Tag - Gnosticismo

“Oltrepassa la soglia del visibile”. Sulla Sapienza di Gesù Cristo
Il Vangelo di Marco, come si sa, finisce con un colpo di ghigliottina, con una immedicabile cesura. Giunte al sepolcro vuoto, le tre donne – “Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome” – scappano, “fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore”. Paura le ammutolisce, “e non dissero niente a nessuno”.  Se investighiamo il greco le cose assumono un’altra sfumatura. Le donne scappano perché tremano (tromos) colte da estasi (ekstasis). Sono come in trance, sono fuori di sé, rapite da dionisiaca ebbrezza: anch’esse un sepolcro vuoto. Uno degli epiteti del “Dio vivente” è il terrore: è “terribile (phoberos) cadere nelle mani del Dio che vive”, scrive Paolo. Un terrore che impone riguardo, devozione.  Alle estatiche donne un misterioso “giovane… vestito d’una veste bianca”, assiso di fianco al sepolcro, dice che “Gesù Nazareno, il crocefisso, è risorto, non è qui… Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete”. Il timore delle donne davanti al giovane (“ed ebbero paura”) ricorda il turbamento di Maria di fronte all’angelo: lì si annunciava una nascita miracolosa, qui una ancor più miracolosa seconda nascita. È più facile credere all’invisibile che si annuncia in nuce d’angelo che alla verità di un corpo disfatto, maciullato, sviscerato, disossato di sé, grave di sangue.  Chissà se poi le donne sono andate, in Galilea.  La Sapienza di Gesù Cristo comincia da lì: dal dubbio, dal timore, dall’estasi. Il testo gnostico, databile tra il II e il III secolo, è conservato nel Papiro di Berlino (1896), tra i papiri di Ossirinco e nella vasta messe di testi scoperti a Nag Hammadi. Era dunque testo noto, importante, fin nella sovrabbondanza del titolo. In lingua inglese esiste la traduzione completa di Douglas M. Parrott; Mauro Pesce ne ha inglobato alcune lasse in Le parole dimenticate di Gesù (Fondazione Lorenzo Valla, 2004). In questa Sophia, il Cristo appare trasfigurato, irriconoscibile (“non nella forma che ricordavano”): il dialogo con i discepoli – la prima domanda, che implica una gerarchia, è di Filippo; poi prendono la parola Matteo, Tommaso, Maria e Bartolomeo – permette al Salvatore di spiegare la creazione del mondo e del tempo, il fine del creato, il destino dei discepoli. Secondo la cosmogonia gnostica, esiste un Padre originario, un pre-Padre, che inaugura la lenta opera di autoconoscenza; Sophia è l’elemento femminile del divino. Alle origini, è un proliferare di legioni angeliche, di celesti esseri, di abnormi creature in una continua dinamica di azione e distruzione (d’altronde, “C’erano sulla terra i giganti”, si dice in Gn 6, 4). Il Salvatore, per così dire, è eccedenza – finanche, difetto, benefico veleno – nell’ordine delle cose: rompe lo schema di vita-e-morte, si disgrega dall’immobilismo divino, porta la luce “vengo per estirparvi dall’oblio”. Il Salvatore è una figura prometeica.  La Sophia Jesu Christi fonde la rivelazione evangelica ai misteri greci; ciò che anima il testo è ossessione per la salvezza, per la purificazione; centrale è la domanda sul senso del male, centrale è il corpo corrotto che tenta riparo, ristoro. Il sistema gnostico prevede un’aristocrazia dell’intelletto: si ascende tramite strenuo percorso conoscitivo. Ciò che svanisce, è la cuspide dell’evangelo: il Crocefisso, l’Iddio dei corrotti, l’Iddio dal corpo rotto e in rovina. Tale carnalità latra – incute terrore. Il non avere altro che quello – sangue che stilla dalle stimmate – confonde, confina nel dubbio. Nella Sophia, secondo lo schema della sapienza greca, il Padre forgia il creato dopo essersi osservato in uno specchio (“Vide se stesso in uno specchio”). Ma lo specchio è il demoniaco – la copia che divora l’origine, l’originario. A dire di Proclo, fu Efesto a “fabbricare uno specchio per Dioniso” e “il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”. Figura ambigua, lo specchio: fa dell’apparente un’apparizione; chi cerca di riconoscersi in esso si trova disconosciuto, contraffatto. Cosa deve vedere di sé il Padre in uno specchio – cosa che già non sappia? Nella Sapienza di Gesù Cristo lo specchio è abisso, buco nero, vortice – è la grande vulva, il dio per sempre gravido che crea copie di copie di copie di sé. Dio-feto, dio-incesto.  Nel Vangelo, piuttosto, il Padre si rispecchia nel Figlio; Gesù si rispecchia nei volti sbigottiti dei discepoli – fino a che punto il Risorto è diverso dal Nazareno?  