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“Vorrei essere figlio di un uomo felice”. L’Odissea? La fantasticheria di Telemaco, il prototipo di Amleto
All’inizio dell’Odissea, sull’Olimpo si sono riuniti gli dei e Zeus comincia a parlare della sventura di Egisto, ucciso da Oreste, che ha vendicato l’assassinio di suo padre Agamennone. Il re di Micene, di ritorno da Troia, aveva trovato infatti la morte per mano di chi si era unito a sua moglie. Questo tema della vendetta di Oreste domina tutta la prima parte del poema omerico, quella che solitamente viene chiamata «Telemachia». Perché? La sua rievocazione è il tarlo di Telemaco, il figlio di Odisseo, che aspetta il ritorno del padre, dopo venti anni di assenza, temendo sia morto, per cui parte in cerca di sue notizie, mentre i Proci nella reggia spadroneggiano, e chiedono alla madre Penelope di rassegnarsi alla vedovanza e sposare uno di loro. Ma che cosa rappresentano per Telemaco l’omicidio di Agamennone e la vendetta del figlio continuamente evocati?  Per rispondere a questa domanda bisognerebbe provare a immaginare l’Odissea da un punto di vista completamente diverso. Immaginarla, cioè, come se fosse, per intero, una fantasticheria di Telemaco. Come se tutto il racconto di Odisseo, delle sue disavventure, la peregrinazione per mari e per terre, non sia altro che l’elaborazione mentale di un figlio che nell’attesa del ritorno del padre, nel vuoto di potere che egli ha lasciato non tanto nel regno ma nella sua crescita, ha bisogno di ricostruire la figura paterna attraverso il mito. L’Odissea come sogno interiore di Telemaco, insomma, come suo percorso immaginativo e iniziatico per definire la propria identità.  Il viaggio di Odisseo apparirebbe come una narrazione interna – doppiamente interna, considerato che Odisseo per buona parte del poema racconta in prima persona – una mitopoiesi prodotta da Telemaco per colmare il vuoto paterno. Tutte le tappe del viaggio – Circe, Polifemo, le Sirene, Scilla e Cariddi – non sarebbero pertanto ostacoli esterni, ma figure simboliche dell’inconscio, personificazioni di forze psichiche che il giovane deve attraversare per crescere. Odisseo incarna tutto ciò che Telemaco, ancora in formazione, non è ma desidera diventare. In questo senso, l’Odissea funziona come una phantasmagoria, una costruzione mentale che serve a mediare il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Si spiegherebbe così anche diversamente il senso della «Telemachia», cioè la scelta di Omero, del tutto insolita, di ritardare l’entrata in scena del protagonista fino al quinto libro, dedicando un lungo preambolo alle avventure di Telemaco. Un preambolo che potrebbe essere la chiave di lettura dell’intero poema, cambiandone radicalmente il senso. E quale sarebbe il senso? Che non si dà narrazione alcuna all’infuori della figura del Padre, della sua distanza, della sua indecifrabilità. Che qualsiasi racconto sia, come suggerisce il significato stesso del nome Telemaco, la descrizione di una battaglia svolta lontano dal padre o per tenere il padre lontano. Una battaglia che è – anche, allo stesso tempo – una «tentazione di evasione dalla sfera paterna» (come pare che Kafka volesse intitolare l’intera sua opera). In questo combattimento, dunque, rientra a pieno titolo il fantasma di Oreste, che è una proiezione delle paure – o del desiderio inconscio – di Telemaco.  All’inizio del poema, dopo la discussione tra gli dei sull’Olimpo e la decisione di Atena di raggiungere la reggia di Odisseo a Itaca sotto le sembianze di uno straniero di nome Mentore, troviamo il principe che siede tra i «Pretendenti» che gozzovigliano. «Sedeva con l’angoscia nell’animo» scrive Omero. E pensando al padre, fantastica sulla possibilità che possa arrivare all’improvviso a disperdere i Proci. Telemaco è come Amleto nel palazzo di Elsinore: è giovane, è depresso, dialoga in cuor suo con lo spettro del padre, che è stato ucciso dal fratello in combutta con sua madre. Penelope non ha mai tradito Odisseo, però le insistenze dei Proci bastano ad agitare nella mente di Telemaco la fantasia della triangolazione. È la stessa Atena travestita a materializzarla, quando gli suggerisce, poco dopo, di pensare a come uccidere i Proci.  > «Non sei più un bambino, non ne hai più l’età. Non sai quale fama si è > conquistata fra gli uomini il divino Oreste, per aver ucciso il perfido Egisto > che gli assassinò il padre glorioso? Anche tu dunque, grande come sei, e > bello, mostrati audace, affinché possano dir bene di te i tuoi discendenti».  Come lo spettro del re Amleto inciterà il principe alla vendetta, così la dea spinge Telemaco ad agire, a onorare suo padre, per certificare l’ingresso nell’età adulta. Ecco che per la seconda volta nel poema il tema di Oreste viene evocato.  Telemaco, appena compare, all’inizio del canto, è seduto, paralizzato dall’inazione e dal dubbio (l’«essere o non essere» non riguarda sé stesso ma suo padre). Odisseo è lontano, e la sua assenza non è soltanto fisica: è una mancanza simbolica, un vuoto che condiziona la formazione del figlio, è «la mancanza nel campo dell’Altro», come la chiamerebbe Lacan, il punto da cui prendono avvio il desiderio e l’identità del soggetto. Atena, infatti, lo invita a muoversi, a compiere un viaggio, a cercare notizie sul padre per cercare, in realtà, notizie su sé stesso. Prima però gli comunica che suo padre non è morto, e con una certa delicatezza gli dice, vagamente, che > «qualcosa lo trattiene sul mare immenso, forse, in un’isola cinta dall’acqua, > uomini selvaggi e crudeli lo tengono, contro il suo volere, prigioniero».  Nessun accenno alla bellissima ninfa Calipso. Poi gli rivolge una inattesa domanda, gli chiede se davvero lui è il figlio di Odisseo, come a esigere una prova. Domanda cruciale, ineludibile, alla quale Telemaco risponde così:  > «Mia madre dice che sono suo figlio, ma io non so; nessuno può sapere qual è > la sua nascita. Vorrei essere figlio di un uomo felice, che giunge alla > vecchiaia padrone dei suoi beni. E colui, invece, del quale figlio mi dicono, > perché questo tu mi domandi, è di tutti i mortali il più infelice».  Risposta sorprendente. «Vorrei essere figlio di un uomo felice». Odisseo non può essere felice perché sconta la punizione per la sua hybris. Come tutti gli eroi della guerra di Troia, gli usurpatori, i vincitori con l’inganno, anche lui – soprattutto lui – deve pagare se non con la morte, con l’infelicità quella colpa di aver ecceduto. Ma la punizione per la colpa, spesso, non si esaurisce soltanto nel colpevole: la nemesi opera anche nelle generazioni successive, come sappiamo da molti miti greci.  Che giustizia è mai questa che fa ricadere la colpa di un padre sul figlio e sui figli del figlio ancora? Una catena di castigo che non si interrompe, generazione dopo generazione. Forse la vera spiegazione è proprio nella risposta di Telemaco. Si desidera un padre felice, perché il peso dell’infelicità paterna grava inevitabilmente anche sul figlio. È questa la vera nemesi, la vera colpa? Forse la più grande responsabilità che ha un genitore nei confronti dei propri figli è proprio nella sua capacità d’essere felice. Così Telemaco, dopo aver convocato per la prima volta un’assemblea degli uomini di Itaca – un atto di grande significato: mostra il desiderio di assumere il ruolo di guida in assenza del padre – e aver lamentato l’arroganza e il comportamento disonorevole dei Proci, salpa di notte da Itaca verso Pilo, nel Peloponneso, dando inizio al suo viaggio alla ricerca del padre, diretto verso la casa di Nestore, il più vecchio e il più saggio tra i re greci che hanno partecipato alla guerra di Troia. Lui, a differenza di Odisseo, è tornato nel suo regno, e lì Telemaco, accompagnato dalla dea Atena sempre travestita da Mentore, lo raggiunge per avere notizie del padre.  