Poi – giorni dopo – sono, per lo più, due occhi verdi, verbosi, per sempre
fanciulli, occhi da bimbo con la cerbottana. Occhi d’erba. Cristiano Godano, per
lo più, è lì, negli occhi: occhi che scalpitano. Occhi con le unghie. Occhi tra
l’altalena e la fame, tra azzurro e azzardo.
Siamo ancora qui, mi dirà, dopo. Beve Red Bull. Ha ordinato una quantità di
piatti. Mangia poco. Sono di una lentezza esasperante, dice. Ride. Poi, ancora.
Siamo ancora qui, dice. Dice dei Marlene Kuntz. Cita i Verdena. Parliamo di
Gianni Maroccolo e di Ferretti, dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti.
Tenacia nell’occhio destro, malinconia in quello sinistro. Cristiano ha occhi da
Alessandro.
Catartica esce nel 1994 – dovevi essere nella brutale periferia torinese, in
quegli anni anodini, ad ascoltarlo. Cesare Pavese ha intravisto, in un celebre
saggio, il Middle West in Piemonte, ha tentato un gemellaggio tra le Langhe e
l’Ohio, mitica terra narrata da Sherwood Anderson. Sono cresciuto a Orbassano,
gattopardesco ghetto degli operai della Fiat: quel luogo, nei neri e nubiformi
anni Novanta, pareva paragonabile, semmai, agli slums scozzesi di Trainspotting;
pensavo alle brughiere di Emily Brontë, a tratti, per uno slancio di
sentimentalismo esistenziale. Per salvarmi, rubavo Dylan Thomas e Julio Cortázar
nelle librerie di Torino (a Orbassano non esistevano); il mio amico Jonathan
suonava Eric Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck. Ascoltavamo,
annegando, Nuotando nell’aria:
> “Intanto
> l’aria intorno è più nebbia che altro…
> Mi piacerebbe sai, sentirti piangere
> anche una lacrima, per pochi attimi”.
Imperava la droga – Roberto Baggio, imperiale, negli Usa – il podio del Festival
di Sanremo diceva la piagnona disumanità italica: Aleandro Baldi, Giorgio
Faletti, Laura Pausini – in maggio, si insediava il Governo Berlusconi I.
Intorno a Orbassano: chilometri di terre infeconde – il marrone addosso come un
bastone, il marrone in faccia. In fondo, a Sfinge, le montagne, bianche,
inaccesse – cupa mascella di Dio, pari alle nostre montagne interiori.
*
Più tardi suonerà Osja, amore mio, il pezzo dedicato a Osip Mandel’štam, il
grande poeta russo straziato da Stalin, morto di stenti nei Gulag sovietici,
poco dopo il Natale del 1938. La canzone trae spunto dall’ultima, memorabile
lettera di Nadežda al marito – una lettera rimasticata dagli spettri, che Osip
non leggerà mai. Osja, amore mio esce nel 2013, l’album dei Marlene Kuntz
s’intitola Nella tua luce. “Se mi senti dimmi dove sei…”. Amo le memorie di
Nadežda, bellissime e tremende: c’era quel libro, L’epoca e i lupi, ora so che
l’hanno ristampato come Speranza contro speranza, mi dice Godano. Poi parliamo
di Iosif Brodskij. Fondamenta degli Incurabili. Come se fosse un abbecedario
minimo – Godano indossa gli occhiali da sole come fossero un elmo. All’inizio,
però, era Oblomov.
Incupito, Cristiano Godano costretto ad ascoltare le prediche di Brullo
*
Sono a letto, scusami, non si addice alla nostra conversazione: ora mi alzo. Mi
dice Godano, giorni fa – giorni che potremmo chiamare Alpi, giorni in rampicata.
Come Oblomov, faccio io.
Insieme a Roberta Rocelli, donna di indocile lucidità, che alterna la tenerezza
al cazzotto, abbiamo deciso di invitare Cristiano Godano a suonare al Festival
Biblico e a parlare del “Salterio dei Poeti”. Così, gli telefono. Che mi dici di
Dio? Andavo a Messa da bambino – potrei dirmi ateo, preferisco agnostico: non è
nel mio orizzonte, fa lui. E i poeti? Non li leggo. Non è vero, lo incalzo.