In questo gioco di specchi – che, contrapposti, sfoggiano l’infinito – cosa resta, quale l’arenaria che possiamo dire ‘immagine’? Quale l’originale? San Paolo – in 1 Cor 13, 12 – lega lo specchio all’enigma: lo specchio-Sfinge ci fissa divinandoci, divorandoci. Lo specchio-Polifemo, lo specchio-Sauron: nostro compito è sfuggire all’onnipotente fame dello specchio per ridiventare noi, per ricondurci nel greto della vera forma.  Galilea – il luogo dell’appuntamento con il Risorto, che è il luogo dove tutto ha avuto inizio (Mc 1, 14) – è il lemma di una geografia sapienziale, è nome al di là del nome. Come fu Israele per gli ebrei, Galilea sia il nuovo nome dei cristiani: Galilea è il luogo in cui tutto si sprigiona, in cui tutto si sbriciola.  Il proliferare dei detti gnostici null’altro dice se non che la conoscenza è il solo peccato, è l’ambone da cui professa il demone della separazione e della confusione. Gesù non si apprende perché è lui il predatore, è lui che ti prende. Gesù, il sommo analfabeta – secondo la spiazzante intuizione di José Bergamín – non si installa in codici, in grammatiche, in enciclopedie. La sola sapienza, qui, è l’insipienza, l’uscita da sé, la santa insania dei folli e degli ispirati. Il regno di questo mondo – dei filosofi e degli esperti, degli scaltri e dei letterati – mostra la sua indecente indegnità: tutto è disperso, ora – chiamateci disperati, è sconveniente, ai vostri occhi, perfino questa gioia che ha dote di lacrime.  ** Sapienza di Gesù Cristo (II secolo) Dopo essere risorto dai morti, i dodici e sette donne lo seguirono, si diressero in Galilea nel monte detto ‘Divinazione e Gioia’. Uniti, erano, e dubbio li avvelenava sulla realtà dell’universo, sui piani della santa provvidenza, sul potere delle potenze e su tutto ciò che il Salvatore compiva nel segreto. Allora apparve il Salvatore – non nella forma che ricordavano ma in invisibile spirito. Somigliava al grande angelo della luce. Ma non mi è dato descrivere il suo aspetto. Nessuna carne mortale può contenerlo, ma solo la carne pura e perfetto che egli ci ha mostrato sul monte detto ‘Degli Ulivi’.  E disse: “Pace a voi, a voi do la mia pace”. Spavento li confuse. Rise il Salvatore dicendo, “Cosa pensate? Che dubbio vi divina? Di cosa siete in cerca?”.  * Disse Matteo: “Signore, a verità nessuno può accedere se non tramite te. Inoltraci alla verità”. Disse il Salvatore: “Colui che È è ineffabile. Nessuno principio lo preda né autorità né obbedienza a creatura alcuna dalla fondazione del mondo – proviene dalla Prima Luce e soltanto a chi vuole si rivela. Da ora io sono il Grande Salvatore. Immortale, eterno egli è. Non ha nascita perché ogni cosa che nasce muore. Ingenerato, non ha inizio – chiunque ha inizio, infatti, finisce. Nessuno lo governa e non ha nome – chiunque ha nome, è la creazione di un altro… È infinito, dunque è incomprensibile. È imperituro e non somiglia a nulla. È immutabile nel bene. È senza difetto. È eterno. È il benedetto. Da tutti sconosciuto, è la conoscenza in sé. Incommensurabile – irraggiungibile – perfetto – immortale. Ditelo: ‘Padre dell’Universo’”.  * Maria gli chiese: “Signore, come possiamo conoscerlo allora?” Il Salvatore, il perfetto, disse: “Giungi alle cose invisibili, oltrepassa la soglia del visibile. Il Pensiero ti rivelerà che la fede nell’invisibile si trova setacciando le cose visibili, investigandole. Chi ha orecchie per udire, ascolti! Non ‘Padre’ si chiama il Signore dell’Universo, ma ‘Pre-Padre’, principio di chi apparirà, antenato che non ha inizio. Vide se stesso in uno specchio – si vide somigliante a se stesso – apparizione pari al Divino Padre di Sé, confronto di ogni confronto, il Primo Esistente Ingenerato Padre. Pari in antichità della Luce che lo precede ma non lo eguaglia in potenza. In seguito apparve moltitudine di esseri autogenerati, eguali in età e potenza, in gloria, innumeri, la cui stirpe è detta ‘Generazione Senza Regno’. Quella moltitudine non soggetta a regno è detta ‘Figli del Padre Ingenerato, Dio, Salvatore, Figlio di Dio’, e con voi ha somiglianza. Ma ora lui è lo Sconosciuto, l’inconoscibile grave di inalterabile gloria, di ineffabile gioia. Tutti riposano in lui, esultano in lui, giubilo che non ha misura; questo non è mai stato udito finora negli eoni e nei mondi”. Matteo gli chiese: “Signore, Salvatore, come si è rivelato l’Uomo?” Il perfetto Salvatore disse. “Voglio che tu sappia che colui che apparve all’universo nella sua infinità, l’Auto-eletto, l’Innato, il gravido di luce, al principio, quando decise di dare la sua immagine a una potenza, quella Luce apparve come l’Immortale Uomo Androgino, affinché attraverso di lui potessero giungere a salvezza e risvegliarsi dall’oblio, attraverso l’inviato, il solo interprete che è con voi fino alla fine della povertà e della razzia.  