Felice Giani, Telemaco consolato da Temosiri, sacerdote del tempio di Apollo, 1790 ca. A Pilo, sulla riva del mare la gente sacrifica tori neri a Poseidone, con un grande banchetto rituale al quale partecipa anche il re Nestore con i suoi figli. I due vengono accolti con grande ospitalità, prima ancora di sapere chi fossero, come impone la legge sacra dell’ospitalità (la xenia, principio fondamentale nella cultura greca antica). Atena incoraggia Telemaco a parlare con Nestore senza timore. Il giovane, allora, spiega il motivo del suo viaggio: vuole sapere che fine abbia fatto suo padre Odisseo, disperso dopo la fine della guerra di Troia. Ma il re di Pilo non ha più visto Odisseo, ricorda con affetto la sua amicizia e poi, ecco che, per la terza volta, tramite il prosieguo del racconto di Nestore, ricompare il tema dell’uccisione di Agamennone per mano della moglie Clitennestra e dell’amante di lei, Egisto, e il tema della vendetta di Oreste, il leitmotiv che accompagna ossessivamente la «Telemachia». Oreste è l’alter ego di Telemaco: la sua vendetta non è soltanto un richiamo, un’esortazione ad agire (Telemaco dovrebbe prendere esempio da lui, vendicare il padre uccidendo i Proci che insidiano il letto nuziale dei suoi genitori), ma anche, più sotterraneamente, la materializzazione di una fantasia: il padre che ritorna e viene ucciso da qualcuno che ha preso il suo posto al fianco della madre.  Telemaco deve liberarsi di questi fantasmi (definirlo complesso edipico è un anacronismo curioso, ma di fatto di questo stiamo parlando), e il suo viaggio, la sua piccola, circoscritta «odissea» attorno all’assenza di suo padre a questo serve, a farlo maturare, a fargli assumere il suo ruolo di uomo adulto. Ma questa prima tappa funziona solo come presa di coscienza: Telemaco avrà bisogno di sapere che suo padre è vivo, per poter realizzare la sua rappresentazione del nostos paterno, per poter riconciliarsi con lui immaginandone il lungo percorso che ha dovuto affrontare per tornare in patria, e per poter figurarsi un epilogo diverso da quello di Agamennone.  Nestore invita così Telemaco a recarsi a Sparta, da Menelao, che potrebbe avere informazioni più precise su Odisseo. Gli offre un carro e il figlio Pisistrato come guida e compagno di viaggio. I due giovani vengono accolti (ancora una volta) con grande ospitalità a Sparta, dove il re Menelao e la regina Elena (tornati insieme dopo la guerra di Troia), stanno celebrando un doppio matrimonio, quello del figlio di Menelao e della figlia con principi stranieri. Se qui il tema del matrimonio dei giovani si riflette nel matrimonio adulto, è per un motivo preciso. Telemaco deve imparare ancora qualcosa di fondamentale: l’idea che la vita è, in fondo, un compromesso, che l’amore coniugale è fatto di separazione, inganno, allontanamento e ricomposizione, anche se le crepe non si risanano mai. Elena intuisce la somiglianza tra Telemaco e il padre Odisseo e scopre, così, la vera identità del giovane (un’identità derivata). Questo riconoscimento fa commuovere tutti, perché il pensiero di tutti è rivolto, adesso, allo scomparso Odisseo. Ecco, allora, che Elena decide di versare nel vino una droga (pharmakon), che «fuga il dolore e l’ira, il ricordo di tutti i malanni». Ma perché Elena vuole anestetizzare gli ospiti e il marito? Sappiamo che il pianto per gli antichi greci non era motivo di vergogna: tutti gli eroi versano lacrime, perfino Achille. E allora perché questo desiderio di narcotizzare le emozioni? Omero non ce lo spiega, e intanto, ordinato che si versasse il vino drogato ai presenti, Elena inizia a raccontare di Odisseo e di quando il re di Itaca, travestito da mendicante, era penetrato nella città di Troia. Solo lei lo riconobbe (così come adesso ha riconosciuto Telemaco), e dopo averlo lavato e rivestito, gli chiese di rivelarle i piani militari dei greci, giurandogli solennemente che non lo avrebbe tradito, lasciandolo tornare al suo accampamento e alle navi. Da quel momento, dice, «il mio cuore gioiva, perché ormai mi s’era rivolto a tornare a casa»; e lei, pentita, malediva la follia amorosa che l’aveva strappata alla casa, a un marito «a nessuno inferiore, per il senno e l’aspetto».  