All’inizio dell’Odissea, sull’Olimpo si sono riuniti gli dei e Zeus comincia a
parlare della sventura di Egisto, ucciso da Oreste, che ha vendicato
l’assassinio di suo padre Agamennone. Il re di Micene, di ritorno da Troia,
aveva trovato infatti la morte per mano di chi si era unito a sua moglie. Questo
tema della vendetta di Oreste domina tutta la prima parte del poema omerico,
quella che solitamente viene chiamata «Telemachia». Perché? La sua rievocazione
è il tarlo di Telemaco, il figlio di Odisseo, che aspetta il ritorno del padre,
dopo venti anni di assenza, temendo sia morto, per cui parte in cerca di sue
notizie, mentre i Proci nella reggia spadroneggiano, e chiedono alla madre
Penelope di rassegnarsi alla vedovanza e sposare uno di loro. Ma che cosa
rappresentano per Telemaco l’omicidio di Agamennone e la vendetta del figlio
continuamente evocati?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe provare a immaginare l’Odissea da
un punto di vista completamente diverso. Immaginarla, cioè, come se fosse, per
intero, una fantasticheria di Telemaco. Come se tutto il racconto di Odisseo,
delle sue disavventure, la peregrinazione per mari e per terre, non sia altro
che l’elaborazione mentale di un figlio che nell’attesa del ritorno del padre,
nel vuoto di potere che egli ha lasciato non tanto nel regno ma nella sua
crescita, ha bisogno di ricostruire la figura paterna attraverso il
mito. L’Odissea come sogno interiore di Telemaco, insomma, come suo percorso
immaginativo e iniziatico per definire la propria identità.
Il viaggio di Odisseo apparirebbe come una narrazione interna – doppiamente
interna, considerato che Odisseo per buona parte del poema racconta in prima
persona – una mitopoiesi prodotta da Telemaco per colmare il vuoto
paterno. Tutte le tappe del viaggio – Circe, Polifemo, le Sirene, Scilla e
Cariddi – non sarebbero pertanto ostacoli esterni, ma figure simboliche
dell’inconscio, personificazioni di forze psichiche che il giovane deve
attraversare per crescere. Odisseo incarna tutto ciò che Telemaco, ancora in
formazione, non è ma desidera diventare. In questo senso, l’Odissea funziona
come una phantasmagoria, una costruzione mentale che serve a mediare il
passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Si spiegherebbe così anche
diversamente il senso della «Telemachia», cioè la scelta di Omero, del tutto
insolita, di ritardare l’entrata in scena del protagonista fino al quinto libro,
dedicando un lungo preambolo alle avventure di Telemaco. Un preambolo che
potrebbe essere la chiave di lettura dell’intero poema, cambiandone radicalmente
il senso. E quale sarebbe il senso? Che non si dà narrazione alcuna all’infuori
della figura del Padre, della sua distanza, della sua indecifrabilità. Che
qualsiasi racconto sia, come suggerisce il significato stesso del nome Telemaco,
la descrizione di una battaglia svolta lontano dal padre o per tenere il padre
lontano. Una battaglia che è – anche, allo stesso tempo – una «tentazione di
evasione dalla sfera paterna» (come pare che Kafka volesse intitolare l’intera
sua opera). In questo combattimento, dunque, rientra a pieno titolo il fantasma
di Oreste, che è una proiezione delle paure – o del desiderio inconscio – di
Telemaco.
All’inizio del poema, dopo la discussione tra gli dei sull’Olimpo e la decisione
di Atena di raggiungere la reggia di Odisseo a Itaca sotto le sembianze di uno
straniero di nome Mentore, troviamo il principe che siede tra i «Pretendenti»
che gozzovigliano. «Sedeva con l’angoscia nell’animo» scrive Omero. E pensando
al padre, fantastica sulla possibilità che possa arrivare all’improvviso a
disperdere i Proci. Telemaco è come Amleto nel palazzo di Elsinore: è giovane, è
depresso, dialoga in cuor suo con lo spettro del padre, che è stato ucciso dal
fratello in combutta con sua madre. Penelope non ha mai tradito Odisseo, però le
insistenze dei Proci bastano ad agitare nella mente di Telemaco la fantasia
della triangolazione. È la stessa Atena travestita a materializzarla, quando gli
suggerisce, poco dopo, di pensare a come uccidere i Proci.
> «Non sei più un bambino, non ne hai più l’età. Non sai quale fama si è
> conquistata fra gli uomini il divino Oreste, per aver ucciso il perfido Egisto
> che gli assassinò il padre glorioso? Anche tu dunque, grande come sei, e
> bello, mostrati audace, affinché possano dir bene di te i tuoi discendenti».
Come lo spettro del re Amleto inciterà il principe alla vendetta, così la dea
spinge Telemaco ad agire, a onorare suo padre, per certificare l’ingresso
nell’età adulta. Ecco che per la seconda volta nel poema il tema di Oreste viene
evocato.
