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Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di Glenn Gould)
> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia. > Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una > sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del > suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti > tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro > persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore > della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”. > > (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15) La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi: il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie», che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza completamente sfigurata.  In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto. Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart, significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”: > “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del > pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai > mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer, > ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.  > > Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni > Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come > Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”. Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo prezioso pianoforte è perfidamente perverso: > “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i > bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento > per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento, > sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che > uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un > pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il > mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo > lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la > figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso > strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque > dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”. Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile, Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose, pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda, “naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di caccia di lui”. Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente” – ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore, perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”, aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che ha conosciuto.  > “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente > grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo > osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che > accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo > increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai > nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da > fare, per noi è finita”. Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri. Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato – che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico, che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione esistenziale dell’uomo che non si può eludere.  Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata. Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta impunita. Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti, abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto finalmente assoluto con Bach.  > “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz, > quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta > per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che > fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio, > pensai”. La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.  La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia, dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del 1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa, che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci fossero persone.  > “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un > fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn > Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti, > pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre > rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato > assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di > aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi > decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto > dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece, > questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto > per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi > tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di > aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli, > pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da > dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel > farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze, > pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici > hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”. Paolo Ferrucci L'articolo Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di Glenn Gould) proviene da Pangea.
June 12, 2025 / Pangea
L’incontro con il genio (o della disgrazia di essere mediocri)
C’è qualcosa di più devastante di una vocazione artistica sprovvista del talento? E secondo quale criterio il talento viene concesso o negato? Certo è che chi ha la sventura di entrare nell’orbita del genio ne viene risucchiato e poi distrutto, inesorabilmente. Come l’amico di Glenn Gould immaginato da Thomas Bernhard, nel romanzo Il soccombente, che si uccide quando scopre che non potrà mai eguagliare il talento smisurato del pianista canadese, ascoltandolo per la prima volta suonare le Variazioni Goldberg.  > «Chiunque si sia proposto di diventare celebre e di acquistare una completa > padronanza del pianoforte – dice il narratore – può riuscire a suonare come > suonava Wertheimer purché si dedichi allo studio del pianoforte per i decenni > prescritti, pensai, ma se uno con queste aspirazioni si imbatte in un Glenn > Gould, e sente suonare un tipo come Glenn Gould, allora, pensai, se è fatto > come Wertheimer, anche per lui è finita».  Come avrà vissuto la sua amicizia fraterna con Gustave Flaubert lo scrittore di teatro e poeta Louis-Hyacinthe Bouilhet, compagno di classe al Collège Royal di Rouen? Flaubert aveva del suo giudizio una fiducia assoluta, lo chiamava la sua «coscienza letteraria». Fu Bouilhet che incoraggiò Flaubert a scrivere Madame Bovary, ispirandosi alla vicenda reale di Delphine Delamarre e ne seguì la lunga gestazione, tra il settembre 1851 e l’aprile 1856. Ma che cosa pensava, quando ascoltava l’amico che gli leggeva, ogni settimana, le pagine del romanzo? Era tormentato dall’angoscia, nello scoprire l’inconfondibile marchio del talento, o animato da una sincera ammirazione? Erano nati lo stesso anno, il 1821, si assomigliavano anche sorprendentemente, e per questo spesso venivano scambiati l’uno per l’altro, eppure uno era dotato di genio, l’altro no.  