Per spiegare se un testo sia traducibile sono stati scritti centinaia di libri e
di saggi di traduttologia, sono state spese milioni parole in decine di lingue,
tradotte a loro volta in altre decine di lingue. Quello che resta, di questo
profluvio verbale, di questo scialo teoretico, sono alcune affermazioni
apodittiche e contraddittorie, che spesso sconfinano nel paradosso o nella
boutade, e che fanno il giro del mondo nei convegni sulla traduzione. Il
repertorio è infinito: dal precetto di Cicerone di non tradurre verbum pro
verbo alle polemiche di San Gerolamo, dalle considerazioni di Lutero alle
argomentazioni di Du Bellay, Montaigne e Chapman, a quelle di Ben Jonson
sull’imitazione, fino alle considerazioni filosofiche di Von Humboldt e ai
resoconti di Goethe, Schopenhauer, Arnold, Valéry, alle teorizzazioni di Pound,
Benjamin e Ortega y Gasset.
In Italia domina la battuta, citatissima e un po’ misogina – attribuita a Croce
ma in realtà di Carl Bertrand, il traduttore tedesco di Dante, che riprese una
definizione di Gilles Ménage –, secondo cui le traduzioni sarebbero come le
donne, “brutte e fedeli o belle e infedeli”. Come anche quella, attribuita a
Robert Frost, secondo cui “poesia è ciò che si perde nella traduzione”. Per
Ortega y Gasset, la traduzione, semplicemente, “non è possibile”; per Jakobson
“la poesia è intraducibile per definizione”. Walter Benjamin, pur nel suo
pessimismo, sostiene che “la traduzione è necessaria”. Secondo Novalis e
Humboldt, tutta la comunicazione è traduzione. C’è poi la celebre quartina di
Nabokov:
> “Cos’è la traduzione? Su un vassoio
> La testa pallida e fiammante di un poeta,
> Uno stridìo di pappagallo, una ciancia di scimmia,
> E una profanazione dei morti”.
Come afferma George Steiner in Dopo Babele, “per circa duemila anni di
discussioni e di precetti, le convinzioni e i contrasti manifestati sulla natura
della traduzione sono stati quasi gli stessi. Tesi identiche, mosse e
confutazioni familiari ricorrono nelle dispute, quasi senza eccezioni, da
Cicerone e Quintiliano ai giorni nostri”. Il postulato dell’intraducibilità
“poggia sulla convinzione, formale e pragmatica, che non vi possa essere
autentica simmetria, rispecchiamento adeguato, tra due sistemi semantici
differenti”. Il punto, conclude ancora Steiner, è sempre il medesimo: la cenere
non è la traduzione del fuoco.
Scuola spagnola, Testa di Giovanni il Battista, XVII secolo
Se, come sostiene Croce, “l’intraducibilità è la vita della parola”, resta
nondimeno il dato incontrovertibile che centinaia di migliaia di biblioteche
straripano di libri tradotti. E restano i milioni di libri tradotti da
un’infinità di lingue: molti egregiamente, altri mediocremente, altri ancora
pessimamente. Perché è vero che in nome della traduzione – della sua necessità,
e del suo culto – sono stati commessi i delitti più infami e i più gloriosi atti
di eroismo. Sepolti negli scaffali delle biblioteche, esposti sui banconi dei
librai di tutto il mondo, giacciono crimini linguistici efferati, compiuti
spesso da persone, come si dice, al di sopra di ogni sospetto, che le logiche
editoriali impongono, o tollerano o incoraggiano, che spesso i lettori subiscono
impotenti, e che nessuno punisce mai.
In questa necessaria, indispensabile quanto spesso inutile attività dell’ingegno
umano, si sono esercitate schiere di inetti, ignari spesso della lingua di
partenza come di quella d’arrivo, consegnando agli editori o alle stampe aborti
mostruosi; e imperano legioni di scrittori mancati e di scribacchini frustrati
che cercano, come uccelli usurpatori, confortevole riparo in nidi altrui. Ma a
tale attività offrono il loro contributo anche legioni di onesti mestieranti,
che pur dietro compensi offensivi nobilitano la professione; per non dire dei
non pochi geni che la elevano da attività funambolica a sublime forma d’arte.
Con ciò non si vuole infierire sulle traduzioni letterarie malfatte, ma
semplicemente porre l’accento su quanto sia arduo riuscire a fare una buona
traduzione. Com’è noto, una delle attività preferite di moltissimi critici e
traduttori è la caccia all’errore nelle traduzioni altrui: sport che ha prodotto
qualche libro divertente e molte gogne umilianti, come l’americano Glorious
Mistakes. Il che equivale, comunque, a sparare ai passeri. I francesi hanno
un’espressione deliziosa per definire questi perditempo frustrati che cercano un
po’ di gloria dando la caccia all’errore in traduzioni di onesti professionisti
che per pochi soldi si sono consumati gli occhi su testi a volte difficilissimi
al limite dell’intraducibilità: li chiamano (excuse my French) le enculeurs des
mouches, i sodomizzatori delle mosche.
Giovanni Bellini, Testa di Giovanni il Battista, 1470 ca.
