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“Chiudete le porte del cuore, sono uno scandalo”. Storia tragica di Mireille Havet
Nel 1917, per le edizioni di Georges Crès, pubblicò un libro delizioso, La Maison dans l’œil du chat. I disegni, vigorosamente liberty – che un po’ ricordano, frenati per gioia ingenua, Aubrey Beardsley, l’inquieto illustratore di Wilde –, scortavano uno strampalato libro ‘per bambini’, che alternava brani in prosa a brevi testi poetici. Crès era l’editore di Victor Segalen e di Marcel Schwob, aveva stampato Noa Noa di Paul Gauguin: il fiabesco e l’esotico, cioè, dalle tinte perturbanti.  L’autrice, Mireille Havet, era giovanissima: nata nell’ottobre del 1898 a Médan, aveva scritto quei testi, in origine, a quindici anni, pubblicandoli su “Les Soirées de Paris”, la rivista su cui pubblicavano, tra gli altri, Blaise Cendrars e Giovanni Papini, Alberto Savinio e Max Jacob. Il padre, nevrastenico, si era suicidato proprio quell’anno, era il 1913, nel ricovero psichiatrico dove l’avevano rinchiuso; lei dirà di aver vissuto l’infanzia nell’agone di una libertà “terribile”. Negli “avvertimenti”, Mireille – un nome che sa di miracolo e di sole – scrive di aver “lasciato alcune pagine bianche per il lettore: sono tue. Scrivi la tua storia (una storia che potrebbe essere più bella di quelle che ho scritto io), fai il tuo disegno”. Il libro – di cui abbiamo tradotto alcuni brani, in calce – ha la violenta innocenza dell’infanzia: sguardi che recano more e coltelli.  L’introduzione l’aveva scritta Colette, la superstar della letteratura francese, l’autrice del ciclo di “Claudine”. In realtà, l’introduzione di Colette è una lettera a Bel-Gazou, Colette de Jouvenel, la figlia, nata nell’estate del 1913: > “Bel-Gazou, bimba mia, nata esattamente dodici mesi prima della guerra, ancora > non sai leggere. Serberò per te questo libro, il primo che leggerai. È stato > scritto da una bambina, non vi troverai le frivolezze degli adulti. Gli > adulti, mia Bel-Gazou, aspettano sempre che sia troppo tardi per scrivere un > libro per bambini. Quando lo fanno, hanno dimenticato che l’infanzia è una > cosa seria, spesso disprezzano la farsa e non capiscono i racconti > stravaganti… Colei che conversa, con fare infantile, con il Gatto e con la > Rana, non esita a cantare le Stelle, a seguire le orme della Notte, del Fumo, > del Raggio; si protende con familiarità verso l’Eterno… Amerai questo libro, > Bel-Gazou, lo amerai così tanto che sarà il tuo primo segreto, il primo libro > che troverò nascosto sotto il tuo cuscino”.   Cresciuta in un ambiente supremamente autarchico – cioè, in piene ristrettezze – Mireille divenne il souvenir e il passepartout dei grandi scrittori del tempo. Colette la adorava, Guillaume Apollinaire, il suo mentore, la vezzeggiava, chiamandola “le petite poyétesse”; Jean Cocteau tentò di rubarle l’ispirazione, fece di lei la sua musa-musetto. Il suo primo romanzo, Carnaval, pubblicato nel 1922 da Arthème Fayard, ne consacrò il talento: fu applaudito da André Gide e da René Crevel, gareggiò per il Goncourt. Il resto era il sapido frutto della sua audacia: bella, disinvolta, lasciva, Mireille vestiva da uomo, professava con ribalderia la propria omosessualità, dicono fosse insaziabile, un cannibale con il viso da bambola. Nell’anno in cui esce Carnaval,scrive sul diario una frase che ne identifica l’indole: > “Procedere, rompere, non ammettere altro, distruggere e respingere tutto ciò > che, pur da molto lontano, minaccia la mia indipendenza anche soltanto per un > secondo: questa sia la mia legge. Non una politica di conciliazione ma di > rivolta. Non mangerò il tuo pane. Sarò sconvolgente fino alla fine”.  