Elena sta cercando qui di farsi perdonare il tradimento, giudicando la sua fuga a Troia come una follia amorosa, ma a questo punto, però, interviene Menelao e racconta della notte in cui lui e gli altri guerrieri greci si erano nascosti nella pancia del cavallo di legno. Elena, dice, per tre volte girò intorno al cavallo e chiamò per nome i migliori dei Danai, imitando la voce delle loro mogli, così che alcuni di loro, tra cui lo stesso Menelao, furono spinti a rispondere, se non gli fosse stato impedito da Odisseo, che non si era lasciato ingannare e aveva tappato la bocca degli uomini, salvandoli tutti da una morte sicura, finché Atena non condusse la donna lontano. La voce di Elena che imita quella delle mogli dei greci è un richiamo irresistibile, come il canto delle sirene (questa Elena che maneggia le droghe, riconosce gli uomini, imita le voci ha qualcosa di magico, indubbiamente). Ma che cosa sta facendo Menelao qui, se non accusare sua moglie di aver tentato di ingannare i greci, i suoi compatrioti, e lo stesso marito (ingannarlo ancora una volta, imitando la sua stessa voce, un inganno nell’inganno), mettendo a repentaglio la loro vita, per difendere i troiani? Menelao, in altre parole, smentisce la moglie, rinnega la versione che lei stessa ha appena raccontato nel tentativo di scagionarsi, adulando il marito («a nessuno inferiore, per il senno e l’aspetto»). Mentre Elena ha appena detto di aver aiutato Odisseo, nascondendo ai troiani la sua sortita in città, e di essersi pentita della sua scelta, oppressa dalla nostalgia per la casa nuziale e lo sposo, Menelao le rinfaccia di aver cercato di smascherare l’inganno del cavallo di legno, inchiodandola alla sua antica responsabilità.  Con un capolavoro di psicologia coniugale raffinatissima, Omero qua ci mostra un marito e una moglie che, tornati insieme dopo una lunga separazione, covano ancora sensi di colpa da un lato e rancori mai sopiti dall’altro. Capiamo adesso il motivo per cui Elena ha voluto drogare gli ospiti e il marito: affinché quest’ultimo, obnubilato dal «farmaco», credesse alla sua versione e non si facesse prendere dall’ira o dalla sofferenza della gelosia. Ma, evidentemente, nemmeno la droga è riuscita a cancellare dalla mente di Menelao il tradimento della moglie.  Bartolomeo Pinelli, Il sogno di Telemaco, 1808 Telemaco poi, viene a sapere finalmente da Menelao che suo padre è vivo, tenuto prigioniero sull’isola Ogigia dalla ninfa Calipso. Ma prima di rivelarglielo, Menelao gli racconta, conosciuta da Perseo, la sorte degli altri comandanti greci reduci da Troia, tra cui, quella del fratello Agamennone, ucciso da Egisto. Per la quarta volta ritorna il tema di Oreste («Potresti trovarlo vivo, Egisto, o forse l’ha già ucciso Oreste» dice Menelao a Telemaco, quasi a suggerirgli la vendetta). Alla fine del suo breve viaggio, dunque, Telemaco ha scoperto che suo padre è vivo, ma anche – riecco il fantasma, il ritorno del rimosso – che sua madre, l’archetipo della sposa fedele, potrebbe rivelarsi un’Elena, o una Clitennestra, che non solo tradisce il marito, ma trama anche per la sua morte.  La «Telemachia» dunque è come la trasposizione di un rito di passaggio che ogni adolescente deve compiere: allontanamento, straniamento, ritorno in città come cittadino di pieno diritto. Ecco perché il ritorno di Odisseo – con la strage dei Proci, il riconoscimento – può essere interpretato come la conclusione catartica di un processo immaginativo: un desiderio di restaurazione e di ordine, una «fantasia di completamento» che può avvenire solo quando Telemaco riesce a cancellare il fantasma di Oreste. Il suo «doppio», cioè, non deve più essere il figlio che vendica l’assassinio del padre, ma il padre stesso. Telemaco deve liberarsi dalla fantasia del padre tradito e ucciso, di questo desiderio inconscio, per vivere finalmente il desiderio cosciente che il padre torni, lo riconosca, agisca insieme a lui, e infine lo legittimi.  