Telemaco, appena compare, all’inizio del canto, è seduto, paralizzato
dall’inazione e dal dubbio (l’«essere o non essere» non riguarda sé stesso ma
suo padre). Odisseo è lontano, e la sua assenza non è soltanto fisica: è una
mancanza simbolica, un vuoto che condiziona la formazione del figlio, è «la
mancanza nel campo dell’Altro», come la chiamerebbe Lacan, il punto da cui
prendono avvio il desiderio e l’identità del soggetto. Atena, infatti, lo invita
a muoversi, a compiere un viaggio, a cercare notizie sul padre per cercare, in
realtà, notizie su sé stesso. Prima però gli comunica che suo padre non è morto,
e con una certa delicatezza gli dice, vagamente, che
> «qualcosa lo trattiene sul mare immenso, forse, in un’isola cinta dall’acqua,
> uomini selvaggi e crudeli lo tengono, contro il suo volere, prigioniero».
Nessun accenno alla bellissima ninfa Calipso. Poi gli rivolge una inattesa
domanda, gli chiede se davvero lui è il figlio di Odisseo, come a esigere una
prova. Domanda cruciale, ineludibile, alla quale Telemaco risponde così:
> «Mia madre dice che sono suo figlio, ma io non so; nessuno può sapere qual è
> la sua nascita. Vorrei essere figlio di un uomo felice, che giunge alla
> vecchiaia padrone dei suoi beni. E colui, invece, del quale figlio mi dicono,
> perché questo tu mi domandi, è di tutti i mortali il più infelice».
Risposta sorprendente. «Vorrei essere figlio di un uomo felice». Odisseo non può
essere felice perché sconta la punizione per la sua hybris. Come tutti gli eroi
della guerra di Troia, gli usurpatori, i vincitori con l’inganno, anche lui –
soprattutto lui – deve pagare se non con la morte, con l’infelicità quella colpa
di aver ecceduto. Ma la punizione per la colpa, spesso, non si esaurisce
soltanto nel colpevole: la nemesi opera anche nelle generazioni successive, come
sappiamo da molti miti greci.
Che giustizia è mai questa che fa ricadere la colpa di un padre sul figlio e sui
figli del figlio ancora? Una catena di castigo che non si interrompe,
generazione dopo generazione. Forse la vera spiegazione è proprio nella risposta
di Telemaco. Si desidera un padre felice, perché il peso dell’infelicità paterna
grava inevitabilmente anche sul figlio. È questa la vera nemesi, la vera
colpa? Forse la più grande responsabilità che ha un genitore nei confronti dei
propri figli è proprio nella sua capacità d’essere felice. Così Telemaco, dopo
aver convocato per la prima volta un’assemblea degli uomini di Itaca – un atto
di grande significato: mostra il desiderio di assumere il ruolo di guida in
assenza del padre – e aver lamentato l’arroganza e il comportamento disonorevole
dei Proci, salpa di notte da Itaca verso Pilo, nel Peloponneso, dando inizio al
suo viaggio alla ricerca del padre, diretto verso la casa di Nestore, il più
vecchio e il più saggio tra i re greci che hanno partecipato alla guerra di
Troia. Lui, a differenza di Odisseo, è tornato nel suo regno, e lì Telemaco,
accompagnato dalla dea Atena sempre travestita da Mentore, lo raggiunge per
avere notizie del padre.
Felice Giani, Telemaco consolato da Temosiri, sacerdote del tempio di Apollo,
1790 ca.
A Pilo, sulla riva del mare la gente sacrifica tori neri a Poseidone, con un
grande banchetto rituale al quale partecipa anche il re Nestore con i suoi
figli. I due vengono accolti con grande ospitalità, prima ancora di sapere chi
fossero, come impone la legge sacra dell’ospitalità (la xenia, principio
fondamentale nella cultura greca antica). Atena incoraggia Telemaco a parlare
con Nestore senza timore. Il giovane, allora, spiega il motivo del suo viaggio:
vuole sapere che fine abbia fatto suo padre Odisseo, disperso dopo la fine della
guerra di Troia. Ma il re di Pilo non ha più visto Odisseo, ricorda con affetto
la sua amicizia e poi, ecco che, per la terza volta, tramite il prosieguo del
racconto di Nestore, ricompare il tema dell’uccisione di Agamennone per mano
della moglie Clitennestra e dell’amante di lei, Egisto, e il tema della vendetta
di Oreste, il leitmotiv che accompagna ossessivamente la «Telemachia». Oreste è
l’alter ego di Telemaco: la sua vendetta non è soltanto un richiamo,
un’esortazione ad agire (Telemaco dovrebbe prendere esempio da lui, vendicare il
padre uccidendo i Proci che insidiano il letto nuziale dei suoi genitori), ma
anche, più sotterraneamente, la materializzazione di una fantasia: il padre che
ritorna e viene ucciso da qualcuno che ha preso il suo posto al fianco della
madre.