Dal 1919 fu letteralmente schiava dell’oppio e della cocaina. La bambina terrible che scriveva con leggiadra sapienza mutò in vampiro: si dava a chiunque, di notte, nelle catacombe parigine, per pochi denari, a corroborare le proprie manie. Tubercolotica, tossica, divorò tutti e fu da tutti rigettata, fin dalla fine degli anni Venti – morì in un sanatorio, nel marzo del 1932, a trentatré anni. Prima di morire, aveva consegnato i suoi scritti a Ludmila Savitzky, attrice, poetessa, traduttrice (tra l’altro, di Joyce, Virginia Woolf e Frederic Prokosch). Nel 1995, Dominique Tiry, nipote di Ludmila, scovò nella soffitta di famiglia i diari di Mireille. Fu un evento sconvolgente: nei Journal, tenuti tra il 1913 e il 1929, Mireille Havet descrive, con micidiale minuzia, la sua “vita da dannata”. Il ‘genere’ canonico della letteratura francese – il diario, genio dell’egotismo supremo, viziato gioco di maschere – viene sviscerato fino al suo contrario: l’ego non è che bocca che trabocca, denti che mordono, lingua che lecca. “Il mondo intero ti tira per il ventre”, scrive Mireille. I Journal di Mireille sono stati stampati, in cinque tomi, tra il 2003 e il 2010 dalle Éditions Claire Paulhan; in Italia esiste una porzione del Diario (1918-1919) divulgata da Editoria & Spettacolo nel 2015. Il fondo dei suoi scritti, invece, è custodito, insieme al fondo Jean Cocteu, presso l’Université Paul Valery di Montpellier.  A tratti, la ferocia di Mireille Havet, così come traspare dai diari, ricorda quella di Alejandra Pizarnik. Mireille usa la scrittura per scotennarsi, per annientarsi – dunque: per esistere. Dicendo il proprio abominio, lo abbellisce e lo abolisce; scrivendo l’abisso, lo abita, lo domina.  Fu l’androgino di quei folli anni – figura che penetra e comprime tutti gli opposti, sapienza nell’abiezione e nell’elezione. Tentò di restare un’eterna bambina, l’effimero ‘maschiaccio’, l’imperdonabile a cui tutto è perdonato. Finì per esplodere – gli altri, intanto, osservavano, distratti, a tratti.  ** Da La Maison dans l’œil du chat Quello che pensano “Mi piacciono gli abeti neri, dice Jacques, dove si nascondono le volpi”. “Preferisco le radure, dice Luce, dove sbocciano i papaveri”. Il grande fuoco crepita e offre agli occhi il mistero del bosco che si sgretola, rivelando nella cenere città e luoghi che non potranno mai possedere.  * Marmellata di mele È duro coltivare le mele, ma hanno un buon profumo, un profumo che evoca il mistero delle dispense chiuse, dove sono stipate, dormienti, le marmellate di qualche anno fa, insieme alle tovaglie degli sposi. Forza, coraggio! Abbiamo superato i tre alberi, manca soltanto il sentiero del paese. Ma il sole picchia e abbiamo le braccia nude. Non importa. Avremo una mela da assaggiare, una mela tutta per noi, da mangiare al lavatoio: i pioppi muovono lentamente le loro cime, a sera.  * La pecora La pecora si chiama Robin. Lo so, ne avevo un’altra che si chiamava Robin; poi Blanchot, ma Robin è sempre stata la più carina. Ci allontaniamo, fianco a fianco, come due fratellini nel gorgo della vita. Una pecora pascola, l’Altra sogna. Entrambe, ci voltiamo verso i prati in fiore. Poi, quando arriviamo presso un albero frondoso, mi fermo all’ombra e stringo la mia pecora al cuore.  La lana è morbida. La pecora profuma di timo selvatico. Nelle grandi orecchie piene di lana, le sussurro la storia di un principe che aveva tre castelli stregati. La pecora ascolta in silenzio, con la solita aria triste e rassegnata… Poi, seguendo il fiume, torniamo a casa, come due fratellini nel gorgo della vita.  * Il mare Alla fine del sentiero, la chiesa: la croce si alza come una mano verso l’azzurro cielo.  Il sentiero si snoda per il dolce pendio della collina che domina sulla Casa del Buon Dio.  