Sua consorte è Sophia, fin dal principio destinata a unirsi a lui tramite il Padre Auto-generato e l’Uomo Immortale, che apparve come Primo in divinità e regno, come concesso dal Padre. E creò un grande eone, ‘Ogdoade’ è il suo nome, in onore alla sua maestà. Autorità gli fu data e nel suo governo creò povertà. Creò dèi e angeli, arcangeli a miriadi, da quella Luce e tripartito Spirito che è Sophia, sua consorte. Da questo, Dio originò divinità e regno. Da allora è ‘Dio degli dèi’, è detto ‘Re dei re’.  Da ciò che fu creato apparve ciò che fu plasmato; da ciò che fu plasmato ciò che fu formato; da ciò che fu formato ciò che fu nome. Così nasce la differenza tra gli ingenerati, dal principio al termine”.  * “Chi viene al mondo è una goccia di Luce: viene al mondo per ricondursi nella Sua custodia. Vincolo di dimenticanza volle Sophia, perché attraverso di lei l’Onnipotente possa rivelarsi in questo modo povero nonostante la cecità l’arroganza l’ignoranza con cui lo riempiono di nomi. Ma io sono giunto dai luoghi superiori per volontà della Luce, io sono slegato da ogni vincolo; ho spezzato l’opera dei ladri e dei bugiardi; ho trafugato la goccia di luce di Sophia perché portasse frutto attraverso di me, perché la gloria si diffonda e i suoi figli, non più imperfetti, possano ritornare al Padre. Io vengo per estirparvi dall’oblio, perché l’impuro non si manifesti più: calpesto ogni malvagio intento”.  *In copertina: William Blake, The Angel Michael Binding Satan, 1805 ca. L'articolo “Oltrepassa la soglia del visibile”. Sulla Sapienza di Gesù Cristo proviene da Pangea.
October 30, 2025 / Pangea
“Un alfabeto di luce”. Willis Barnstone, il patriarca della poesia americana
Ha la faccia del predestinato, Willis Barnstone, il patriarca della poesia americana, ha una faccia di cera, che puoi modellare a tuo piacere, che può prendere qualsiasi forma. Nato a Lewiston, Maine, nel 1927, finì su un giornale, il “New York Daily News”, la prima volta, per caso, da bambino: invitava Babe Ruth, il leggendario giocatore di baseball, a una raccolta fondi per gli orfani, per gli sfortunati dei quartieri infimi. Quarant’anni dopo, lo vediamo al braccio di Jorge Luis Borges, a Buenos Aires. Lo scrittore argentino, arso da cecità, ha il solito sguardo, nei labirinti dell’invisibile; Willis fissa la camera, perplesso, pare uno Zelig; indossa un completo bianco, il registratore a tracolla.  Lavoreranno insieme a lungo, per un paio di decenni: Barnstone accompagnerà Borges in un importante ciclo di conferenze negli States, ad Harvard, alla Columbia, a Chicago; ne sortì un libro, Borges at Eighty: Conversations, passato in Italia come Conversazioni americane (Editori Riuniti, 1984). Secondo Barnstone (in: Borges the Poet, a cura di Carlos Cortínez, The University of Arkansas Press, 1986), Borges è un Poet of Ecstasy: “Per quel che posso capire, Borges è un composto instabile, un composto misterioso, che cerca incessantemente di trovare la condizione stabile, la cifra o la formula o la chiave della propria essenza, ma è destinato a eterna metamorfosi. Muove cioè dall’entasis (essere in sé) all’ekstasis (essere altrove)”. Amava la “notturna attività del poeta cieco”, fonte, per i lettori, di abbagliante chiarità. Non è difficile capire perché a Borges piacesse quell’americano allampanato, all’apparenza inerte, dal corpo salamandra. Conosceva lo spagnolo – uno dei suoi primi lavori è una traduzione dai testi di Antonio Machado –, aveva studiato in Messico e in Francia, aveva insegnato in Grecia: le sue versioni da Saffo – uscite in origine nel 1965 – vengono rieditate ancora oggi. Soprattutto, Barnstone, a differenza di altri poeti, esperti geologi del proprio io, ‘specialisti’ dei fatti loro, aveva una mente oceanica: era stato in Cina – da lì, le traduzioni da Wang Wei –, lo affascinavano i perigli del ‘religioso’. Nel 1972, per la New Directions di James Laughlin, aveva firmato una notevole edizione dei Poems of Saint John of the Cross. Le indagini nella letteratura spagnola non lo abbandoneranno: negli anni, Barnstone traduce il poeta agostiniano Luis de León (1979), Vicente Aleixandre (1981), Quevedo, García Lorca e Miguel Hernandez (in: Six Masters of the Spanish Sonnet, 1993). Fra i suoi libri di poesia ricordiamo From This White Island (1960), China Poems (1977), Algebra of Night (1998), Life Watch (2003); l’ultimo libro lirico, Moonbook and Sunbook, è edito nel 2014.  