Telemaco deve liberarsi di questi fantasmi (definirlo complesso edipico è un
anacronismo curioso, ma di fatto di questo stiamo parlando), e il suo viaggio,
la sua piccola, circoscritta «odissea» attorno all’assenza di suo padre a questo
serve, a farlo maturare, a fargli assumere il suo ruolo di uomo adulto. Ma
questa prima tappa funziona solo come presa di coscienza: Telemaco avrà bisogno
di sapere che suo padre è vivo, per poter realizzare la sua rappresentazione
del nostos paterno, per poter riconciliarsi con lui immaginandone il lungo
percorso che ha dovuto affrontare per tornare in patria, e per poter figurarsi
un epilogo diverso da quello di Agamennone.
Nestore invita così Telemaco a recarsi a Sparta, da Menelao, che potrebbe avere
informazioni più precise su Odisseo. Gli offre un carro e il figlio Pisistrato
come guida e compagno di viaggio. I due giovani vengono accolti (ancora una
volta) con grande ospitalità a Sparta, dove il re Menelao e la regina Elena
(tornati insieme dopo la guerra di Troia), stanno celebrando un doppio
matrimonio, quello del figlio di Menelao e della figlia con principi stranieri.
Se qui il tema del matrimonio dei giovani si riflette nel matrimonio adulto, è
per un motivo preciso. Telemaco deve imparare ancora qualcosa di fondamentale:
l’idea che la vita è, in fondo, un compromesso, che l’amore coniugale è fatto di
separazione, inganno, allontanamento e ricomposizione, anche se le crepe non si
risanano mai.
Elena intuisce la somiglianza tra Telemaco e il padre Odisseo e scopre, così, la
vera identità del giovane (un’identità derivata). Questo riconoscimento fa
commuovere tutti, perché il pensiero di tutti è rivolto, adesso, allo scomparso
Odisseo. Ecco, allora, che Elena decide di versare nel vino una droga
(pharmakon), che «fuga il dolore e l’ira, il ricordo di tutti i malanni». Ma
perché Elena vuole anestetizzare gli ospiti e il marito? Sappiamo che il pianto
per gli antichi greci non era motivo di vergogna: tutti gli eroi versano
lacrime, perfino Achille. E allora perché questo desiderio di narcotizzare le
emozioni? Omero non ce lo spiega, e intanto, ordinato che si versasse il vino
drogato ai presenti, Elena inizia a raccontare di Odisseo e di quando il re di
Itaca, travestito da mendicante, era penetrato nella città di Troia. Solo lei lo
riconobbe (così come adesso ha riconosciuto Telemaco), e dopo averlo lavato e
rivestito, gli chiese di rivelarle i piani militari dei greci, giurandogli
solennemente che non lo avrebbe tradito, lasciandolo tornare al suo accampamento
e alle navi. Da quel momento, dice, «il mio cuore gioiva, perché ormai mi s’era
rivolto a tornare a casa»; e lei, pentita, malediva la follia amorosa che
l’aveva strappata alla casa, a un marito «a nessuno inferiore, per il senno e
l’aspetto».
Elena sta cercando qui di farsi perdonare il tradimento, giudicando la sua fuga
a Troia come una follia amorosa, ma a questo punto, però, interviene Menelao e
racconta della notte in cui lui e gli altri guerrieri greci si erano nascosti
nella pancia del cavallo di legno. Elena, dice, per tre volte girò intorno al
cavallo e chiamò per nome i migliori dei Danai, imitando la voce delle loro
mogli, così che alcuni di loro, tra cui lo stesso Menelao, furono spinti a
rispondere, se non gli fosse stato impedito da Odisseo, che non si era lasciato
ingannare e aveva tappato la bocca degli uomini, salvandoli tutti da una morte
sicura, finché Atena non condusse la donna lontano. La voce di Elena che imita
quella delle mogli dei greci è un richiamo irresistibile, come il canto delle
sirene (questa Elena che maneggia le droghe, riconosce gli uomini, imita le voci
ha qualcosa di magico, indubbiamente). Ma che cosa sta facendo Menelao qui, se
non accusare sua moglie di aver tentato di ingannare i greci, i suoi
compatrioti, e lo stesso marito (ingannarlo ancora una volta, imitando la sua
stessa voce, un inganno nell’inganno), mettendo a repentaglio la loro vita, per
difendere i troiani? Menelao, in altre parole, smentisce la moglie, rinnega la
versione che lei stessa ha appena raccontato nel tentativo di scagionarsi,
adulando il marito («a nessuno inferiore, per il senno e l’aspetto»). Mentre
Elena ha appena detto di aver aiutato Odisseo, nascondendo ai troiani la sua
sortita in città, e di essersi pentita della sua scelta, oppressa dalla
nostalgia per la casa nuziale e lo sposo, Menelao le rinfaccia di aver cercato
di smascherare l’inganno del cavallo di legno, inchiodandola alla sua antica
responsabilità.