Il tempo è bello su tutta la terra perché in uno spiraglio del paesaggio c’è l’immenso mare…  uno zaffiro gigante.  Le barche danzano sul mare. Pescherecci, barche a vela partite all’alba, che la marea di mezzogiorno fa rincasare: le vele lacere formano rombi d’ombra contro il cielo.  L’universo intero è qui placido, esatto. Dal mare alla chiesa, solo la luce e un sentiero che sale come una preghiera per configgersi nel Chiaro.   * Nel prato Tutta la dolcezza del mondo si annida nell’erba alta: non c’è altro che Pace nei labirinti del prato e il sole sboccia come il fiore dei re.  Insegui serenamente il tuo sogno pieno del felice fascino che dispensa il bel tempo. Le mucche ritmiche muovono le code come  orologi magnifici e potenti: ti insegnano la fermezza del tempo ideale dove cola l’infanzia pura come un cristallo.  * Sss… Claude si è addormentato, a voi divinare, prima di chiudere il libro, qual è il meraviglioso sogno che vaga sotto le sue palpebre.  Quanto a me, non posso dirvi nulla: Claude dorme… Sss! Camminate piano e non svegliatelo, sapete meglio di me che le anime dei bambini misteriosamente tornano in cielo. Claude si è addormentato mentre giocava…  ** Dal Journal Il mio vizio non è l’amore né la ricerca del più infimo piacere fisico, perché in fondo faccio l’amore per guadagnarmi da vivere e ottenere dalle mie amanti il reddito necessario ai miei veri appetiti, per sfamare il mio ego, e comprarmi, soprattutto, sostanze tossiche, morfina più che altro, nella cui presunta ebbrezza incenerisco la mia anima calcolatrice e il mio corpo, innamorato di quell’oblio artificiale che mi permette di dimenticare le sconvenienze della mia carriera illecita.  […] I miei libri? Le poesie? Costruzioni di un tossico con il cervello surriscaldato dagli stupefacenti e l’idea fissa di camuffare la propria vera identità con l’aura del poeta prodigio, ignaro, per eccesso di purezza e incuria d’intelletto, delle realtà materiali della vita.  […] Infine, non sono che un operaio della distruzione e dello scandalo, della putrefazione contagiosa, del disordine nelle famiglie, sono un subdolo istigatore, avveleno le donne che mi si avvicinano, che cadono nelle mie trappole.  L’unica giusta punizione è abbandonarmi per sempre, lasciarmi nel mio inevitabile deserto, nella miseria.  Che mi arrangi. Siete avvertiti: chiudete le porte e i cuori alla mia doppiezza, alla mia prevaricazione. Nessuno mi deve niente, nessuno mi perdoni – questo mi basta.  Ho ventotto anni.  19 e 20 gennaio 1927 * Progressivamente, lo ripeto, come un rullo compressore che avanza, inesorabile, senza incontrare ostacoli, compiendo il suo lavoro ora dopo ora, la morfina ha distrutto tutto, minato tutto, annientato tutto, e io da tutti sono alienata, dagli amici, dai soldi, dalle case, dalla fiducia negli altri, dalla salute, dagli anni, dal mio talento, dal mio coraggio, dalla mia naturalezza, dall’amore e dall’amicizia, dalla poesia che si ritrae da me come il mare da un ingrato scoglio, che d’ora in poi, frantumato, lurido, sorgerà nudo, senza più onde, senza uccelli, senza semi, senza terra, soprattutto, dove i semi portati dagli uccelli possono germogliare, senza più nulla nell’infinito dell’eternità se non il cielo e il mare, entrambi egualmente lontani, sempre più lontani, lontanissimi. Tutto ho perduto, la vita, l’istinto a vivere, la ripugnanza per il male, il desiderio di guarire. La morfina, quella spina invisibile, è diventata il mio pugnale, l’alabarda che si è impossessata del mio corpo e mi ha trafitto il cuore, mi ha ucciso, inchiodandomi alla bassezza, alla terra fangosa dove sarò sepolta… era ora! La morfina e sua sorella, la cocaina, e l’eroina, la più grande, sette volte più pericolosa e tossica di un veleno, hanno gradualmente sostituito tutto: ora rimango io, sola.  