È pressoché impossibile districarsi nell’amazzonica bibliografia di Barnstone, un poligrafo che non teme fatica, un poligrafo che odora di Himalaya; su Borges ha scritto un grazioso pamphlet, With Borges on an Ordinary Evening in Buenos Aires: A Memoir (1993), in cui, tra l’altro, rievoca un sogno narratogli dal grande scrittore argentino. “Erano i giorni della ‘Guerra sporca’, le bombe esplodevano in città; arrivai da Borges, lo vidi sconvolto, mi raccontò un sogno”. Quel sogno è alla base di un racconto borgesiano, La memoria di Shakespeare, che reca, a sua volta, lo stigma dell’incantesimo, del gioco di prestigio. Ne riparleremo.  Molti anni dopo – il testo è raccolto nell’antologia Mexico in My Heart, Carcanet, 2015 – Barnstone ha trasfigurato il suo legame con Borges in una poesia dai molti sigilli, Borges and His Beasts:  > “Qualcosa è sbagliato nel tuo volto. Non è > quello di un vecchio, ma di uno che non cresce.  > Nonostante i grigi capelli e l’occhio cavo come una tazza, > morto, e l’altro, grigia trama di tumida nebbia > dove un cervo bianco corre e scompare o lampeggia > blu, in quel sogno dove hai dimenticato che si muore, > e progetti un alfabeto di luce che faccia fibrillare > la sfera del cuore. L’oscurità è sparita e ora devi > sorridere come un bimbo. Succhi l’antica parola norrena > che ti offre il cielo. Ma sei solo e sei assurdo > e sai che c’è qualcosa di sbagliato. Viso da bimbo > che ride, sembra un dente, l’occhio è un fiume > perché ha conosciuto la pantera che non muore mai”.    Forse su suggerimento di Borges, Willis Barnstone s’inabissa nella Bibbia, esplora lo gnosticismo, studia l’ebraico e l’aramaico. Le traduzioni degli apocrifi, degli pseudoepigrafi e dei manoscritti del Mar Morto convergono in The Other Bible (1984); nel 2003, insieme a Mervin Meyer raccoglie come The Gnostic Bible i testi della tradizione gnostica cristiana, mandea, catara, ebraica. Il suo The Restored New Testament (2009), che riesuma le fonti dei Vangeli canonici e accoglie i cosiddetti Vangeli gnostici, è elogiato da Harold Bloom: “allo stesso tempo, è un’eloquente, vivida traduzione dei vangeli e dell’Apocalisse e un superbo atto di restituzione, di restauro”.  Nel 2004 ha tradotto i Sonetti a Orfeo di Rilke, il libro della vita.  > “Ho iniziato a scrivere versi nel 1947, dopo aver letto i Sonetti a Orfeo di > Rilke in edizione bilingue. All’ultimo anno di università, cominciai a > maneggiare il tedesco. Il libro di Rilke fu fondamentale per farmi capire che > in poesia si potevano esprimere concetti filosofici – fu Rilke a consegnarmi > alla poesia”.   C’è una generosità impulsiva in questo poeta traduttore, che non teme l’avventura, l’avventatezza, la capriola e lo schianto. I suoi miracolosi repertori antologici – A Book of Women Poets from Antiquity to Now, 1980; The Literatures of Asia, Africa, and Latin America, 1998 – sono un invito al viaggio, un monito ai poeti: andate lì dov’è l’ignoto, scavate, scoprite – perdetevi, semmai, e sia bello il vostro essere candele nella tenebra.  Il poeta centenario ha attraversato tempi e poeti, volti e monoliti; nelle sue mani, pari ad anfore, convergono i millenni, dal vello pieno. Opera di mungitura, allora, di chi sa i proventi del coltello, di chi sa imboccare il prossimo.  *** Il bene Primo mattino, luna sulla landa a cerchio gli uccelli di Ur, prima che  il diluvio lordi il ricordo della coppia bandita dalle mele e dal fatale fuoco  del sangue: Adamo ed Eva a passeggio  nel ghetto giardino, accerchiano l’albero.  Non sanno l’incendio che scintilla tra  i corpi, non sanno leggere né parlare conoscono la notte e il meriggio, gli sfugge l’oscuro che non ha zenit. Adamo, Eva,  bestie buone, brade all’alba del globo, cieca gente, come noi, all’apocalisse.  Sondano il sole, che irradia morte da un albero rosso. La luce infuria, analfabeta – loro, se ne vanno.  * L’usignolo Benché l’orrore dell’usignolo il sacro usignolo dall’inascoltato canto che stride invisibile nella tormenta, oltre l’albero delle stelle, sia solo un verbo o una longitudine epistemologica,  è lui a svegliarmi, all’alba, l’occhio inumato di croste, prima dell’estasi del giorno. L’orrore non è mai distante: l’arida biologia lede la speranza degli insetti: la falena che intrappola la luna, il ronzio della solitudine nell’ansimare dell’aria,  la trama dei vermi volanti. Eppure, è sempre con me il segreto dell’usignolo, che mi illude. Invisibile, anche io sono ancora qui.  * In cammino Cammino sempre: anche se la strada è corta i passi sono infiniti. Qui  in Canada, le oche respirano lo stesso dolore artico che aleggia nella mia anima introvabile, ma le oche non sanno il freddo, volano alte dalla Patagonia gaucho. Sono un uomo di carbone e ardo sotto quegli uccelli dagli occhi di fuoco intrappolati in abitudini elettriche. Respiro il verde cielo – finché non mi coagulo.  * Rendezvous Papà, sei tornato stanotte.  Anni dopo il Tibet. Il viso lampeggia e sorride tra i camion. Accendi  un fiammifero. Mi alzo dal letto e siamo sulle colline dove nessuno può vederci, dove non c’è testimone.  Vorrei darti il mio iPad. Sei un uomo  moderno. Non c’è bisogno del cappello. I tibetani ci salutano. I monaci, come te, non vogliono morire giovani. Bruciano  i loro corpi per protesta. Anche tu sei  logoro dal rogo della tristezza. Ora siamo noi a dover varcare le colline. Il tempo ti ha reso dolce, esatto. Per venire qui hai venduto la casa in Colorado. Il cielo è nero ora. Ci guida il sole interiore.  * Dai “Sonetti a Orfeo” di Rilke Silente amico di vaste distanze, odi il tuo respiro che divarica le stanghe dello spazio. Perduto tra le cinghie di campanili in rovina, suona, permetti che rintocchi. Ciò che di te si nutre trarrà il suo dominio da questo pasto.  Percorri la trasformazione, arretra in essa. Cosa ti frena? Cediti. Se bere è dolore, sii vino.  Sii notte, sii la sconfinata forza e lascia che incroci i tuoi sensi. Sii il senso di questo strano accordo. Va’ –  e se la terra svanisce, se ti ha dimenticato sussurra al silenzio della terra: Io scorro. E all’acqua che scorre: Io sono.  * Da San Giovanni della Croce Vivo ma in me non vivo attendo che la vita passi muoio perché non muoio. In me non vivo senza Dio non posso vivere; a lui o a me me stesso non posso dare, dunque a che vivere? Agonia di mille morti attendo che la vita passi muoio perché non muoio.  Questa viva che solo vivo è di vita ruberia, nulla se non perpetua morte – nessuna  scappatoia se in te non vivo.  Dio, ascoltami, parole di verità la mia: questa vita non voglio muoio perché non muoio.  Il pesce pescato dal mare ha la sua consolazione: morte di breve durata che infine reca sollievo. Nessuna morte è più convulsa e orrenda di questa mia patetica vita. Più vivo, più muoio.  Provo sollievo soltanto quando ti vedo nel sacramento sprofondo nello sconfinato sconforto privo della tua dolce compagnia. Ora, tutto pulsa di dolore: voglio – e non posso – averti muoio perché non muoio.  ** Da Saffo Lampi se ci arride la sorte ambiremo al porto alla nera terra Le raffiche di vento fiaccano i marinai che sperano Nell’asciutto nello sbarco e scollegarsi dal carico  che galleggia Fatica molta prima dell’approdo sulla cruda terra * L’invito è per uno non per tutti al banchetto che inaugura Era perché vasta sia la mia vita * Silente  Zeus dallo scudo di pelle di capra e di Citera ti prego ti offro un cuore saturo di bene come nei giorni in cui lasciasti Cipro ascolta la mia preghiera vieni a me lima le mie durezze  * Espero, conduci a casa le rovine dell’alba conduci a casa le pecore accompagna a casa la capra, alla sua casa la bimba – c’è una madre che la aspetta * Imitano la morte le colombe: quando l’anima si fa fredda, le ali pendono ai loro fianchi * No – non avrei potuto credere di afferrare il cielo con queste nude braccia * Verginità, verginità, te ne sei andata lasciandomi sola.  Da te non verrà più – mai più mi vedrai.  * Dimmi della sposa dagli stupendi piedi – che Artemide la figlia di Zeus drappeggiata di viola deponga la sua ira Venite, Grazie, venite Muse di Pieria: il cuore è gonfio di incanti e limpido sgorga l’inno lo sposo infastidisce le dame mentre l’Alba dai calzari d’oro posa una lira sui loro capelli * Sortiranno inni dalle vergini  tessitura d’amore tra te e la sposa dalla porpora veste Svegliatevi, svegliate i giovani della vostra età: questa notte non dormiremo saremo noi a destare  l’usignolo dalla vorticosa voce ** Dal Vangelo di Matteo Ecco: uscì il seminatore alla semina e di ciò che seminava, seme finì in strada uccelli calarono e mangiarono. Parte su petraia, dove era poca terra e seme subito sbocciò perché non s’inabissava la terra. Ma quando fu alto il sole seccarono le piante: prive di radici appassirono. Parte finì tra spine e spine finirono per soffocarlo.  Ma parte cadde su terra buona e venne il frutto il cento il sessanta il trenta chi ha orecchie atte all’ascolto, ascolti. Traduzioni e testi di Willis Barnstone L'articolo “Un alfabeto di luce”. Willis Barnstone, il patriarca della poesia americana proviene da Pangea.