In Poeti – brano installato in Bianco sporco, album dei Marlene del 2005 – citi
Guido Gozzano, “il gran poeta”: Un mio gioco di sillabe ti illuse, da L’onesto
rifiuto, gran bella poesia. È vero…, fa lui, intendevo dire che non sono un buon
lettore di poesia. Più tardi si attarderà su Montale, “è sempre disponibile a
farsi leggere e rileggere”; poi va a Borges, “una sua poesia mi ha ispirato”.
Comincia così un dialogo in ascesa. Come corda, piccozza e artigli usiamo
WhatsApp. Facciamo un esperimento, gli dico: ti faccio una domanda al giorno.
Sondiamo gli insondati, gli indicibili. Con rapace generosità – sbandato tra un
concerto e l’altro – Godano ci sta.
*
Parto dal campo base. Ci accomuna l’amore per Nick Cave e Vladimir Nabokov. Il
primo è semplice. Mentre io andavo in delirio per No More Shall We Part –
ipnotico brano di apertura, As I Sat Sadly by Her Side, mandato a ripetizione in
una casa-catafalco a Milano – i Marlene avevano pubblicato da poco Che cosa
vedi. Più tardi, sul palco, Godano sradicherà da quel disco il pezzo-Houdini,
quello che scatena i cuori ammanettati degli astanti, La canzone che scrivo per
te. Manca Skin, non ho il physique. “Di Nick Cave amo tutto. I miei tre dischi
preferiti? Forse The Good Son, The Boatman’s Call, Kicking Against the Pricks”.
Poi c’è Nabokov. Ovunque. Cosa c’entri Nabokov con Nick Cave, a parte l’ecumene
di N e di K, lo faccio dire a lui, copio-incollo da Il suono della rabbia (il
Saggiatore, 2024):
> “Due dei miei eroi di riferimento nel campo artistico, Nick Cave e Vladimir
> Nabokov, un cantante e uno scrittore, hanno vissuto una vita dedita in maniera
> spontaneamente totalizzante all’arte. Immuni a qualsiasi ingerenza del sociale
> nei loro lavori artistici, mi hanno sempre dato la sensazione, influente e
> ispiratrice, di una esistenza eccitante nella ben nota (e da molti
> disprezzata) torre d’avorio dell’artista”.
Godano cita Nabokov come un amuleto. Entrambi siamo affascinati dall’uomo;
quando gli parlo di Intransigenze, raccolta nabokoviana di interviste rette dal
carisma della crudeltà (in Italia: Adelphi, 1994; l’anno di Catartica…), Godano
va in brodo, cita a memoria alcuni giudizi del sommo, “l’asinina Morte a
Venezia di Mann… le pannocchiesche cronache di Faulkner”. Ride. L’austerità
dell’arte incline a tirannica ascesi. Lo scrittore: al contempo demone e
crocefisso all’asse del proprio mondo. Godano preferisce La vera vita di
Sebastian Knight; parliamo di Fuoco pallido; quando scopre che ho scritto un
romanzo, Nabokov, su Nabokov, mi piglia per matto.
Credo che a Godano piaccia distruggere le maschere. Eleva la maschera a idolo,
poi la abolisce, ne fa abominio. Si leva la maschera e la offre come trogolo al
pubblico. Condanna di chi vive sul palco, perpetuo pasto dei fan, costretto a
essere sigillo di memorie altrui, che non gli appartengono, di cui è ignaro.
Nell’ultimo disco, Stammi accanto, un lotto di testi – Lode all’istante, Cerco
il nulla, Vacuità – costituisce una specie di sentiero dello spirito, rasenta
una poetica dell’esistere.
Vuol farmi credere che “nel Cristiano solista c’è meno frattura – o zero proprio
– fra l’io narrante e il sottoscritto”. Fosse così, l’artista morirebbe a ogni
pezzo. Spaccare lo specchio, esercitarsi coi vetri finché il sangue non è che
una variante del cielo.
*
Un giorno lo scambio si infuoca. Gli piace Cioran, lo stringo sulla morte,
sull’aldilà.
> “Adoro il black humour di Cioran: la penso come lui sul senso della vita, che
> per me non c’è. Dunque, detesto profondamente la morte che considero
> tremendamente ingiusta. Non ho alcun rapporto ‘foscoliano’ particolare con i
> morti: un cimitero mi dice poco in merito al dialogo con loro, nonostante
> camminarvi dentro mi consegni una fantastica pace. Una volta ho fatto footing
> in un cimitero: inverno, otto e trenta del mattino, tentavo di trovare una
> routine salvifica dagli stati ansiogeni che mi assillavano. Sforzo vano:
> detesto correre”.