Come puoi aspettarti che non avendo più nulla non abbia venduto l’anima al diavolo e stretto un patto con lui? È per comprare la droga che prendo in prestito, do tutto, imploro a chiunque. Venderò tutto per questa spesa che mi distrugge, unica e dominante.  Giovedì 24 maggio 1928 * Trent’anni! L’età in cui ho perso tutto ciò che avevo a venti. Mi ci sono voluti dieci anni per liberarmi dei miei privilegi e della mia eredità, dieci anni per distruggermi, impoverirmi, annientarmi in ogni modo – si potrebbe dire, per sempre. 29 giugno 1929 L'articolo “Chiudete le porte del cuore, sono uno scandalo”. Storia tragica di Mireille Havet proviene da Pangea.
August 26, 2025 / Pangea
“La dolcezza dell’amore maledetto”. Jacques Fersen, l’esule di Capri
La storia della letteratura è costellata di nomi invisi alla critica e destinati a un immeritato oblio. Spesso scavalcati dalle righe antologiche, censurati o macchiati dallo stigma di un castigo morale imposto dalla propria epoca, la cui eco grava a tutt’oggi sulla loro eredità artistica, costituiscono un lavoro avventuroso – e quanto mai necessario – per molti esegeti. È certamente questo il caso di Jacques d’Adelswärd-Fersen, il poeta barone francese ritratto con scrupolosa attenzione da Roger Peyrefitte – autore delle pubescenti Amitiés particulières (1943) – ne L’Exilé de Capri[1] (Edizioni La Conchiglia, Capri 2020).  Dalla precisione di un testamento, la biografia romanzata rende omaggio a uno scrittore considerato assai controverso, oltretutto ancora poco noto, restituendo al contempo l’affresco di un mondo perduto, quello dei primi del Novecento, al confine tra Italia e Oltralpe. Nella prefazione al romanzo, un impietoso Jean Cocteau lo etichettava ingiustamente come «Eros Apteros». Per dirla col Vate, il disdegnato maudit incarnava una sorta di Cupido «larvato e senz’ali» (Il Fuoco, 1900), una razza di impotente lirico al quale sono state tarpate le ali alla nascita, che è riuscito tuttavia a tramutare la propria vita in un’opera d’arte.  Sotto questa luce, l’elegante damerino della Belle Époque rassomiglia a prima vista a “uno di quei personaggi emersi direttamente dalla letteratura, uno di quei protagonisti tipici che non è difficile incontrare in certi libri di Baudelaire e di Flaubert, una via di mezzo tra Dorian Gray e Andrea Sperelli.”[2] Eppure, colui che fu definito a suo tempo un «Oscar Wilde au petit pied»[3] era in realtà molto più complesso dell’esteta apollineo modellato sullo stereotipo. Come ribadisce il suo più tenace studioso Gianpaolo Furgiuele (Jacques d’Adelswärd-Fersen. La cospirazione delle sirene[4], Ladolfi, 2021), promotore di una riscoperta del talento artistico così come della assoluta modernità della voce – coraggiosa, vibrante e fuori da ogni regola – di questo «ultimo dandy» della sua generazione, Jacques Fersen è stato testimone di un Decadentismo ormai agli sgoccioli ed è riuscito ad attirare attorno alla sua figura una colonia di artisti e intellettuali rinnegati in patria. Poeta mercuriale e ramingo, compose versi carichi di spleen poggiandosi su eclettiche commistioni metriche. Il sogno irrealizzabile di ritorno al paganesimo in un mondo di pregiudizi lo avrebbe perlomeno elevato al ruolo di cantore del passato classico.  Non esente dall’invettiva polemica, in aperta sfida delle convenzioni, fu anche direttore di una delle prime riviste europee a carattere marcatamente omosessuale, la “Revue Mensuelle d’Art Libre et de Critique” (in vita un anno, 1909), che raccolse, tra gli altri, contributi di Anatole France, Achille Essebac, Colette e del nostro Tommaso Marinetti.  