May 14, 2025 / Pangea
Saturi di stelle. Gita tra i calanchi con l’innominabile Beckett e il Vangelo di Filippo
Entro a Montecalvo a piedi – il sole ha il becco, l’azzurro è carnale, viene da morderlo. È un azzurro bue – un azzurro bestia da soma. Il sole sollazza, lì sopra. Plana.  Provincia di Pesaro-Urbino, un castello nel vessillo comunale, poco meno di tremila abitanti. Due bambini giocano – i re del luogo. Una signora, alla finestra, fuma; un tizio fa lo scalpo al giardino di casa. Sabato – giorno di riposo, giorno di Saturno. Un tempo, qui si sfogavano in lotte senza quartiere gli sgherri del Montefeltro e quelli del Malatesta – di qui passò Francesco Sforza; il castro fu messo al sacco da Cesare Borgia. Il borgo vanta ascendenze romane.  Di tali, vestigia, oggi, non ci sono che straccetti. I bombardamenti alleati, durante la Seconda guerra, hanno raso al suolo il paese. In particolare, gli aerei della Raf hanno devastato la chiesa medioevale di San Nicolò: nella struttura moderna – brutta come tutte le chiese moderne – è conservata la campana del XIII secolo.  Per lo più: il bendaggio del silenzio. Un borgo sdentato.  * Montecalvo dà su un abisso di calanchi: è questo a confermargli il carisma di una superba alterigia.  Certo: bisogna scaraventarsi oltre i sentieri segnati; aprire un percorso tra i rovi. A terra, le tracce calligrafiche del capriolo – poi, grumi d’erba smossi dal cinghiale. Qualcuno dice di aver visto il cervo – ma i boschi sono pigmei, laceri ai fianchi. Qualcuno dice del lupo vespertino, che s’incunea tra le assi della notte. Nel crinale opposto, galoppano le mucche, mai viste così agili, così fulve. Regna il gheppio, l’amuleto dei rapaci – appollaiato sui cavi elettrici.  Il grigio dei calanchi, terra aspra resa lunare dalle acque, mi ricorda il volto, infossato di rughe, di Samuel Beckett. Qui immagino che possa parlare L’innominabile: > “Adesso dove? Adesso quando? Adesso chi? Senza chiedermelo. Dire io. Senza > pensarci. Chiamarle domande, queste, ipotesi. Andare avanti, chiamare questo > andare, chiamare questo avanti”.  Qui dovrebbero venire a leggere L’innominabile – a inscenarlo. Vocio interminabile dell’Innominabile – “D’altra parte a parlare sono obbligato. Non tacerò mai. Mai” –, vocio-pigolio, balenio di belati, che disintegra l’idea stessa del romanzo, come la pioggia fende le coste argillose, che degradano all’eone di terra inferiore, infera. I calanchi: paesaggio che cammina. I calanchi sono il luogo Innominabile: non c’è tenacia vegetale che possa attecchire su quelle guance scavate, su quel glabro.  Parola lebbrosa, panorama dolente.  * Da noi la trilogia di Beckett – Molloy, Malone muore, L’innominabile: scritta in francese, pubblicata in Francia tra il 1951 e il 1953 – è ora raccolta nel ‘Meridiano’ Mondadori che raduna Romanzi, teatro e televisione(2023). Strumento straordinario – leggere è altro – prevede: sradicare e farsi dilaniare, mica sfogliare. La Faber pubblica la trilogia, libro per libro, per festeggiare i settant’anni dalla prima edizione in inglese di Molloy. L’introduzione dei libri è affidata a tre scrittori contemporanei: Colm Tóibín, Claire-Louise Bennett and Eimear McBride.  Non so se si possa scrivere qualcosa di sensato intorno ai romanzi di Beckett: nella loro voragine sono così audaci, così espliciti.  Samuel Beckett, il calanco della letteratura occidentale.  Lo dice lui, tra l’altro: > “La sola ricerca fertile è quella che scava, che si immerge, è una contrazione > dello spirito, una discesa. L’artista è attivo, ma in modo negativo: > indietreggia di fronte alla nullità dei fenomeni siti al di fuori della > circonferenza, è attratto verso il centro del vortice”.  * Bisogna immergersi nei calanchi per capirne la spudorata attrazione. Un’attrazione che ti si pianta fin nella fibra del sogno.  Sognai calanchi.  Dal vero, ne ho cavalcato uno. Camminare sul crinale tra due calanchi, lungo una sella d’erba. Stellate di spine intorno. Spine serpentine. Straordinario il silenzio nei boschivi, irsuti, che spaziano sulla cima dei calanchi. Come se le bestie fossero spaventate da quella terra senza mediazioni, un rinoceronte d’argilla. Il sogno del calanco: farsi vulcano, svanire.  * Secondo Harold Bloom, Beckett è l’erede di Joyce, di Proust e di Kafka. Viene dopo quegli scrittori-foresta. Viene nell’era desertificata. “La trilogia di Beckett (Molloy, Malone muore, L’innominabile) rappresenta un vero passo oltre e nulla di ciò che è stato impropriamente chiamato postmodernismo ha raggiunto il suo livello”. Così scrive Bloom.  Come si fa a scrivere un romanzo come L’innominabile? Fare lo scalpo all’anima. Entrare per frode nel linguaggio – già, questo fa lo scrittore: ladrocinio del linguaggio. Deve frodare il linguaggio che, altrimenti, a lasciarlo fare, ci frega, ci sfregia nel frainteso. Frastuono. Frana.  Stare nel centro del vortice. Nel centro di un calanco. Come si doma una stella cometa. Cominciare da lì. Piantumare di sé il calanco.  * Nel suo libro più bello, Rovinare le sacre verità (un tempo Garzanti, ora SE), uno studio su “Poesia e fede dalla Bibbia a oggi”, Harold Bloom scrive che Beckett era uno gnostico “naturale”, scrive che “Basilide o Valentino, eresiarchi alessandrini, avrebbero subito riconosciuto il mondo della trilogia... È il mondo dominato dagli Arconti, il kenoma, il non-luogo di vuoto”. Forse per questo, a perdifiato tra i calanchi – un fiato ben arato da paleolitico di grigiori –, mi è venuto in mente il Vangelo di Filippo. I calanchi non conservano ombre. Al centro di un calanco: si è come nel Pleroma; si è come in un grembo – si retrocede dal feto, si recede da ciò che resta dell’immagine. Falansterio di falci.  Scoperto a Nag Hammadi, il Vangelo di Filippo era d’uso proprio tra i valentiniani citati da Bloom. Si trova facilmente in rete; in Italia esiste la traduzione commentata di Luigi Moraldi, nei Vangeli gnostici editi da Adelphi. In appendice, ne ho tradotto qualche fibbia, dalla versione di Willis Barnstone: poeta dal solido talento, nato nel Maine quasi un secolo fa, ha tradotto, tra l’altro, Saffo, Wang Wei, Giovanni della Croce e le poesie di Mao Tse-tung; fu amico di Borges. Segno questo detto (dalla versione di Moraldi): > “Dio è un mangiatore di uomini; per questo l’uomo gli è immolato. Prima che > gli si immolasse l’uomo, gli si immolavano animali, giacché coloro ai quali si > sacrificava non erano dèi”. Alla coincidenza degli opposti, eraclitea, segue la messa in questione dei ‘nomi’. I nomi sono illusori, futili nodi che ci legano a questo mondo, a questo tempo, alla superficie carnale delle cose. Soltanto chi possiede i nomi occulti – il frutto sotto il carapace –, vive nel regno pur su questa terra. Questa concezione, propria di chi scrive, è canone in Beckett: si scrive maneggiando un coltello; bisogna scrostare i sacrosanti nomi, gli inesatti nomi, i nomi ingannevoli delle cose. Ma chi può sopportarne lo splendore, poi? La nudità sfoggiata dai calanchi: nome indottrinato dalla spoliazione. Oltre la nudità di ciò che è nudo, oltre l’ultima, intima screpolatura, oltre la più conficcata fenditura – a che quel bisbiglio? Cosa risuona? Acqua battesimale – acqua che dilaga il fuoco – che dilata le doghe della valle.  * Nessun suono rimbomba sulle pareti dei calanchi: la terra ha molte bocche, la terra ha sete di te. Strana sensazione: come di stare nel retro del sole, nel suo cuoio.  Ecco: è come stare nel cranio vuoto del sole.  All’opera di scavo, all’ascesi, segua l’ascesa. Nello zaino ho Canto di vita, un’antologia di poesie di Hugo von Hofmannsthal; è un libro lieve, apollineo. Edito da Einaudi nel 1971, la traduzione è di Elena Croce.  Chi legge oggi le poesie di Hofmannsthal? A me paiono salvifiche. Sono il punto di giunzione tra gli inni di Hölderlin e i versi di Rilke – solo: privati del dramma, della reclusione, dell’annaspare tra i gangli di una risposta. Hofmannsthal è l’annuncio, è il grande arciere, orefice di oracoli. La sua poesia è una luce senza schegge, una luce laccio – forse è per questo che, sgorgata nell’infallibile giovinezza, ha costretto il suo autore al silenzio. Hofmannsthal ha scritto pochi, perfettissimi versi – poi, si è volto ad altro.   Più tardi, tento di rimescolare Manche freilich…, una delle poesie più ambigue. Si parla della morte, di lande stellare, del collasso degli altri; dell’invasione della vita in altre vite, dell’ombra e di un’anima spaventata. Non serve capire quando si cammina tra gli assoluti. La figura della schmale Leier, la “stretta lira”, sarà ripresa da Rilke nei Sonetti a Orfeo.  