…ma ti rendi conto la noia di essere eterni?
“Oh, no, siamo in totale disaccordo. Penso che si tenda a parlare di noia
dell’eternità perché la si immagina in connessione con il mortificante
accadimento della senescenza, ma se si potesse essere eterni senza invecchiare
sfido chiunque a ritrovarsi a un certo punto annoiati della vita…”
…eppure la bellezza esiste perché sfiorisce e gli uomini si amano, fino a
morirne, proprio perché muoiono… altrimenti, crepino nel crepitio eterno.
“Farei a meno dell’amore (ah, l’amore, il mio mistero per eccellenza: l’unica
crepa nella mia apparentemente radicale convinzione che tutto sia illusione e
che i vari nostri valori – bellezza inclusa – non siano altro che nostre
inevitabili costruzioni) se in cambio avessi l’eternità”.
Ad ogni modo, hai un figlio. Per lui, sei tu il senso. Al suo cospetto, la vita
torna vita, non più tenue insensatezza.
“Sono il senso per mio figlio perché la vita (e l’evoluzione) ci ha tirato
questo brutto scherzo: a tutti gli esseri viventi la condanna a cercare di
vivere a tutti i costi, affannandoci costantemente e costringendoci a legarci ai
più prossimi (genitori in primis) per non soccombere, e a noi esseri umani, in
più, la sfiga della coscienza (siamo costretti a essere coscienti) che ci porta
e riflettere e speculare e inventare illusioni. (Sono così, ahinoi, soverchiato
dal raziocinio)”.
…ma l’arte è mania, mantica, insorgenza dell’irrazionale. La ragione, il logos,
è la quintessenza dell’illusione. Se non esistesse la morte (il pensiero della
morte, dunque l’amore che ci lega a questo ferito e fetido mondo e non ci fa
suicidi), non avrebbe peso né presa l’arte. Un figlio non è generato dal caos,
ma dal fato: un dono più che una condanna, da preservare, come il fuoco e il suo
fuco. Che si spegnerà è ovvio: intanto, scalda, è luce. Si vive per dare la vita
a un altro (anche se l’altro la rifiuta). Da gettati.
“Ahimè, per me la vita è condanna. Questione di tempra. ‘Si vive per dare la
vita a un alto’ è un altro brutto tiro della vita e dell’evoluzione, questa
insensatezza rivolta in avanti (anche se il tempo, come dicono, non esiste).
Vedi che è la cazzo di morte (violenta, ingiusta) che definisce tutto? È la sua
protervia che ci costringe a ogni tipo di sotterfugi, arte inclusa (che fra
tutte le illusioni è l’unica con qualche potenziale, illusorio anch’esso,
salvifico)”.
Se è grazie alla morte che ho potuto leggere Trakl e Rilke, vedere Bellini e
ascoltare… Godano e Nick Cave, beh, sono felice di morire. Il sotterfugio è il
vero gioco da illusionisti. Amo questa terra grave di morte, ma non così tanto.
Levarsi di torno senza tema di memoria, di lacrime, di arpie pettegole sarebbe
saggio. Sparire più che morire. La morte fa da sprone – la vita, mai nostra, sia
restituita. Il resto, chissà… troppo chiasso fanno i pensatori, i poeti
impastano l’impensato.
“Io amo la vita, ma solo nel senso che è mia con tutto il corredo di sentimenti
emozioni affetti che a lei mi lega tenacemente. Odio la morte, che temo
ardentemente. Per me ci si può con tranquillità chiedere se fosse meglio non
nascere, e propendo più per il sì, con qualche circostanziata remora”.
*
Un giorno gli dico che è lui il grande illusionista.
I cantautori scrivono pezzi che inchiodano chi li ascolta a quel particolare
ricordo, frainteso, acido d’anni: una rosa che si rivela iena, che ti si rivolta
addosso. Schiavizzano, e sono schiavi. Mi risponde poco dopo:
> “Credo di poter dire che alla fin fine i miei scopi artistici sono
> principalmente estetici. Nell’ambito della scrittura questo vuol dire che
> gioisco in particolare di una qualche forma di eleganza connessa all’idea
> dello stile, come se avesse un piccolo vantaggio sul significato”.