Rileggere l’Odissea come un racconto mentale di Telemaco significa spostare il baricentro del poema dalla dimensione esterna dell’avventura a quella interna della psiche. L’opera si rivela allora come un Bildungsroman, un viaggio non tanto nei mari del Mediterraneo quanto nel paesaggio interiore di un figlio che, per diventare uomo, ha bisogno di immaginare il proprio padre come modello, non come antagonista. Un sogno epico, ma anche una necessaria finzione per attraversare il vuoto e costruire un’identità. Fabrizio Coscia *Le citazioni dell’Odissea sono tratte dalla traduzione di Maria Grazia Ciani, edizione Marsilio. *In copertina: Jacques-Louis David, L’addio a Telemaco, 1818  L'articolo “Vorrei essere figlio di un uomo felice”. L’Odissea? La fantasticheria di Telemaco, il prototipo di Amleto proviene da Pangea.
June 25, 2025 / Pangea
Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di Hisarlık
A scuola si ripete spesso che la guerra di Troia è soltanto un episodio del mito, che non si sarebbe mai svolto nella realtà storica, o almeno non in quelle dimensioni e certamente non a causa di una donna. Con un titolo un po’ provocatorio, preso in prestito dal più evemerista degli evemeristi, Mauro Biglino, in questo articolo si cercherà di fare chiarezza. Già gli antichi avevano notato le numerose incongruenze dei poemi omerici, che così possiamo riassumere: il re dei Paflagoni Pilemene prima muore in battaglia (Iliade V, 576) e poi riappare in lutto per il figlio morto (XIII, 643-658); nel canto IX ai vv. 182-198 c’è una serie di verbi al duale che però si riferisce a tre personaggi (Odisseo, Aiace e Fenice); nella notte che è oggetto dei canti IX e X Odisseo cena tre volte e si tengono due consigli notturni dopo che il poeta ha mandato a dormire i protagonisti; Agamennone regna ora come primus inter pares, ora come un signore assoluto miceneo; il re dell’Argolide è ora Agamennone, ora Diomede; la Dolonia (canto X) è un episodio isolato e del tutto insignificante per la narrazione, peraltro con notevoli problemi esegetici.  Nonostante ciò, nessuno mise mai in dubbio che il conflitto fosse realmente avvenuto in un’epoca remota della storia greca, anche se la tradizione storiografica ci fornisce diverse possibili date per la guerra di Troia, che oscillano tra il 1344 e il 1150 a. C. Quella divenuta canonica è la datazione di Eratostene (1194-1184 a. C.), mentre Erodoto riferisce che Omero visse 400 anni prima di lui e che la guerra avvenne 400 anni prima di Omero, quindi approssimativamente intorno al 1250 a. C. Come noto, la tesi della storicità della guerra di Troia ricevette importanti conferme dalle scoperte del tedesco Heinrich Schliemann, che nel 1868 raggiunse il sito di Hisarlık e nell’aprile 1870 diede inizio agli scavi. A dire il vero, il sito gli era stato indicato da Frank Calvert, che vi aveva condotto degli scavi esplorativi tra il 1863 e il 1865, ma all’inglese mancavano le finanze, la fantasia e le capacità narrative di Schliemann, che finì per oscurarne la figura. Va detto anche che dell’antica città non si era mai persa la memoria: i più ritenevano che il sito antico sorgesse al di sotto della città romana di Ilium (Troia IX, I secolo a. C.