Alcuni – è vero – moriranno là dove sibilano serpentini i remi ma altri siedono al timone, saturi del volo degli alati, delle lande stellari.  Alcuni hanno pesanti corpi artigliati alle radici della vita ma altri hanno un seggio tra le Sibille, le regine, perché lì è casa leggero il capo, leggiadre le mani.  Ma l’Ombra gemma da quella vita nelle altrui vite il leggero si aggioga al pesante come l’aria ai nodi della terra: la pena di popoli dimenticati non posso alienare dalle palpebre né tentare l’anima, l’intimorita, con l’intemerato crollo di lontane stelle.  Molti destini sono intrecciati al mio l’Essere gioca a confonderli ma la mia parte supera questa vita l’ilare lira, la dinoccolata fiamma.  Il cielo impone nubi, per convalidare il suo rito in una litania di scure vesti, di volti tirati. Pioverà. I calanchi intoneranno il loro lugubre canto. Da lontano, le raganelle già si misurano con Beethoven. Qualcosa si muove – bene, in fondo, è l’arte di adescare.  ** Dal Vangelo di Filippo Luce e tenebra Luce e oscurità, vita e morte, destra e sinistra sono pargoli, inseparabili, sempre insieme. I buoni non sono buoni, il malvagio malvagio non è, vivere non è vivere, morte non è morte. Ogni elemento sfuma nell’origine.  Chi vive al di là del mondo non svanisce. È eterno.  * Nomi I nomi delle cose terrene: illusioni.  Rivolta dal reale all’irreale. Se ausculti la parola “dio”: perdi il reale predi l’irreale. Padre, figlio, spirito santo, vita, luce, resurrezione, chiesa.  Parole non reali. Irreali  ma riferite al reale vengono udite dal mondo. Ingannano. Se fossero i nomi del Regno nessuno sulla terra li udirebbe.  Qui nessuno li assegna. Il loro fine è insediarsi nell’eterno regno.  * L’occulto Gesù è nome occulto, Cristo manifesto.  Gesù non è parola qualsiasi, ma il nome con cui è chiamato.  In siriaco Cristo è Messia, in greco è Cristo. Ogni lingua a suo modo lo chiama. Nazareno è il nome rivelato di ciò che giace nel segreto.  * Cristo  Cristo, in sé, è tutto, è tutto l’uomo l’angelo, il mistero e il padre.  * La perla Se la perla è gettata nel fango, non perde valore se la strofini con olio puro, non acquista valore.  Per sempre è preziosa agli occhi di chi la possiede.  Ovunque sono, i figli di Dio  sono preziosi agli occhi del padre. * Dio, il cannibale Dio è un cannibale, Dio mangiatore di uomini. Per questo, la gente a lui si sacrifica. Prima che gli uomini dessero la vita per Dio si sacrificavano le bestie, perché chi li divorava non erano dèi.  * Vetro e terra I vasi di vetro e quelli di terracotta provengono munti dal fuoco. Quando un vaso di vetro si rompe, lo rifanno: il respiro lo ha creato.  Quando un vaso di terracotta si rompe, lo si butta: non è il frutto di un respiro.  * Uomini e bestie La superiorità degli uomini è invisibile  agli occhi: risiede nel nascosto. Per questo, dominano sulle bestie che sono più forti e più grandi in forme visibili e nascoste. Così, sopravvivono.  Quando l’umano si ritira, le bestie si uccidono e si divorano tra loro: non hanno cibo. Ma ora hanno cibo, perché l’uomo ara la terra.  * Il mistero delle acque Se ti inabissi nelle acque e risali senza essere risanato e dici: “Sono cristiano” prendi in prestito un nome.  Ma se ricevi lo Spirito Santo hai in dono il nome. Un regalo non si deve pagare.  Il prestito, invece, deve essere saldato con gli interessi. Questo  significa: varcare un mistero.  * La foggia del fuoco Anima e spirito sorgono dall’acqua e dal fuoco. Dall’acqua, dal fuoco, dalla luce viene l’attendente nella camera nuziale. Fuoco è crisma. Luce è fuoco. Non mi riferisco alla fiamma informe, ma a un altro fuoco bianco, luminoso, bello che conferisce bellezza.  * Resurrezione Il Signore risorge dai morti.  È ciò che è ma ora il suo corpo è perfetto. Incarnato  ora è nella vera carne. Questa nostra carne non è vera.  Questa nostra carne è soltanto la parvenza del vero.  L'articolo Saturi di stelle. Gita tra i calanchi con l’innominabile Beckett e il Vangelo di Filippo proviene da Pangea.
April 18, 2025 / Pangea