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“È l’assalto di Lucifero contro il mondo”. Armand Robin, l’uomo che ascoltava le voci e svelò il metodo delle “fake news”
Usava una parola molto più possente. Per dire ciò che noi intendiamo, indotti dagli intellettuali modaioli, con fake news, lui diceva «controverità» – e occorre aggiungere che quest’uomo dal nome di un brigante variopinto, con gli occhiali tondi e il sorriso laccato, aveva già capito tutto ottant’anni fa o quasi. L’immagine è questa. Siamo nel 1941 e il tizio, prima per impegno contratto con il ministero dell’Informazione del governo di Vichy, poi da casa sua, per i fatti suoi, ha le cuffie e ascolta le voci. Si è costruito un apparecchio radio, e lui è lì, specie di sentinella che smista i linguaggi, a spiare cosa si dice a Tokyo, a Istanbul, a Mosca, a Londra, a New York. Tutto il mondo ronza nelle sue orecchie. E lui, registra. In un capoverso che pare il sunto di un romanzo di H.P. Lovecraft, racconta così ciò che ascolta, la notte, mentre Morfeo disintegra Parigi:  > «Nel corso del mio tête-à-tête con le radio del mondo, mi capita di provare la > sensazione, come per via medianica, di un contatto con i temibili esseri > psichici che assediano il pianeta, ossessionano l’umanità, cercano interi > popoli di menti da soggiogare, divorare, saharizzare… Al di là delle parole, > percepisco le grida dei carnivori della mente in cerca del pasto». Armand Robin, classe 1912, ultimo di otto figli, si vantava di essere nato in «una famiglia contadina scarsamente alfabetizzata»: nel 1931 comincia a studiare il russo e il polacco, s’impantana nei linguaggi e in quel labirinto si perde, «è destinato a diventare un vero e proprio poliglotta, arrivando ad usare, quando non parlare e scrivere, una ventina di lingue e dialetti». Traduttore inossidabile, di Goethe, Shakespeare, Pessoa, Khayyam, Majakovskij e Lope de Vega, il suo talento è riconosciuto anche da Ungaretti:  > «le mie poesie tradotte da Robin sono io più Robin. Mi ha colto alla radice. > Sotto terra c’è una seconda fioritura».  Robin ha il radar del linguaggio, è una specie di Isaia che profetizza, nel niente contemporaneo, in tutte le lingue del mondo. Sa, pure, che il linguaggio è spietato e chiede tutto. A lui sottrae il talento creativo. In un aforisma di violenta nitidezza, Robin si definisce  > «poeta senz’opera, eliminato dalla sua stessa poesia, suicida canto per canto, > una gola strozzata da parole troppo esigenti». Ma torniamo in quella stanza radiofonica, dove Robin ascolta le voci degli altri.  Lì, nel suo bunker privato, uno shuttle gettato nel cuore della Storia – «Non vivevo che visitato da lamenti, preso di mira dai pianti di ogni Paese» – Robin esplicita l’essenza delle fake news. Tutto comincia, però, con il fatidico viaggio in Russia, nel 1933, in estasi comunista. Prima di tutti, sul campo, Robin capisce cos’è l’Unione Sovietica: «Quanto hai visto fu un incubo, un mondo in cui ogni senso della dignità umana è morto, perseguitato». Nel 1940 incontra Pierre Drieu La Rochelle e collabora con Vichy come «ascoltatore di voci» via radio. L’esito di questi ascolti, che proseguono per oltre un decennio, sfocia in un libro indefinibile e magnetico, La fausse parole, pubblicato dalla Éditions de Minuit nel 1953 e proposto, insieme ad altri scritti, da Giometti & Antonello, nel 2018, come L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti (a cura di Antonio Malinverno). In un paragrafo, Al di là di menzogna e verità. Mosca alla radio, Robin spiega la dinamica della fake new, della «controverità», che durante l’era stalinista giunge a vertici deliranti. Proclamare reiteratamente che il mondo in cui si vive, anche se fa schifo, è il più bello possibile, ha per scopo l’annientamento della realtà. Obbiettivo di ogni regime – anzi, di ogni politica –, risolto da Stalin con sublime audacia.  > «In breve, è come se la realtà non esistesse, o almeno come se il vero scopo a > cui si mira fosse di correggere l’umanità dalla sua indesiderabile propensione > a constatare che quanto esiste, esiste davvero… Per quanta immaginazione si > abbia, è difficile concepire un modo migliore per far sentire agli uomini che > la loro coscienza non ha più nessuna ragion d’essere, che è ormai soltanto una > grottesca vestige. Si tratta della liquidazione dell’umano intendere. > Nonostante sia la prima volta nella storia dell’umanità che una simile impresa > viene tentata con tanta suprema abilità, essa porta lo stesso nome da secoli: > è l’assalto di Lucifero contro l’uomo». Robin, l’uomo che disinnescò il sistema della propaganda, lavorava con Vichy e passava le notizie ai giornali clandestini: sorvegliato dalla Gestapo, malsopportato dagli intellettuali di sinistra – rappresentati da Eluard e Aragon, su cui piombavano i devastanti fulmini di Robin: «La nostra letteratura è stata disonorata da quella miserabile farsa chiamata per antifrasi poesia della Resistenza (quale poesia? Quale resistenza?)… Si sono visti i cantori della libertà presiedere i tribunali dell’inquisizione, i distruttori di prigioni reclamare la moltiplicazione delle prigioni». Dopo la guerra, fu inserito nella lista nera dei collaborazionisti. Non se ne curò. S’iscrisse alla Fédération Anarchiste per puro spirito, si diede a epici vagabondaggi in motocicletta, tradusse Boris Pasternak, verso cui riservava un’ammirazione assoluta («è l’individuo in quanto tale assolutamente inscalfito dal comunismo»). Morì nel 1961, sopraffatto dai debiti, «per cause mai accertate», dopo essere stato condotto a forza al commissariato di quartiere, Parigi. Era il 28 marzo, faceva a cazzotti in un caffè, forse; «in seguito al rifiuto dell’eredità da parte della famiglia, tutti i beni di Robin sono finiti nella discarica pubblica. Solo tre valigie di manoscritti raccolti in dieci minuti vengono salvate in extremis».  Così, come un errore grammaticale, svanì un uomo fantomatico, di traslucida veggenza – di sé disse: «attraversando tutti i paesi fui trasparente. Non ho riconosciuto frontiere». Il regime irrigidisce la grammatica, preda il linguaggio, lo conquista e da lì imprigiona l’uomo – questo ci ha insegnato Robin. *In copertina: una immagine tratta da “Le vite degli altri”, film di Florian Henckel von Donnersmarck del 2006 L'articolo “È l’assalto di Lucifero contro il mondo”. Armand Robin, l’uomo che ascoltava le voci e svelò il metodo delle “fake news” proviene da Pangea.