-IV secolo d. C.) e della città greca di Ἴλιον (Troia VIII, 950-I secolo a. C.). In età bizantina, al tempo dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959), Ilium era stata una piccola sede arcivescovile e, simbolicamente, l’ultimo a farvi visita era stato il sultano Maometto II, poco dopo la caduta di Costantinopoli, quasi a simboleggiare la rivincita dell’Asia sulla Grecia. Determinato a ritrovare a tutti i costi la città omerica e convinto che quest’ultima si dovesse trovare necessariamente al di sotto di almeno altri tre strati (quello romano, quello greco e quello lidio dell’epoca di Omero), Schliemann scambiò però le mura dell’Età del Bronzo per mura di età classica e ordinò la distruzione dei primi nove metri della collina di Hisarlık, nonostante gli inviti a una maggiore prudenza da parte di Calvert. Proprio quand’era sul punto di abbandonare l’impresa, il 31 maggio 1873 Schliemann s’imbatté in quello che ribattezzò “tesoro di Priamo”. Soddisfatto del proprio lavoro, l’anno successivo pubblicò i risultati dei suoi scavi e partì alla volta di Micene. Malgrado l’enfasi con la quale Schliemann presentò le sue scoperte, nulla era stato dimostrato: come si è detto, dell’antico sito di Troia non si era mai persa la memoria, anche se la sua precisa collocazione era ancora ignota. Generazioni di conquistatori avevano fatto visita al sito: Serse, Alessandro Magno, Cesare, Adriano, Caracalla e molti altri, ma non mancava chi, come Erodoto e Strabone, dubitava del racconto omerico. Il fatto che fosse stata scoperta una città di nome Troia non provava che la guerra si fosse effettivamente svolta lì. Come se non bastasse, quando tornò a Hisarlık, nel 1878 e soprattutto nel 1882 e nel 1890, Schliemann si rese conto che la città che aveva trovato non poteva coincidere con quella omerica, che doveva invece essere identificata in Troia VI (1750-1300 a. C.), come proposto dal suo assistente Wilhelm Dörpfeld, che lo affiancò negli ultimi scavi. Il tesoro di Priamo in realtà era di mille anni più antico (Troia II, 2550-2300 a. C. circa). Fu una terribile constatazione: per ironia della sorte, nella sua affannosa ricerca della città omerica, Schliemann aveva distrutto gran parte dell’evidenza archeologica di quel periodo! Ammalatosi di tumore, mentre programmava una nuova stagione di scavi alla ricerca di una città bassa, Schliemann morì a Napoli nei pressi di piazza della Carità, durante uno dei suoi numerosi soggiorni partenopei. Grazie al sostegno finanziario della vedova Sophia e del kaiser Guglielmo II, Dörpfeld poté continuare i lavori per altre due stagioni (1893-1894) e alla fine riportò alla luce le mura dell’Età del Bronzo (quelle che Schliemann aveva scambiato per mura di età classica). Si trattava di mura imponenti: erano alte nove metri, in blocchi calcarei squadrati con elevato in mattoni crudi, presentavano torri imponenti e cinque porte, la più maestosa delle quali viene identificata da coloro che credono al racconto omerico con le porte Scee. Curiosamente, il settore più debole delle mura è quello settentrionale, proprio come nell’Iliade; inoltre, come si può notare dalla foto, le mura sono inclinate, il che potrebbe spiegare il fatto che nell’Iliade Patroclo cerchi per ben quattro volte di scalarle. Si tratta, ovviamente, di semplici suggestioni. Troia VI: tratto di mura e torre di possibile influsso ittita vicino alla Porta Est (primo esempio conosciuto di mura a dente di sega); sulla terrazza adiacente, case di Troia VIIa Tra il 1932 e il 1938, grazie al sostegno dello stesso Dörpfeld, i lavori ripresero sotto la direzione di Carl Blegen, dell’università di Cincinnati, le cui ricerche, però, erano viziate da una sorta di bias di conferma: infatti, egli era assolutamente convinto della storicità della guerra di Troia. Blegen notò il crollo delle torri e la caduta delle mura fuori asse e giunse alla conclusione che Troia VIh era stata distrutta da un terremoto che possiamo datare ai primi decenni del XIII secolo a. C. Secondo lo storico austriaco Fritz Schachermeyr, la leggenda del cavallo di Troia conserverebbe proprio la memoria di questa catastrofe: il cavallo sarebbe soltanto una metafora di Poseidone, dio del mare e, appunto, dei terremoti. Falsa è, invece, la teoria di Francesco Tiboni secondo la quale il cavallo di Troia sarebbe stato soltanto una nave fenicia con protome equina: rappresentazioni del cavallo di Troia