Finito ben presto sulle liste di proscrizione francesi come “persona non grata”, il beniamino diurno dei salotti mondani, schiavo di orde fameliche di ragazzi (tra cui molti minorenni) e libertino sfrenato durante la notte, pensò bene di lanciare una satira alla «maschera infiacchita e grottesca» della società benpensante, la stessa che l’aveva condannato – in modo non dissimile dal caso wildiano in Inghilterra – per oltraggio alla morale pubblica, in Voi siete i borghesi: > “[…] Contro un male sconosciuto  > Mettete alla porta Ganimede, e nudo, > Benché segretamente ne conserviate la brama; > Insensati, pensate di avere un gesto d’artisti  > E vi scagliate sui nostri pretesi vizi. > Credete di cancellare il riso di Narciso, > Scapini che non siete, valletti di Cesare?” In seguito agli scandali delle sue “Messe nere” (difese in Lord Lyllian[5], 1905) – nient’altro che innocenti tableaux vivants più che cortei di giovinetti in panni di efebi – inscenate nei suoi appartamenti parigini, si rifugiò in esilio volontario nella terra del Grand Tour, da qui alla volta di Napoli fino a Capri. Nel 1904 tornava sull’isola dei piaceri segreti della sua giovinezza, a cui era stato iniziato dal nobile Robert de Tournel, immortalata da Norman Douglas[6] in Vento del Sud (1917) e da Compton McKenzie[7] nel romanzo caprese Le vestali del fuoco (1927). Intorno a lui, i contemporanei conosciuti sul posto, vittime sofisticate dell’etica nordica che popolano l’aneddotica del sogno italiano d’inizio secolo, erano le “sorelle” Walcott-Perry – le inquiline saffiche di Villa Torricella – al braccio dell’amatissima marchesa Casati (detta la Semiramide), la principessa Ephi Lovatelli e Godfrey Henry Thornton, l’ufficiale in congedo coinvolto in malaffari con giovanotti locali, tutti invitati speciali ai suoi festini, dove passò la crème de la crème di quegli anni. L’episodio, riportato da Peyrefitte, che imprime la parabola all’intera storia, reale e immaginaria, del giovane aristocratico fu però l’incontro folgorante con gli sventurati amanti inglesi, ‘Bosie’ Douglas e Wilde (appena liberato da Reading), apparsi in un breve cameo vacanziero del 1897, quando questi ultimi vennero cacciati dal ristorante Quisisana: > “Robert gli prese la mano sotto la tovaglia. ‘Calmatevi, ragazzo mio, > calmatevi.’ Con aria ironica, il giovane Lord toccò la spalla del maître > d’hôtel con il suo bastone. ‘Vi faccio i miei complimenti in nome > dell’Inghilterra’, disse. Se ne andò con il suo amico e gli ospiti tornarono a > sedersi, senza domandargli spiegazione per quelle parole. Negli occhi di > Jacques brillavano le lacrime, e le aveva viste brillare in quelli di Oscar > Wilde”.  Dopo un turbinoso giro del Mediterraneo, il tragico Fersen – spogliatosi del primo cognome d’alto lignaggio – oserà scappare definitivamente sull’isola blu con l’amato Nino Cesarini, un manovale quindicenne conosciuto per le vie dell’Urbe e «più bello della luce di Roma», perfetto per gli scatti iconici dei fotografi Plüschow e Von Gloeden. Assunto il piccolo Adone come “segretario” privato, a tratti algido eppure fedele in lunghi pellegrinaggi orientali e divertimenti oppiacei, l’illustrissimo conte (così per gli amici) creò a Capri il suo paradiso artificiale: un paesaggio «infernale e divino insieme», ma anche un riparo fatto di silenzio e pace per poter scrivere e amare come desiderava, senza ostacoli di perbenismo borghese o riprovazione di sorta. Per coltivare le sue passioni più intime, fece costruire su un eremo dell’isola una magnifica residenza in stile rocaille, «sacra al dolore e all’amore», ribattezzata poi Villa Lysis da La Gloriette. Un tempio d’amicizia platonica, divenuto il simbolo di una personale Acropoli della bellezza, comunicante con la gloriosa Villa Jovis di Tiberio (due passi più in alto), dove riceveva file di accoliti.   