La forma è il significato (scarceriamo le parole dalla condanna di significare
qualcosa, lasciamole essere falchi, ungulati, a unghiate); la chiarezza:
idolatria da geometri, da vetusti cardinali del vocabolario. Su questo siamo
(quasi) d’accordo.
Più tardi costringo Godano al ‘sacro’; si smarca: “non avendo fede e non
riuscendo a immaginare credibile l’esistenza di una deità che ci abbia a cuore
non penso di nutrire una qualche riverenza altrettanto credibile nei confronti
del sacro. Sacri al limite, per me, possono essere alcuni nostri valori (nostri
in quanto creati da noi esseri umani), come la compassione”. Parliamo
dell’anima, ma so che è fare Arlecchino con il fumo. “Ragionerei più in termini
di coscienza”, fa lui, e fiancheggia altre vie, l’arsura del no, “ammetto di non
essere particolarmente attratto o consolato dall’idea che la nostra ‘energetica
coscienza’ confluisca in un gigantesco ricettacolo universale… anche ’sti
cazzi”. Potrebbe essere il motto di una nuova formula teologica.
*
Più che altro, va tenuta sull’ambone questa nostra vita da sfracellati.
Forse “Cristiano Godano”, votato alla musica, obbligato a concelebrare sul
palco, non ha avuto lo spazio per poter essere Cristiano Godano. Da qui gli
occhi: perpetuamente famelici. Felici.
Ogni parola, con le sue botole, i botoli, le trappole, semina disorientamenti.
Poi è il concerto, nel giardino del palazzo vescovile di Vicenza, tra fantesche
gelsomini. Il canto annienta ogni concetto e tutto torna come è, per sempre
primo, rupestre. La vita, allora, è questa immemore caccia di comete felidi,
questa luce tra le mani, i volti come stelle filanti.
Quando mi chiama – Davide, Davide – siamo già all’Ade di noi, in un altro mondo
di ombre.
*In copertina: Cristiano Godano in un ritratto fotografico di Gabriella Vaghini;
nel servizio le fotografie sono di Nicola Zolin
L'articolo “Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano
Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto proviene
da Pangea.
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Per spiegare se un testo sia traducibile sono stati scritti centinaia di libri e
di saggi di traduttologia, sono state spese milioni parole in decine di lingue,
tradotte a loro volta in altre decine di lingue. Quello che resta, di questo
profluvio verbale, di questo scialo teoretico, sono alcune affermazioni
apodittiche e contraddittorie, che spesso sconfinano nel paradosso o nella
boutade, e che fanno il giro del mondo nei convegni sulla traduzione. Il
repertorio è infinito: dal precetto di Cicerone di non tradurre verbum pro
verbo alle polemiche di San Gerolamo, dalle considerazioni di Lutero alle
argomentazioni di Du Bellay, Montaigne e Chapman, a quelle di Ben Jonson
sull’imitazione, fino alle considerazioni filosofiche di Von Humboldt e ai
resoconti di Goethe, Schopenhauer, Arnold, Valéry, alle teorizzazioni di Pound,
Benjamin e Ortega y Gasset.
In Italia domina la battuta, citatissima e un po’ misogina – attribuita a Croce
ma in realtà di Carl Bertrand, il traduttore tedesco di Dante, che riprese una
definizione di Gilles Ménage –, secondo cui le traduzioni sarebbero come le
donne, “brutte e fedeli o belle e infedeli”. Come anche quella, attribuita a
Robert Frost, secondo cui “poesia è ciò che si perde nella traduzione”. Per
Ortega y Gasset, la traduzione, semplicemente, “non è possibile”; per Jakobson
“la poesia è intraducibile per definizione”. Walter Benjamin, pur nel suo
pessimismo, sostiene che “la traduzione è necessaria”. Secondo Novalis e
Humboldt, tutta la comunicazione è traduzione. C’è poi la celebre quartina di
Nabokov:
> “Cos’è la traduzione? Su un vassoio
> La testa pallida e fiammante di un poeta,
> Uno stridìo di pappagallo, una ciancia di scimmia,
> E una profanazione dei morti”.
