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Inseguire la voce, ovvero: sulla mia ossessione per Teresa Ciabatti
C’è chi scrive, e poi ci sono le voci. La prima condizione non presuppone la seconda. Difficile per il lettore districarsi e distinguere, nonostante la differenza sia sostanziale. Una voce ogni quanti? Nel mare magnum dato alle stampe il rapporto potrebbe essere di 1:100, ma non voglio azzardare una stima. Mi perdo in queste considerazioni durante la lettura di Donnaregina, l’ultima fatica di Teresa Ciabatti appena uscita per Mondadori con Antonio Franchini in veste di editor – lo stesso Franchini che, con Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio), mi ha fatto passare l’estate scorsa a chiedermi se in realtà sua madre non fossi io. Ma torniamo a Teresa Ciabatti. Al di là di cosa racconti, la sua voce è sempre la stessa, mi sembra di sentirla sin dalle prime pagine e mi riporta indietro – la voce di Teresa Ciabatti è come una madeleine – a quella che ero quasi dieci anni fa, quando leggevo La più amata – il suo libro più conosciuto, quasi vincitore del Premio Strega – e sognavo di diventare una scrittrice. Le nostre storie si sfiorano senza incontrarsi come quella di Teresa Ciabatti e Giuseppe Misso – il super boss e personaggio chiave nella storia della camorra – la cui vita decide di raccontarci. Vado avanti nelle pagine mossa non tanto dalla curiosità della vicenda ma dalla narrazione dell’autrice che compare fra le righe, perché è lei che cerco.  Quando comincio a leggerla lei è un’autrice affermata, io non sono nessuno. Ma sogno di diventare un’autrice affermata anch’io e inseguo la sua voce. O forse non sono io a inseguirla: è quella voce che mi cattura, la stessa che parla dei genitori entrambi morti (fortune?), dei traffici del padre massone, della madre depressa ma, soprattutto, che parla di sé.  Una voce smodata, eccessiva, mitomane. Che non risparmia nulla, in primis a se stessa.  Come la Madonna vergine e madre, come l’Uomo che è sempre buono e cattivo, anche Misso ha una natura duplice, e in Donnaregina ci sono due protagonisti, i cui destini s’intrecciano pur proseguendo su binari paralleli, ciascuno con le sue cadute, con le sue finte risalite, con le speranze e gli intenti. Mi lascio trasportare dagli incisi che alludono e dalle digressioni – artifici di Ciabatti – sono un po’ la sua firma – nonché resi possibili dal suo guardarsi dall’esterno: un vezzo che si chiama dissociazione ed è un sintomo psichiatrico. E allora Teresa Ciabatti – Nostra Signora di Orbetello, anzi, Nostra Signora della Liberatoria, compie il miracolo: non si limita a intervistare il boss, addirittura ad affezionarvisi, consegnandoci un ritratto fra il folkloristico e l’umano.  Nel suo racconto non si distingue più cosa è vero da cosa è falso, chi è figlio di chi, la trans dall’autolesionista, perché tutti i figli so’ piezz’ e core. Donnaregina è infatti un libro che indaga il confine sottilissimo – tanto sottile da diventare impercettibile – fra fiction e non fiction, ciò che si ispira al vero e diventa falso, mentre il falso è come se fosse vero e allora, mi chiedo, in questo punto esatto in cui Ciabatti ci porta, siamo davvero sicuri che ci serva il permesso di qualcuno per scrivere? A quanto pare sì. Lo spettro della liberatoria aleggia infatti in tutto il libro, è come un coro greco che sul più bello della narrazione torna col suo lamento. Ormai mi sembra di sentirla anche se smetto di leggere, mi ossessiona tanto da parlarne al dottore: dobbiamo forse aumentare il litio? Lui mi rassicura: personalmente non l’ha mai letta ma ha sentito dire che può fare questo effetto. Andiamo avanti così.  Se nessuno scrittore è capace di deprimermi più di Michel Houellebecq, l’unica scrittrice italiana da cui sono ossessionata è lei, e a prescindere da cosa scriva. Forse perché le sue protagoniste, nonostante i numerosi privilegi di cui godono e che ci mostrano – la piscina a Orbetello, la casa in centro a Roma, la tomba del padre messa in sicurezza prima di tutte le altre – sono disperate. Una disperazione che non smettono di ostentare, e che le rende ridicole, a tratti, e così tragicamente umane. La stessa Ciabatti lascia trasparire la sua disperazione: è alle prese con la crisi della figlia adolescente alla quale non impedisce di fare la ricostruzione delle unghie perché è pur sempre uno slancio vitale – e la sua amica Michela Murgia sta morendo. Quando cerca di rassicurare se stessa mentre il mondo va in pezzi, illudendosi che andrà tutto bene durante la cena in giardino, diventa tutte e tutti quando proviamo ad andare avanti, anche leggendo storie che ci aiutino a vivere.  Ma veniamo alle assonanze che giustificano in parte la mia ossessione. Anche io sono una donna di mezza età con una figlia adolescente, anche io saluto l’intrepida ragazza che sono stata e in più il mio culo sta franando come il cimitero di Orbetello. Lavori in corso. E ancora: anch’io vorrei dare una svolta alla mia carriera – non sono più un’aspirante scrittrice, ma per scrivere dovrò senz’altro procurarmi la liberatoria di qualcuno. Bei tempi quando bastava l’avvertenza “ogni riferimento è puramente casuale”, oggi senza liberatoria non sei nessuno, non si va da nessuna parte, si è dovuto rassegnare anche Emmanuel Carrère. Come avverte lei nel disclaimer però il cimitero non è mai crollato, quindi c’è ancora speranza.  Così, mentre leggo aneddoti ai limiti del trash sono commossa, faccio un post su instagram, poi mando un messaggio a Ciabatti con le mie impressioni. Su wapp Ciabatti commenta: Solo tu noti i dettagli marginali, sei la mia lettrice ideale. E invece no. Io registro le informazioni a margine perché in realtà a me della storia di Misso – della storia del boss che sto leggendo da duecento pagine – pur nascendo napoletana, non me ne frega un cazzo. Delle rapine, del carcere e dei morti ammazzati, del rione Sanità e della sua passione per i colombi.  Mi chiedo allora cosa mi tenga incollata alle pagine. E adesso finalmente lo so. In questi duri tempi in cui per scrivere prima ancora della penna serve la liberatoria, a decretare la grandezza di un libro non saranno la trama, l’editing o la strategia. Sarà la voce. Una voce che catturi nella prima pagina e che conduca all’ultima, al di là dell’argomento. Che si parli di crociate, della caduta del regno delle due Sicilie o di una Fortezza in mezzo al nulla, non importa, a fare il libro sarà la voce che (e se) vi è contenuta. Una stessa voce che compaia in libri diversi della stessa autrice, come una chimera, una promessa mantenuta, un balsamo che invece di lenire ossessiona.  Non so dire allora se Donnaregina sia o no un grande libro, ma quello che so per certo – da scrittrice e da lettrice – è che quella di Teresa Ciabatti è inequivocabilmente una grande voce.  Fuani Marino *Fuani Marino ha pubblicato con Einaudi “Svegliami a mezzanotte” (2019) e “Vecchiaccia” (2023)   In copertina: John Singer Sargent, Lady with a Blue Veil, 1890 L'articolo Inseguire la voce, ovvero: sulla mia ossessione per Teresa Ciabatti proviene da Pangea.
May 20, 2025 / Pangea