July 8, 2025 / Pangea
“Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini & Ferretti, l’allievo eretico
Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta – endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari – e di uno sguardo mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti inviò la plaquette che s’era stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent’anni: eccelleva nei temi, restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle, figlio di un geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri dell’editoria di allora. Gli rispose, entusiasta, Pier Paolo Pasolini; di lui scrisse, entusiasta, su “Officina”. Ferretti si rivolgeva al “caro professore” con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz – “ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente sperimentali” – Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai, Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall’università – a Perugia, “un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite” –, Ferretti gioca all’uomo in rivolta, carpito di una rivoltante depressione, e gli chiede “tu frequenti l’ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un attore”, Pasolini lo blocca, bacchetta il suo “maleodorante romanticismo”, gli dice di tornare a studiare.  > “Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro > rompicoglioni, dilettante e presuntuoso”.  Siamo agli inizi del ’57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, “Sul bus 37, Giorgio Manganelli… con un libro sotto il braccio: Allergia”). Ad ogni modo, il libro è onorato con il “Premio Viareggio” opera prima; negli anni, s’inabissa nell’oblio, diventando – per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni verso l’inattuale – un testo ‘di culto’: all’edizione Marcos y Marcos del 1994 seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello. Aveva ragione Pasolini – che leggeva il giovane Ferretti “con le lacrime agli occhi, come in sogno” –: quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo stigma dell’“adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua come un personaggio di Thomas Mann” (così Massimo Raffaeli). L’attacco di Polemica per un’epopea tascabile, per dire, è bellissimo:  > “Sono un animale ferito. > Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere > definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda. > Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il > cuore m’avrebbe solo bagnato”. Successe, poi, il disastro.  Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un’arte predatoria; Ferretti – creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre – gli sfuggì. A metà dicembre del 1957 i due – il maestro e il pupillo – s’incontrano, a Roma. Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: “Avevo 20 anni e t’ho fatto diventare un eroe… questa è stata la mia grande colpa”. Pasolini gli risponde con un autoritratto:  > “io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent’anni, e molto ingenui, > direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non > erotico)… Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia > innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da > questo punto di vista”. Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l’armata del Gruppo 63, frequenta Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel 1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come “Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla”, Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra – come il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 – resta tra le retrovie dell’epoca. Nel 1959 Ferretti si era “consegnato”, per l’ennesima volta, a Pasolini; gli racconta del cugino suicida, “aveva un anno più di me e non era un giovane bruciato: era disperato”. Il maestro gli risponde, trafelato, tra “il trasloco” e “il Premio Strega, con le sue mille telefonate”. È una risposta sbrindellata, da bovina madama ideologia in imperio: “Quello che non capisco – e che ti minaccia – che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio – è quella voglia a essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista”. Ferretti lo malmena: “Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente… sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”.  Da qui in poi, il carteggio – che si legge in un libro violento e istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli – segue l’atroce trama di un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l’angelo che si tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva azzannare al collo.  Per un po’, Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su “Il Giorno”; per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segno sul muro, 1973), primordiale musa di Pound, e l’antropologa Margaret Murray (Il dio delle streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo: chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver visto Teorema, “è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me) assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento”. Pasolini replica da chioccia in estro (“Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto”) e accetta di fargli da testimone, “disumanamente”. Le date, tuttavia, non collimano: al fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva bollato così: “Rimbaud integrato in una società di imbecilli”.  Schifato dall’odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e nel novembre del 1974 muore, nel sonno. Qualche mese prima aveva scritto l’ultima, allucinata lettera-invettiva a “Pierpaolo mio”:  > “Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per > niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini”.  Era arrivato l’astio, infine, il cupo gemello della pietà.  Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.  *In copertina: Pier Paolo Pasolini nel 1966, ritratto da Richard Avedon L'articolo “Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini & Ferretti, l’allievo eretico proviene da Pangea.
May 24, 2025 / Pangea