sono attestate nell’iconografia sin dall’VIII secolo a. C. Se Troia VIh era stata distrutta da un terremoto, la città di Omero non poteva essere che lo strato successivo, Troia VIIa (1300-1180 a. C.). Blegen notò che questo strato presentava una maggiore densità abitativa, con muri divisori tra le case, e interpretò questo fatto come la prova di un assedio prolungato. Ciò non è affatto scontato: le strutture di Troia VIIa potrebbero essere interpretate anche come baracche temporanee per ovviare alle distruzioni causate dal terremoto. Del resto, ad oggi le uniche possibili prove di scontri sono alcuni resti umani nelle strade, tre punte di frecce, due rinvenute nella cittadella e una nella città bassa, e una punta di lancia rinvenuta nell’area occidentale. Una delle punte di frecce trovate nella cittadella potrebbe essere di fabbricazione micenea, ma neppure questa può essere considerata prova di un evento bellico: potrebbe trattarsi di una freccia caduta da una faretra o abbandonata! Infine, Troia VIIa mostra chiari segnali di un incendio, ma tale incendio potrebbe anche essere attribuito a una catastrofe naturale. La nuova stagione di scavi, su scala internazionale, è stata inaugurata nel 1988 da Manfred Korfmann, dell’università di Tubinga, e ha coinvolto più di 350 accademici da oltre venti Paesi. Obiettivo principale di Korfmann era l’individuazione della città bassa. Infatti, la cittadella di Troia ha un diametro di non più di 200m e copre un’area di appena due ettari: essa avrebbe potuto ospitare al massimo qualche centinaio di persone. Come si è detto, già Schliemann aveva in programma lo scavo della fertile piana circostante la cittadella, ma la morte glielo aveva impedito e Dörpfeld non era riuscito a ottenere risultati definitivi. Secondo Korfmann, nei livelli che ci interessano (VI e VIIa) la città bassa si sarebbe estesa per circa 20 ettari e complessivamente Troia avrebbe avuto una popolazione compresa tra 4000 e 10000 abitanti, o forse anche più se si include la popolazione che potrebbe aver vissuto al di fuori del perimetro della città, in aree rurali facenti parte del regno. Nel XIII secolo a. C., il perimetro della città sarebbe stato protetto da un muro in mattoni crudi e da due fossati con una palizzata, il primo 400m a sud della cittadella e il secondo altri 100-150m più a sud.  Nel 2001, Korfmann presentò i risultati delle sue ricerche al grande pubblico in un’esposizione intitolata Troia. Traum und Wirklichkeit, nella quale, tra le altre cose, veniva mostrata una ricostruzione completa della città bassa. Fu proprio questo modello ad attirare le aspre critiche di Frank Kolb, suo collega presso l’università di Tubinga. Purtroppo, tale polemica travalicò i confini dell’accademia: intervistato dal Berliner Morgenpost, Kolb accusò Korfmann di ingannare il pubblico con ricostruzioni fantasiose e lo ribattezzò “il von Däniken dell’archeologia” (Erich von Däniken è un celebre pseudoarcheologo sostenitore della teoria degli antichi astronauti, ndr). Secondo Kolb, non ci sarebbe alcuna evidenza dell’esistenza di una città bassa, i due fossati potrebbero essere dei canali usati a scopo agricolo e, calcolando una popolazione di 100/200 abitanti per ettaro, se si ipotizzasse un’area di 11-15 ettari si arriverebbe al massimo a 1000-3000 abitanti. Per Kolb, Troia non presenta alcuna affinità con siti come Efeso e Mileto, è priva di edifici monumentali e di una pianificazione stradale e assomiglia più a un centro protourbano isolato che a una città vera e propria (la ceramica importata è solo l’1%!).  