Come afferma George Steiner in Dopo Babele, “per circa duemila anni di
discussioni e di precetti, le convinzioni e i contrasti manifestati sulla natura
della traduzione sono stati quasi gli stessi. Tesi identiche, mosse e
confutazioni familiari ricorrono nelle dispute, quasi senza eccezioni, da
Cicerone e Quintiliano ai giorni nostri”. Il postulato dell’intraducibilità
“poggia sulla convinzione, formale e pragmatica, che non vi possa essere
autentica simmetria, rispecchiamento adeguato, tra due sistemi semantici
differenti”. Il punto, conclude ancora Steiner, è sempre il medesimo: la cenere
non è la traduzione del fuoco.
Scuola spagnola, Testa di Giovanni il Battista, XVII secolo
Se, come sostiene Croce, “l’intraducibilità è la vita della parola”, resta
nondimeno il dato incontrovertibile che centinaia di migliaia di biblioteche
straripano di libri tradotti. E restano i milioni di libri tradotti da
un’infinità di lingue: molti egregiamente, altri mediocremente, altri ancora
pessimamente. Perché è vero che in nome della traduzione – della sua necessità,
e del suo culto – sono stati commessi i delitti più infami e i più gloriosi atti
di eroismo. Sepolti negli scaffali delle biblioteche, esposti sui banconi dei
librai di tutto il mondo, giacciono crimini linguistici efferati, compiuti
spesso da persone, come si dice, al di sopra di ogni sospetto, che le logiche
editoriali impongono, o tollerano o incoraggiano, che spesso i lettori subiscono
impotenti, e che nessuno punisce mai.
In questa necessaria, indispensabile quanto spesso inutile attività dell’ingegno
umano, si sono esercitate schiere di inetti, ignari spesso della lingua di
partenza come di quella d’arrivo, consegnando agli editori o alle stampe aborti
mostruosi; e imperano legioni di scrittori mancati e di scribacchini frustrati
che cercano, come uccelli usurpatori, confortevole riparo in nidi altrui. Ma a
tale attività offrono il loro contributo anche legioni di onesti mestieranti,
che pur dietro compensi offensivi nobilitano la professione; per non dire dei
non pochi geni che la elevano da attività funambolica a sublime forma d’arte.
Con ciò non si vuole infierire sulle traduzioni letterarie malfatte, ma
semplicemente porre l’accento su quanto sia arduo riuscire a fare una buona
traduzione. Com’è noto, una delle attività preferite di moltissimi critici e
traduttori è la caccia all’errore nelle traduzioni altrui: sport che ha prodotto
qualche libro divertente e molte gogne umilianti, come l’americano Glorious
Mistakes. Il che equivale, comunque, a sparare ai passeri. I francesi hanno
un’espressione deliziosa per definire questi perditempo frustrati che cercano un
po’ di gloria dando la caccia all’errore in traduzioni di onesti professionisti
che per pochi soldi si sono consumati gli occhi su testi a volte difficilissimi
al limite dell’intraducibilità: li chiamano (excuse my French) le enculeurs des
mouches, i sodomizzatori delle mosche.
Giovanni Bellini, Testa di Giovanni il Battista, 1470 ca.
Come diceva Pound, i critici dovrebbero ricordarsi che scopo della traduzione
poetica è appunto la “poesia”, non le definizioni verbali dei dizionari; e che a
volte una traduzione è brutta proprio perché non sbaglia mai. Il fondamento
della traduzione poetica, infatti, è la trasposizione, non il rispecchiamento,
vale a dire la restituzione fedele del senso poetico, e la necessità di
compiere, nella lingua d’arrivo, lo stesso percorso creativo che ha condotto
l’autore originale a dare al suo testo, tra tutte le forme possibili, quella
storicamente proposta e non altre. In questo senso, allora, ogni testo diventa
traducibile, con buona pace di Croce (che del resto non era poeta) e di tutti i
pudichi glottologi che con reverenza quasi superstiziosa ritengono sacro e
inviolabile il testo originale.