Dopo la morte di Bouilhet, oltre che preoccuparsi della ristampa delle sue opere e della messa in scena del suo teatro, Flaubert scrisse la prefazione alle Dernières chansons, unico suo testo critico, e per anni si batterà per un monumento a Rouen in memoria dell’amico, che oggi, però, nessuno più ricorda.  E Dino Frescobaldi, il poeta stilnovista amico di Dante, che lesse i primi canti autografi dell’Inferno, trovati per caso in un quadernetto custodito in un forziere in casa Alighieri, come reagì alla rivelazione del capolavoro scritto dall’amico lontano? L’episodio ci è raccontato da Boccaccio. Circa cinque anni dopo l’esilio di Dante, la moglie Gemma Donati cercò di ottenere le rendite che le spettavano sui beni confiscati. Incaricò per questo un parente di cercare i documenti necessari alla causa in un forziere che nei giorni del bando aveva portato via da casa, per salvare «certe cose più care» da eventuali saccheggi. Nel forziere, tra vari documenti, fu ritrovato anche un «quadernetto» che conteneva i primi sette canti dell’Inferno. Non capendo di cosa si trattasse, la donna decise di dare in visione quegli scritti a Frescobaldi, che naturalmente vide subito la grandezza di quei versi e l’eccezionalità dell’opera iniziata: ne fece alcune copie da distribuire agli amici e spedì il manoscritto a Moroello Malaspina, in Lunigiana, dove Dante era ospite in quegli anni, affinché il poeta fiorentino potesse continuare in esilio il capolavoro interrotto.  Che cosa deve aver provato Frescobaldi nel leggere quei primi canti della Commedia? Si sarà portato il «quadernetto» a casa, furtivo, come se avesse con sé un tesoro? Passò l’intera notte sveglio a lasciarsi incantare dalla bellezza di quei versi? Forse sarà stato tentato, per qualche momento, di rubarli, di plagiare l’amico, di approfittare della sua lontananza forzata, ma subito dopo deve aver prevalso l’animo dell’intellettuale appassionato, la certezza che rendere possibile la continuazione di quell’opera per mano del suo autore sarebbe stato il dono più importante che avrebbe potuto fare all’umanità intera. Erano suoi i primi occhi che si posavano su quei versi che milioni e milioni di volte sarebbero stati letti nei secoli a venire. Lui ne fu il primo ammiratore. E solo grazie a lui, al suo ritrovamento casuale, forse, Dante riprese a comporre il suo capolavoro smarrito.  Max Brod (1884-1968) E Max Brod, scrittore mediocre e amico fraterno di Franz Kafka, come visse la fama postuma del genio di Praga, al di là della sua dedizione totale alla diffusione pubblica della sua opera? Passò la vita nella convinzione di lasciare un segno con la propria scrittura, ma oggi lo ricordiamo solo ed esclusivamente per la sua amicizia con Kafka, e per non aver distrutto quei testi che l’amico in punto di morte gli aveva chiesto di bruciare. Il suo vero talento fu in effetti quello di fiutare il talento degli altri, di riconoscerlo e sostenerlo con generosità. L’unico clamoroso errore che fece fu quello di non intuire che proprio lui ne era sprovvisto.  Ed Heinrich Köselitz, il segretario di Nietzsche, dal filosofo ribattezzato Peter Gast, modestissimo compositore che per tutta la vita sognò di diventare famoso, ma che dedicò tutto il suo tempo alla trascrizione dei manoscritti di Nietzsche, quante volte maledisse il giorno in cui ebbe deciso di trasferirsi a Basilea per seguire i corsi di quell’eccentrico professore, o forse quello ancor prima, quando un amico gli ebbe messo tra  le mani una copia della Nascita della tragedia, folgorandolo per sempre? Divenne il segretario personale del filosofo, forse fu l’unico ad averne intuito la grandezza, ma la sua ambizione di diventare un compositore fu distrutta dalla dedizione assoluta che riservò al genio di Nietzsche. Artista-segretario fu anche Niccolò Franco, al servizio di Pietro Aretino, che lo accolse nella sua casa sul Canal Grande nel 1537 e inizialmente lo apprezzò molto. Si valse della sua conoscenza del latino per collaborare proficuamente alla stesura delle opere di Aretino, del quale fu anche compagno di bagordi. Ma Franco si logorava segretamente d’invidia per il successo del suo signore, al punto che decise di mettersi in proprio e di pubblicare anche lui un epistolario, emulando quello dell’Aretino alla quale aveva collaborato. Aretino non gradì. E l’affronto del plagio fu pagato con il volto sfregiato da una coltellata sferrata da un sicario.  Mozart/Tom Hulce nel film di Milos Forman, Amadeus (1984) Morì, invece, nel rogo di una clinica psichiatrica Zelda Sayre, la moglie di Francis Scott Fitzgerald, autrice di un non memorabile romanzo Lasciami l’ultimo valzer, e frustrata dall’immenso talento del marito. Le camere d’albergo sfasciate, i fiumi di gin, i litigi furiosi, le feste, le scenate di gelosia, tutto contribuì a renderli una coppia mitica. Ma lei sacrificò la sua vita al sogno di gloria di lui. Anche Lucia, la figlia di James Joyce, ballerina di grandi promesse, è morta in manicomio, impazzita per un autodistruttivo processo identificativo con il padre. I primi segni della sua pazzia iniziarono nel 1930. A trentatré anni aveva già fatto il giro dei manicomi europei. Fu presa in cura da Jung, ma resterà il grande dolore di Joyce, il suo cruccio segreto e perenne, e secondo alcuni critici la sua vera fonte di ispirazione. Quando lo scrittore morì e gliene fu data notizia, Lucia commentò così:  > «Che sta facendo sottoterra quell’idiota? Quando si deciderà a uscire? Sta > sempre a sorvegliarci».  Pure lo scrittore Klaus Mann, figlio di Thomas, conobbe il disagio psichico di avere un padre come genio, il terribile Mago, che lo disprezzava per via della sua omosessualità mai nascosta (a differenza della propria, che tenne segreta). La sua vita fu segnata dall’uso costante di droghe (morfina soprattutto), che raccontò nel romanzo Il vulcano. Morì suicida a Cannes, schiacciato dall’ingombrante figura paterna. E infine Antonio Salieri, il compositore di corte a Vienna, fu, secondo la fantasiosa versione del dramma di Puškin, ripresa poi dal film di Miloš Forman, Amadeus, talmente invidioso del genio di Mozart da arrivare all’omicidio. Realtà o fantasia non conta. Quel che conta è la silenziosa tragedia che si consuma nei cuori dei mediocri. Magari, se non avessero avuto la sventura di riconoscere il genio fuori di loro, accanto a loro, avrebbero continuato a vivere coltivando l’insana illusione che quel genio potesse dimorare anche dentro di loro, e – chissà – avrebbero potuto perfino convincere gli altri. E invece no. Ecco che il destino, non contento di avergli negato il bene più grande cui ambivano, gli mette sulla strada qualcuno che lo costringe a guardare in faccia la verità.  E dunque, che cosa scatta nell’animo di un artista mediocre che entra in contatto con un genio? L’amico o rivale o parente diventa la manifestazione concreta dei suoi sogni di gloria infranti, delle sue ambizioni frustrate, di tutto ciò che avrebbe voluto essere e avere, e non è stato e non ha avuto. In quell’incontro con il genio egli entra, così, come scrive Bernhard, nella «trappola mortale della sua vita». E una volta scattata la trappola, non può uscirne esce. Fabrizio Coscia *In copertina: Glenn Gould (1932-1982) L'articolo L’incontro con il genio (o della disgrazia di essere mediocri) proviene da Pangea.
June 4, 2025 / Pangea