Con un capolavoro di psicologia coniugale raffinatissima, Omero qua ci mostra un
marito e una moglie che, tornati insieme dopo una lunga separazione, covano
ancora sensi di colpa da un lato e rancori mai sopiti dall’altro. Capiamo adesso
il motivo per cui Elena ha voluto drogare gli ospiti e il marito: affinché
quest’ultimo, obnubilato dal «farmaco», credesse alla sua versione e non si
facesse prendere dall’ira o dalla sofferenza della gelosia. Ma, evidentemente,
nemmeno la droga è riuscita a cancellare dalla mente di Menelao il tradimento
della moglie.
Bartolomeo Pinelli, Il sogno di Telemaco, 1808
Telemaco poi, viene a sapere finalmente da Menelao che suo padre è vivo, tenuto
prigioniero sull’isola Ogigia dalla ninfa Calipso. Ma prima di rivelarglielo,
Menelao gli racconta, conosciuta da Perseo, la sorte degli altri comandanti
greci reduci da Troia, tra cui, quella del fratello Agamennone, ucciso da
Egisto. Per la quarta volta ritorna il tema di Oreste («Potresti trovarlo vivo,
Egisto, o forse l’ha già ucciso Oreste» dice Menelao a Telemaco, quasi a
suggerirgli la vendetta). Alla fine del suo breve viaggio, dunque, Telemaco ha
scoperto che suo padre è vivo, ma anche – riecco il fantasma, il ritorno del
rimosso – che sua madre, l’archetipo della sposa fedele, potrebbe rivelarsi
un’Elena, o una Clitennestra, che non solo tradisce il marito, ma trama anche
per la sua morte.
La «Telemachia» dunque è come la trasposizione di un rito di passaggio che ogni
adolescente deve compiere: allontanamento, straniamento, ritorno in città come
cittadino di pieno diritto. Ecco perché il ritorno di Odisseo – con la strage
dei Proci, il riconoscimento – può essere interpretato come la conclusione
catartica di un processo immaginativo: un desiderio di restaurazione e di
ordine, una «fantasia di completamento» che può avvenire solo quando Telemaco
riesce a cancellare il fantasma di Oreste. Il suo «doppio», cioè, non deve più
essere il figlio che vendica l’assassinio del padre, ma il padre stesso.
Telemaco deve liberarsi dalla fantasia del padre tradito e ucciso, di questo
desiderio inconscio, per vivere finalmente il desiderio cosciente che il padre
torni, lo riconosca, agisca insieme a lui, e infine lo legittimi.
Rileggere l’Odissea come un racconto mentale di Telemaco significa spostare il
baricentro del poema dalla dimensione esterna dell’avventura a quella interna
della psiche. L’opera si rivela allora come un Bildungsroman, un viaggio non
tanto nei mari del Mediterraneo quanto nel paesaggio interiore di un figlio che,
per diventare uomo, ha bisogno di immaginare il proprio padre come modello, non
come antagonista. Un sogno epico, ma anche una necessaria finzione per
attraversare il vuoto e costruire un’identità.
Fabrizio Coscia
*Le citazioni dell’Odissea sono tratte dalla traduzione di Maria Grazia Ciani,
edizione Marsilio.
*In copertina: Jacques-Louis David, L’addio a Telemaco, 1818
L'articolo “Vorrei essere figlio di un uomo felice”. L’Odissea? La
fantasticheria di Telemaco, il prototipo di Amleto proviene da Pangea.
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Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa
di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che
si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana;
El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a
servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini
dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle
icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei
ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è
irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un
poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati
a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro.
Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due
volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva
la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio
non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano
convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel
sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra
Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce
da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la
crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi
per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta
dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede
nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la
civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i
natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non
celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è
scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un
onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità
primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove,
che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con
pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli
apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino
draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto
la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi
nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale.
Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di
unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza
è misura del diritto e del bene.
Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva
essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di
Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa,
Eudokia.
> “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.
> Dolcemente si baciavano…”
Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un
diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna
amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di
predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce,
dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità
virile.
C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista
– ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto
adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto
successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può
ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla
tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con
il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto
con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è
sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema
stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai
perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico
da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis
agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti,
contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La
stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici
superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di
Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai
è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una
materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più
rassicuranti, più “letterari”.
Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del
declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in
particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale,
immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata,
Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo
confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza
umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis,
descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente
spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella
convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di
fronte all’inevitabile.
> “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!
> Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da
Pangea.