Prendiamo il caso del greco-alessandrino Costantino Kavafis, che mentre in
Grecia (dove lui non è mai vissuto) infuriava asperrima la questione della
lingua, se cioè si dovesse usare la lingua popolare (dimotikì) o quella
riformata (l’aulica katharèvusa), lui, “alla periferia dell’impero”, ad
Alessandria d’Egitto, usava nella sua poesia un amalgama delle due lingue,
creando uno stile personalissimo, unico e inimitabile. Se il neogreco è dunque
l’unico caso di diglossia praticata in un Paese moderno, com’è possibile
tradurre un poeta, che tra l’altro occasionalmente usa metrica e rima, e una
lingua “schizofrenica”, in qualsiasi altra lingua a cui sia estraneo il fenomeno
della diglossia? Eppure lo hanno fatto in moltissimi. Secondo una recente
ricerca dell’Università di Salonicco, Kavafis è in assoluto il poeta moderno più
tradotto e imitato al mondo (seguito a diverse lunghezze da Pessoa). Che cosa
sarà mai rimasto della “intraducibile” poesia di Kavafis nelle innumerevoli
versioni fatte nelle lingue più ignote, compresa la lingua dei maori? Di certo,
come nel caso di molti altri poeti, qualche inevitabile scempio metafrastico. Ma
forse non solo. Io credo che resti dell’altro, che se si perde molta “filologia”
rimanga però anche un po’ di buona “poesia”. Diversamente non si spiegherebbe il
paradosso che uno dei poeti moderni “più intraducibili” come Kavafis abbia
influenzato forse più di chiunque altro buona parte della poesia contemporanea
moderna.
Personalmente credo che la traduzione vada intesa secondo il principio
dell’equivalenza, e che il traduttore dovrebbe sforzarsi di pensare a come
sarebbe l’opera originale se fosse stata scritta nella propria lingua. E mi
torna alla mente Novalis, secondo cui la traduzione è “poesia della poesia”,
giacché il traduttore, nel suo sforzo di dare una nuova veste linguistica
all’originale, deve prima enuclearne la “poeticità”. Questo è il principio di
equivalenza su cui dovrebbe fondarsi l’atto del tradurre. Atto che è garantito
solo se il traduttore è un poeta o ha alle spalle una solida cultura poetica. Se
poi il traduttore-poeta condivide con l’autore che traduce principî estetici e
artistici comuni, e ha con quest’ultimo affinità ideali, allora il testo tradotto
riuscirà davvero a costituirsi come un’opera nuova e originale. Credo che
l’obiettivo finale di ogni traduzione, infatti, sia quello di trascendere
l’originale, in un certo senso ucciderlo per trasformarlo in un nuovo originale.
Giovan Francesco Maineri, Testa di Giovanni il Battista, 1502
Ma questa è una situazione ideale, quasi sempre difficile da verificarsi. Le
necessità dell’editoria moderna sembrano far prevalere le esigenze delle
traduzioni di servizio su quelle artistiche, e d’altro canto non sempre i buoni
traduttori sono anche poeti, e viceversa. Ma anche quando una stessa persona
riesca a coniugare in sé le qualità del poeta e del traduttore, i pericoli non
mancano. Il testo originale rischia di essere dimenticato e sostituito
completamente da un altro testo (a volte persino migliore, come per esempio è
capitato al Cinque maggio di Alessandro Manzoni tradotto da Goethe), che reca in
sé le tracce dell’ideologia e delle esperienze di colui che pertanto dovrà
considerarsi il nuovo autore, e le specificità proprie dell’ambito linguistico e
culturale d’arrivo.
Tradurre, dunque, non è né possibile né impossibile: è semplicemente
necessario. Per dirla con Benjamin, la traduzione è un luogo d’incontro tra
lingue e culture diverse, un luogo utopico di raccordo tra le divergenze. È un
mezzo di circolazione, di crescita e di arricchimento culturale prezioso e
indispensabile.
Forse la miglior traduzione letteraria possibile è quella della poesia tradotta
dai poeti, cioè la poesia tradotta in “poesia”.
Nicola Crocetti
*Questo testo è stato scritto per una conferenza sulla traduzione tenutasi a
Parigi nel 2000. Fortunosamente ritrovato dall’autore, ci è parso bello
pubblicarlo, non come l’ennesimo documento su un tema per sua natura infinito –
come lo è il linguaggio, come lo è il suo umile tedoforo: l’uomo – ma per la sua
smaliziata ‘luccicanza’, per la sua inesausta fede nel ‘fatto’ poetico. Al
poeta, in effetti, non interessano gli applausi del pubblico pagante (o
fraudolento), ma che la sua poesia ‘agisca’ davvero: che faccia piovere sul
deserto, che faccia muovere le montagne, che muova a compassione gli induriti
cuori.
In copertina: Albrecht Bouts, Testa di Giovanni il Battista, XV secolo
L'articolo “Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un
crimine linguistico proviene da Pangea.