Mentre Schliemann e Blegen erano stati criticati per la loro eccessiva fiducia nel racconto omerico, paradossalmente Kolb criticò Korfmann proprio facendo ricorso al cieco cantore. La città ricostruita da Korfmann – dice Kolb – non ha nulla della monumentalità dell’alta rocca di Priamo: l’edificio più imponente, la Pillar House di Blegen, non ha nulla a che vedere con le sessanta stanze del palazzo descritto in Iliade VI, 242-249. Inoltre, essa presenta due cinte murarie, mentre quella omerica ne ha solo una. Infine, la città di Korfmann ha una vocazione commerciale, mentre quella omerica è abitata da allevatori, pastori e costruttori, non da commercianti. Come si può vedere, si tratta di una tesi facilmente smontabile: Omero è pur sempre un poeta, non un archeologo, e si può sempre ipotizzare che alla sua epoca il muro in mattoni crudi della città bassa fosse crollato. Questo eccessivo scetticismo, unito con la volontà di spiegare la realtà archeologica di Hisarlık attraverso Omero, si è imposto nell’immaginario collettivo e ha dato adito alle teorie più strampalate: ex-ingegneri nucleari si sono improvvisati archeologi e ci hanno spiegato che queste incongruenze sono facilmente risolvibili se si sposta la cittadella di Priamo 3000 km più a nord e nel XVIII secolo a. C., a Toija, in Finlandia. Un abbaglio culturale collettivo, quello generato da Omero nel Baltico di Felice Vinci, che non ha risparmiato illustri classicisti e accademici, primi tra tutti Rosa Calzecchi Onesti e Umberto Eco (quandoque bonus dormitat Ecus). Tornando a questioni più serie, la ricerca successiva ha dimostrato, invece, che questo scetticismo era del tutto ingiustificato. Tra il 15 e il 16 febbraio 2002, l’università di Tubinga organizzò un simposio dal titolo The Meaning of Troy in the Late Bronze Age, con la partecipazione di 13 relatori, che giunsero alla conclusione che i dati di Korfmann erano in larga misura validi. La scarsità di evidenze archeologiche per la città bassa è dovuta all’eccezionalità delle condizioni del sito di Hisarlık, che è stato in gran parte danneggiato dall’erosione – come del resto è avvenuto anche alle fasi preistoriche – e all’asportazione di materiali in età ellenistica e romana. Del resto, meno del 5% del sito è stato scavato! Pertanto, la presenza di una città bassa può essere solamente dedotta sulla base della presenza di ceramica al di fuori della cittadella nei periodi VI e VIIa e anche sulla base di un semplice argomento logico e contrario: l’idea che Troia rappresenti soltanto una residenza aristocratica non può essere sostenuta perché rappresenterebbe un unicum a livello archeologico, laddove il sistema di fortificazioni ricostruito da Korfmann, con fossato, cinta muraria esterna e muro principale, è il più frequente del mondo antico, dall’Età del Bronzo fino all’età bizantina! Negli studi più recenti, si ipotizza che la città bassa occupasse un’area compresa tra 25 e 35 ettari, con circa 5000-6000 abitanti, dimensioni del tutto compatibili con i centri micenei e con città ittite di medie dimensioni come Gordion, Alişar, Kuşaklı/Šarišša, Beycesultan e la città-Stato portuale di Ugarit, il che ne farebbe una potenza regionale. L’idea che i due fossati avessero uno scopo agricolo non è più sostenibile, anche se è stato dimostrato che essi non sono contemporanei, ma risalgono a due fasi diverse, rispettivamente VI e VIIa. A Korfmann è succeduto il collega Pernicka, dal 2006 al 2012, poi Rüstem Aslan dal 2014. Quest’ultimo ha riportato alla luce un ulteriore livello precedente a tutti gli altri, Troia 0 (3500-3000 a. C.). Complessivamente, sono stati riportati alla luce undici diversi livelli, suddivisi a loro volta in oltre cinquanta fasi: Troia 0 (3500-3000 a. C.), Troia I (3000-2550 a. C.), Troia II (2550-2300 a. C.), Troia III (2300-2200 a. C.), Troia IV (2200-2000 a. C.), Troia V (2000-1750 a. C.), Troia VI (1750-1300 a. C.), Troia VIIa (1300-1180 a. C.), Troia VIIb (1180-1000 a. C.), Troia VIII (= Ἴλιον, 950-I secolo a. C.), Troia IX (I secolo a. C.- IV secolo d. C.) e Troia X (dopo il IV secolo d. C.). Christian Allasino  *In copertina: Henry Fuseli, Frammenti dall’Iliade, da un quaderno di schizzi L'articolo Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di Hisarlık proviene da Pangea.
March 29, 2025 / Pangea