteristica di mammiferi capaci di intuire nei minimi dettagli i pericoli, anche lontani, come se li percepissimo attraverso i nostri pori. Siamo attraversati da una profonda intuizione. Il nostro obiettivo è sopravvivere. La poesia è uno dei grandi strumenti che lo spirito umano ha sviluppato per esprimere e approfondire gli istinti della sua natura animale e spirituale. Potremmo dire che i nostri millenni di poesia sono il nostro manuale d’istruzioni per quanto riguarda ciò che serve a rimanere umani in mezzo a tutte quelle forze – interne e esterne – che gravano su di noi allo scopo di disumanizzarci o indurci a distruggere il resto del creato. Mi risulta che anche il termine “umano” venga oggi messo in discussione. Abbiamo fatto così tanto male, e continuiamo a farlo. Forse la nostra estinzione sarebbe una vera benedizione per questa terra. Ma credo, tuttavia, che in noi esista ancora l’istinto di provare a risvegliarci. Ecco dove la poesia e la politica si incontrano. Che rapporto c’è tra “politica” – nel senso ampio, greco del termine – e “poesia”? Intendo dire: cosa significa per un poeta, per lei, “prendere posizione”? Cosa significa per un poeta la parola “impegno”? In questo momento, negli Stati Uniti – come altrove – proprio le parole che usiamo implicano il rischio concreto di essere presi di mira politicamente dal governo – se così possiamo chiamarlo. Per noi il cui mestiere ha a che fare interamente con le parole – e con le attività palesi e occulte svolte dalle parole nell’animo umano, nella coscienza, nella memoria, sulla realtà e il suo senso – è strano vedere il loro potere (e la storia e l’immaginario che esse evocano) andare in questa direzione. Proprio mentre ci stavano convincendo che la nostra vita è interamente immersa in una “cultura dell’immagine”, l’uso di una parola come “genocidio” può portare a essere licenziati, molestati, arrestati o fatti sparire dalle nostre forze di polizia private e pubbliche. L’effetto che tutto questo ha su ciò che abbiamo tra le mani quando si mette la penna sulla carta è notevole. Nel mio nuovo libro, Killing Spree, che uscirà a maggio negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ci sono momenti, ovunque in quelle poesie, in cui le decisioni che devo prendere su quali parole usare implicano considerazioni extra-letterarie. Questo testimonia il potere di un tale mezzo che anche nell’era dell’intelligenza artificiale restituisce la vera forza e il vero valore a un essere umano quando pronuncia una parola nella sua condizione vulnerabile, precaria e mortale, al contrario di un bot. Solo attraverso il sangue e la carne le nostre parole sono “engagé”. Vorrei entrare, come direbbe Hawthorne, nella sua “camera stregata”. Quali immagini l’hanno ispirata durante la scrittura di 2040? Quale immaginario linguistico? Quali “fonti”? Abbiamo vissuto un periodo di intensa siccità – che fa in realtà da sfondo a 2040 – mentre io mi sottoponevo a un intervento chirurgico, alla radioterapia, alla chemio.  La popolazione aviaria ha subito drastici cambiamenti durante quei mesi. Alcune specie di alberi sono state attaccate da malattie causate da nuovi insetti portati dai venti degli uragani che hanno messo a rischio la sopravvivenza del nostro bioma. Mi sono ritrovata calva e sbalordita lottando per mantenere le mie forze e salvare i “miei” alberi. Camminavo ogni giorno per chilometri (come mi aveva consigliato la mia oncologa) e durante quelle passeggiate nelle nostre foreste ero determinata a sopravvivere entrando in contatto con la forza magnetica della terra sotto i miei piedi. Quasi tutte le poesie sono state inizialmente composte mentre camminavo, tranne quelle che considero odi – “La quiete”, “Nebbia”, “Arco temporale”, “Il visore VR”, “Giorno” –, sorte nell’intervallo tra una seduta di chemio e l’altra, quando ero troppo debole per camminare. Cosa può fare la poesia nel confronto con la Storia? Che cos’è in fondo “la poesia”? Ci sono molte risposte a questa domanda e mi sento un po’ sciocca nel cercare di rispondere. Ma si potrebbe dire che, fra tutti i tipi di storie che creiamo attraverso lo scorrere del tempo e il suo evolversi mortale, tramite le sue catastrofiche sorprese e i suoi visibili colpi di scena, la poesia è la storia che si impegna a rivelare la vita dell’anima. Forse l’evoluzione dell’anima. Forse la sua permanenza. Forse le sue illusioni o le sue epifanie o i suoi ‘presagi di immortalità’. Ed è meglio, forse, se si porta dietro il minor carico possibile. Così quel carico si affida alla musica del verso per mantenere il suo significato rapace, da scoprire, in volo, affidabile e vivo. Ecco perché devo lavorare così tanto sulla musica – nell’originale e poi, con Antonella Francini, riscrivendola in quella lingua miracolosa che è l’italiano. Ritagli un pezzo di 2040 che le sembra esemplare e mi dica perché.  Le rispondo indirettamente. Oggi, in un’epoca in cui stanno scomparendo la capacità di leggere e comprendere (la capacità di concentrazione e la capacità di sostenere tempi prolungati), penso molto all’idea di Wallace Stevens secondo cui “la poesia deve resistere all’intelligenza quasi con successo”. Quel quasi è essenziale perché costringe a usare i sensi insieme all’intelletto. Cura la dissociazione della sensibilità di cui parlava Eliot con incredibile lungimiranza, che oggi sta distruggendo la nostra gente. Leggo il suo nome tra i produttori di “The Voice of Hind Rajab”: come mai? All’inizio ho dato una mano. Sembrava davvero impossibile trovare persone disposte a finanziare quel film. Poi ho dato consigli sulla sceneggiatura, infine sulle diverse versioni della pellicola. Le devo ricordare che io sono una regista inappagata. Da giovane, a Roma, ho collaborato con Antonioni come assistente alla ricerca. Ho frequentato la scuola di cinema alla New York University. Perciò, quando ora mi viene chiesto di fornire un feedback ad alcuni film – specialmente documentari – nelle loro varie fasi, torno a usare la mia immaginazione cinematografica. Alcuni critici sostengono da anni che la mia poesia sia influenzata dal cinema, in particolare dalle tecniche dell’editing e del montaggio che ho studiato da giovane. E ora… quale progetto di scrittura la anima? Come ho già accennato, ho appena finito di scrivere un nuovo libro, Killing Spree, che uscirà a maggio. È stato composto durante questi ultimi tre anni in cui la follia di genocidio, tirannie, fame e IA estrema – sempre presenti fra noi – hanno raggiunto un livello tale da essere in primo piano sul palcoscenico.    *La traduzione dell’intervista è di Antonella Francini In copertina: Jorie Graham; photo Alvaro Almanza L'articolo “Estinguerci sarebbe una benedizione – ma possiamo provare a risvegliarci”. Dialogo con Jorie Graham proviene da Pangea.