Allo stesso tempo, l’amara realtà lo risvegliava col fardello di un’angoscia insaziabile derivata in gran parte dall’ostracismo sociale. Nell’autunno 1923, recluso dentro il suo fumoir sotterraneo, dal cuore stanco di ogni frenesia e reprobo degli isolani, ingiuriato a più riprese dalla stampa scandalistica in quanto omosessuale e “mangiatore di oppio”, decise di tagliare corto con un’overdose di coca affondata in un bicchiere di champagne.  Gli ultimi fleurs du mal, sparsi come anatemi sugli altari dell’invocato Angelo della morte, fanno eco alle litanie di Lionel Johnson (The Dark Angel, 1894), mentre cade allucinato: “O bell’Angelo del male che vivi nelle tenebre  Per esaltarmi la dolcezza dell’amore maledetto; Angelo triste, esule dai divini paradisi,  Quale ombra serra il tuo funebre sorriso? Eppure, hai conosciuto i baci più sanguinanti, L’abbraccio urlante e tenero dei giovani. In te si è riflesso il loro più bel sonno Come il chiaro di luna in mare nelle sere dei poeti. I fanciulli ti hanno offerto la freschezza della loro bocca E la loro anima innocente in cui tremava l’ignoto. Il mondo intero ha vibrato nelle tue braccia nude Sul tuo ventre, O Satana, che sogghigni truce, Perché tu passi, vai, disprezzi, muori, rinasci, Spazzando la terra con le tue ali,  Mentre si prova, nell’eterno errore, a colmare Attraverso un dio il vuoto dei nostri cuori.” Nella sua casa dell’anima, a distanza di più di cent’anni, lo spettro malinconico del barone sembra risalire dai marosi e aleggiare tra le stanze desolate, sopra gli occhi dei visitatori che in ogni stagione accorrono a quell’antica dimora attratti dalla sua fama. La targa apposta a strapiombo sull’azzurro intorno alla villa, da lui consacrata «alla gioventù d’amore», reca il monito di una vita consumata al limite della vertigine. Dopotutto, come detta la Morante nella vicina Achilleide, fuori del limbo non v’è eliso. Pierluigi Piscopo ***** Messi da parte i versi della maturità, si propone qui una manciata di poesie giovanili di Jacques Fersen, tratte da L’innario di Adone: alla maniera del signor marchese de Sade (1902), dove la tipica provocazione del verbo si stempera in un’insueta dolcezza, con echi ai maestri simbolisti e decadenti prediletti, da Rimbaud a d’Aurevilly. L’innario di Adone (Proemio) Per le aurore d’oro dove l’erba giace addormentata Sotto la rugiada caduta dalle labbra della notte, Per le aurore d’oro quando canti amici Si svegliano nei nidi con un frullo d’ali e di voci, Son partito leggero, più leggero d’un capro, Attraverso i campi arati e i boschi tremanti, Con nastri chiari e munito d’un arco in legno bianco, Per venire a conquistare, O giovane Adone, la tua bocca! Udivo i richiami dei fiori e dei pastori, – il riflesso del tuo sorriso negli stagni che attraversavo –  E qua e là dei canti modulati da lire, Le uniche a celebrare la tua viva dolcezza. Vedevo fanciulli, come me, mormorare Parole d’amore alle tue statue, a cui rassomigli; Offrendo lillà, profumi e latte. E tutto ciò vagando, bello, fra i verzieri. E il cielo infinito, quel cielo dei templi ellenici, Che rende gli Dèi più belli e le preghiere più caste, Stendeva sui tuoi proseliti un velo di luce, Dove i cuori crepitavano come legna secca al fuoco. Ma a sera, triste e dolce, tornai più fedele, Meno gioioso e più calmo, ch’avevo dentro al cuore  Il fermento sconosciuto dei dolori divini Con cui tu sai domare gli schiavi ribelli: I campi lontani lasciavano svolazzi nell’oblio Tra fuochi brillanti sulle alte montagne, Un riposo virgiliano accarezzava i campi E io mi sentivo puro, il