Come diceva Pound, i critici dovrebbero ricordarsi che scopo della traduzione
poetica è appunto la “poesia”, non le definizioni verbali dei dizionari; e che a
volte una traduzione è brutta proprio perché non sbaglia mai. Il fondamento
della traduzione poetica, infatti, è la trasposizione, non il rispecchiamento,
vale a dire la restituzione fedele del senso poetico, e la necessità di
compiere, nella lingua d’arrivo, lo stesso percorso creativo che ha condotto
l’autore originale a dare al suo testo, tra tutte le forme possibili, quella
storicamente proposta e non altre. In questo senso, allora, ogni testo diventa
traducibile, con buona pace di Croce (che del resto non era poeta) e di tutti i
pudichi glottologi che con reverenza quasi superstiziosa ritengono sacro e
inviolabile il testo originale.
Prendiamo il caso del greco-alessandrino Costantino Kavafis, che mentre in
Grecia (dove lui non è mai vissuto) infuriava asperrima la questione della
lingua, se cioè si dovesse usare la lingua popolare (dimotikì) o quella
riformata (l’aulica katharèvusa), lui, “alla periferia dell’impero”, ad
Alessandria d’Egitto, usava nella sua poesia un amalgama delle due lingue,
creando uno stile personalissimo, unico e inimitabile. Se il neogreco è dunque
l’unico caso di diglossia praticata in un Paese moderno, com’è possibile
tradurre un poeta, che tra l’altro occasionalmente usa metrica e rima, e una
lingua “schizofrenica”, in qualsiasi altra lingua a cui sia estraneo il fenomeno
della diglossia? Eppure lo hanno fatto in moltissimi. Secondo una recente
ricerca dell’Università di Salonicco, Kavafis è in assoluto il poeta moderno più
tradotto e imitato al mondo (seguito a diverse lunghezze da Pessoa). Che cosa
sarà mai rimasto della “intraducibile” poesia di Kavafis nelle innumerevoli
versioni fatte nelle lingue più ignote, compresa la lingua dei maori? Di certo,
come nel caso di molti altri poeti, qualche inevitabile scempio metafrastico. Ma
forse non solo. Io credo che resti dell’altro, che se si perde molta “filologia”
rimanga però anche un po’ di buona “poesia”. Diversamente non si spiegherebbe il
paradosso che uno dei poeti moderni “più intraducibili” come Kavafis abbia
influenzato forse più di chiunque altro buona parte della poesia contemporanea
moderna.
Personalmente credo che la traduzione vada intesa secondo il principio
dell’equivalenza, e che il traduttore dovrebbe sforzarsi di pensare a come
sarebbe l’opera originale se fosse stata scritta nella propria lingua. E mi
torna alla mente Novalis, secondo cui la traduzione è “poesia della poesia”,
giacché il traduttore, nel suo sforzo di dare una nuova veste linguistica
all’originale, deve prima enuclearne la “poeticità”. Questo è il principio di
equivalenza su cui dovrebbe fondarsi l’atto del tradurre. Atto che è garantito
solo se il traduttore è un poeta o ha alle spalle una solida cultura poetica. Se
poi il traduttore-poeta condivide con l’autore che traduce principî estetici e
artistici comuni, e ha con quest’ultimo affinità ideali, allora il testo tradotto
riuscirà davvero a costituirsi come un’opera nuova e originale. Credo che
l’obiettivo finale di ogni traduzione, infatti, sia quello di trascendere
l’originale, in un certo senso ucciderlo per trasformarlo in un nuovo originale.
Giovan Francesco Maineri, Testa di Giovanni il Battista, 1502
Ma questa è una situazione ideale, quasi sempre difficile da verificarsi. Le
necessità dell’editoria moderna sembrano far prevalere le esigenze delle
traduzioni di servizio su quelle artistiche, e d’altro canto non sempre i buoni
traduttori sono anche poeti, e viceversa. Ma anche quando una stessa persona
riesca a coniugare in sé le qualità del poeta e del traduttore, i pericoli non
mancano. Il testo originale rischia di essere dimenticato e sostituito
completamente da un altro testo (a volte persino migliore, come per esempio è
capitato al Cinque maggio di Alessandro Manzoni tradotto da Goethe), che reca in
sé le tracce dell’ideologia e delle esperienze di colui che pertanto dovrà
considerarsi il nuovo autore, e le specificità proprie dell’ambito linguistico e
culturale d’arrivo.
Tradurre, dunque, non è né possibile né impossibile: è semplicemente
necessario. Per dirla con Benjamin, la traduzione è un luogo d’incontro tra
lingue e culture diverse, un luogo utopico di raccordo tra le divergenze. È un
mezzo di circolazione, di crescita e di arricchimento culturale prezioso e
indispensabile.
Forse la miglior traduzione letteraria possibile è quella della poesia tradotta
dai poeti, cioè la poesia tradotta in “poesia”.
Nicola Crocetti
*Questo testo è stato scritto per una conferenza sulla traduzione tenutasi a
Parigi nel 2000. Fortunosamente ritrovato dall’autore, ci è parso bello
pubblicarlo, non come l’ennesimo documento su un tema per sua natura infinito –
come lo è il linguaggio, come lo è il suo umile tedoforo: l’uomo – ma per la sua
smaliziata ‘luccicanza’, per la sua inesausta fede nel ‘fatto’ poetico. Al
poeta, in effetti, non interessano gli applausi del pubblico pagante (o
fraudolento), ma che la sua poesia ‘agisca’ davvero: che faccia piovere sul
deserto, che faccia muovere le montagne, che muova a compassione gli induriti
cuori.
In copertina: Albrecht Bouts, Testa di Giovanni il Battista, XV secolo
L'articolo “Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un
crimine linguistico proviene da Pangea.