November 8, 2025 / Pangea
“Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con Maria Borio
Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955, sessantanove anni dopo la sua morte. Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto, c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia femminile – se non addirittura femminista. Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore, 2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma. Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua produzione. La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano, infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”. Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018). Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.  Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham, tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti? Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva, esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione. Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo “andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare sempre la rima? La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi. La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina, contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una tangibile universalità. Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da rendere in italiano? Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori” in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…, l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane. Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi – addirittura rovinati, storpiati? Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia come forma di intelligenza. L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea? C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a tuo parere? L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione: un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per interrogare. “Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor Crollo –”. Commenteresti questi versi? Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta? L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente, Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”, ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al vaglio di un’interrogazione. Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa visione? Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e decreazione continua di rapporti. Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato maggiormente questi aspetti? Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e metafisica, Montale è vicino a Dickinson. Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo. “Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla realtà? Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso. Anna Taravella ** 657 Io abito nella Possibilità – Una Casa più bella della Prosa – Più abbondante di Finestre – Più ricca di Porte – Di Camere come Cedri – Inespugnabili dall’Occhio – E come Tetto Eterno Le volte del Cielo – Di Visitatori – i più belli – Per il Lavorìo – Questo – Dispiegare ampio delle mie strette Mani A raccogliere il Paradiso – * 1129 Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua – Il successo sta in un Circuito Troppo brillante per la nostra debole Delizia La sorpresa stupenda della Verità Come il Fulmine che per i Bambini si attenua Con spiegazioni soavi La Verità deve abbagliare gradualmente O tutti sarebbero ciechi – * 599 C’è un dolore – così totale – Che ingoia l’Essere – Poi copre l’Abisso con lo Stordimento – Così la Memoria può passarci Intorno – Attraverso – Sopra – Come chi in un Delirio – Vada sicuro – un occhio aperto – Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso – * 997 Sgretolarsi non è l’Atto di un istante Una pausa fondamentale, I processi di Disgregazione Sono Decadimenti organizzati – Prima c’è una Ragnatela sull’Anima Una Pellicina di Polvere Un Tarlo nell’Asse Una Ruggine Primaria – La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo Consequenziale e lento – Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto Scivolare – è la legge del Signor Crollo – * 258 C’è un certo Taglio di luce, Pomeriggi d’Inverno – Che opprime, come la Gravità Delle Melodie da Cattedrali – Una Ferita celeste, ci procura – Noi non troviamo la cicatrice, Ma un’intima differenza, Dove è ciò che conta – Nessuno può insegnarla – Nessuno – È il Sigillo della Disperazione – Un’afflizione imperiale Mandata a noi dall’Aria – Quando arriva, il Paesaggio ascolta – Le Ombre – trattengono il respiro – Quando se ne va, è come la Distanza Negli occhi della Morte – * 642 Bandire – Me da Me stessa – Ne avessi l’Arte – La mia Fortezza invincibile Da Ogni Cuore – Ma poiché Io stessa – Mi assalto – Come potrei aver pace Se non soggiogando La Coscienza? E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra Come potrebbe essere Se non Abdicando – Me – da Me? Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob Blakesley, Crocetti, 2025 L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con Maria Borio proviene da Pangea.
April 11, 2025 / Pangea