male annientato. I miti antichi in cui avevi creato il tuo Impero Palpitavano nella mia carne con vaga sorpresa; Avrei voluto morire di un bacio nel momento Di quella sera mesta e dolce come l’inizio di un delirio! Per ciò mi trovo qui, in lacrime ai tuoi piedi, Ai tuoi piedi più setosi dell’ala di una colomba, Per offrirti il mio cuore come una coppa cadente Satolla dei frutti vermigli raccolti dal pastore. E ti offro le mie grida, i miei sogni, la mia supplica, Deboli lamenti d’amore in baci di sillabe, Sogni infantili simili al cielo roseo E la mia bocca umida per proferire questi inni! * Innocenza Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa, I nostri cuori bambini han spiegato le ali, Sogni confusi, ignari d’ogni nevrosi, Li han fatti tremare come tortorelle; Sugli occhi addormentati, sulle manine richiuse, La lampada notturna ha posato il suo chiarore, E sulle labbra inebriate da una preghiera pia,  I nostri piccoli cuori bambini sanno che Dio li chiama. A momenti, come il suono di una viola lontana, Che vibra sulla pace di candide visioni, Un brivido, un sospiro infantile si diffonde Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa. * Schoolboy Era un liceo vecchio e cupo, Mi ricordo, e come mi ricordo… Nei miei occhi calarono le ombre, La prima volta che vi entrai, Il direttore era austero e duro, Mi pareva un Dio, E quando dovetti dire addio, Separandomi dalla mamma, Il mio cuore bambino non osò Gridare dolore né incertezza, Proseguii da solo sul selciato, Fra ricordi di antiche carezze. Un ragazzino mi condusse in aula, Tutti a fissare il novizio, Credendolo un vitellino, E da solo trovai un posto. Aprii un libro a caso, Sentendo ronzare nella testa, I giorni andati, come tamburi,  Che mi cantavano il caro abbandono. Rivedevo la casa serrata, Il grande sole la riscaldava, E il giardino tremante  Di uccelli, insetti e rose. Allora, non appena una lacrima Stillò lungo il viso, Per evitare scherni  E risate sulla mia tristezza, Cercai qualcosa da scrivere Laggiù, alla mia cara mamma, Da scrivere a singhiozzi, Che mi annoio senza il suo sorriso! *Le traduzioni delle poesie in calce sono di Pierluigi Piscopo. Per le citazioni dalle opere restanti, si fa riferimento al romanzo di Roger Peyrefitte e ai volumi su Jacques Fersen indicati in bibliografia. Bibliografia consigliata: J. Fersen, Amori et dolori sacrum, La Conchiglia, Capri 1990 (prefazione di Roger Peyrefitte). F. Esposito, I misteri di villa Lysis. Testamento e morte del barone Jacques Fersen, La Conchiglia, Capri 1996.  R. Ciuni, I peccati di Capri, Longanesi, Milano 1998. J. Fersen, E il fuoco si spense sul mare…, La Conchiglia, Capri 2005. AA. VV., À la jeunesse d’amour. Villa Lysis a Capri: 1905-2005, La Conchiglia, Capri 2005. T.M. Pellicanò, Villa Lysis, Abrabooks, 2021. C.M. d’Ambrosìa, Nino, il sole di Roma, la luna di Capri. Vita reale ed immaginata di Nino Cesarini, La Conchiglia, Capri 2023. *In copertina: Jacques d’Adelswärd-Fersen nel 1901 -------------------------------------------------------------------------------- [1] https://laconchigliacapri.it/prodotto/lesule-di-capri-2/ [2] https://caprinews.it/?p=22986 [3] Philip J., Pourriture, in «L’Aurore», 14 luglio 1904, p. 1. [4]https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/catalogo/agata/jacques-d-adelswaerd-fersen-la-cospirazione-delle-sirene.html [5] https://www.pendragon.it/catalogo/narrativa-1/linferno/lord-lyllian-detail.html [6] https://isoladicapriportal.com/norman-douglas-alla-scoperta-di-capri/ [7] https://isoladicapriportal.com/compton-mackenzie-luomo-che-amava-le-isole/ L'articolo “La dolcezza dell’amore maledetto”. Jacques Fersen, l’esule di Capri proviene da Pangea.
May 29, 2025 / Pangea