> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia.
> Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una
> sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del
> suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti
> tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro
> persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore
> della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”.
>
> (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15)
La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una
trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico
Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la
mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia
omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo
subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi:
il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie»,
che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza
completamente sfigurata.
In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco
frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e
discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo
di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da
cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a
Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a
Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie
letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando
la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che
guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di
Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina
moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto.
Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di
suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di
Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart,
significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così
politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il
soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e
feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine
senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili
portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel
blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un
susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”:
> “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del
> pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai
> mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer,
> ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.
>
> Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni
> Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come
> Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”.
Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al
corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più
che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì
stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà
definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e
promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per
l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né
mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro
strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a
coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse
a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di
Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo
prezioso pianoforte è perfidamente perverso:
> “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i
> bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento
> per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento,
> sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che
> uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un
> pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il
> mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo
> lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la
> figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso
> strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque
> dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”.
Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile,
Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende
semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per
diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano
tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista
s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per
partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra
nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e
pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi
intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose,
pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una
tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è
dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e
disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno
tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le
posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e
trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della
cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da
cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e
attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un
grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente
dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che
Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda,
“naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di
caccia di lui”.
Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce
dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di
studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente”
– ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore,
perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro
vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il
Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine
tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”,
aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di
autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo
istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che
ha conosciuto.
> “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente
> grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo
> osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che
> accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo
> increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai
> nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da
> fare, per noi è finita”.
Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo
sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri.
Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella
propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio
beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta
della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard
senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza
frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente
scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non
conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per
andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina
contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza
che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé
impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice
la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato –
che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla
andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico,
che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è
dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più
privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va
da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a
poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo
definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di
campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti
esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di
lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione
esistenziale dell’uomo che non si può eludere.
Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed
elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa
ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti
tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori
giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti
che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e
questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che
odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano
sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata.
Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta
impunita.
Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro
vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della
mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un
musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti,
abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della
sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare
nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non
immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando
Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane
bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo
capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte
a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che
vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di
essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come
intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato
fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato
dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto
finalmente assoluto con Bach.
> “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz,
> quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta
> per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che
> fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio,
> pensai”.
La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del
discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete
complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per
aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso
itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue
correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali
di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che
tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe
innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.
La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne
con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia,
dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato
a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un
fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più
inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo
sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del
1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa,
che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben
rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da
sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro
infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci
fossero persone.
> “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un
> fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn
> Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti,
> pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre
> rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato
> assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di
> aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi
> decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto
> dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece,
> questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto
> per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi
> tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di
> aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli,
> pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da
> dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel
> farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze,
> pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici
> hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”.
Paolo Ferrucci
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Tag - Thomas Bernhard
Qualche giorno fa, alla radio, davano Il mattino di Grieg. Alle elementari, il
maestro di musica ci faceva suonare Il mattino: gli Aulos fischiavano nell’aula,
pervasa da un improvviso odore di larici. Nulla, nella periferia torinese dove
si esercitavano quei bambini, ricordava la Norvegia o le gesta di Peer Gynt,
l’eroe scapestrato di Ibsen. Le Alpi, lontane, inaccessibili, sembravano bianche
sfingi. Secondo i pitagorici, il flauto è “troppo sfrenato” (così Giamblico) per
indurre alla contemplazione: le loro danze si sviluppano lungo le elitre della
lira. Eppure, Il mattino è una musica vitrea, traslucida, si frantuma ovunque,
come crisalidi di zucchero.
Non ricordavo che Edvard Grieg si fosse fatto seppellire in una parete rocciosa,
poco lontano dalla sua casa, Trodhaugen, presso Bergen. Il sepolcro guarda
l’oceano, assediato da felci, muschi, piante – nessuno, tranne gli uccelli
marini, può onorare il grande compositore. Grieg non voleva fiori, non voleva
pianti. Grieg è raffigurato sempre con lunghi baffi che rassegnano il suo viso a
quello di uno sparviero.
*
Il sepolcro di Grieg – e la sua poetica, da autodidatta e naïf – rimanda in me
alla poesia di Christine Lavant. Inaccessibile, vertiginosa per eccesso di
semplicità, rivolta agli elementi primi del creato – il sole e la luna, la
pioggia e la pietra – più che all’uomo. Tesa, intendo, verso l’umano, verso
quella candida ferocia, che non all’umanità: verbo che mette conifere e artigli,
che spaura l’inno in uno scoccare di frecce.
*
Nata Thonhauser nel luglio del 1915, in Carinzia, Christine Lavant – il nome
ricalca quello della valle in cui è cresciuta – è tra i poeti più eccentrici e
insondati del secolo. Figlia di un minatore e di una sarta, afflitta dalla
scrofola, da continui mali, diseguale l’educazione, presto interrotta, la Lavant
scrive come in una camera d’attesa del creato, nell’antiporta dell’Eden, di
uomini ancora indecisi tra la forma dell’angelo e quella del leone, della serpe
e del toro. Il sentire della Lavant, il suo dire scampanio, non ha mediazione
retorica, giunge dal fondaco biblico, da quel residuo d’uomo che chiamiamo
candore.
*
Sulla strada della Lavant, Rilke, il lupo orfico, che la marchia a fuoco. Lo
legge durante uno dei ricoveri, a Klagenfurt, negli anni Trenta. Christine
impara a cucire per darsi in pasto al quotidiano; scrive come una forma
dell’andare mendicando. Tentare un gemellaggio tra ago e penna, tra cucitura e
scrittura – punto intermedio: la cicatrice.
Seguono i primi rifiuti, le violente reazioni: brucia i taccuini, albeggianti
nel fuoco, tenta il suicidio, affossa nella depressione. Di lì, l’ingresso nella
casa di cura – i valligiani le danno della pazza, e lei è lì, reclina nell’aura
di santità dei marginali e dei dementi. Dopo la morte dei genitori, nel 1938 –
che è poi uno sbandarsi, un vivere senza più bende – Christine si sposa con
Josef Habernig, pittore, colto, già proprietario di terre, di trentacinque anni
più grande di lei. Usava indossare un velo, a celare il cranio.
> “Dopo la morte dei miei genitori, mi sono trasferita in una soffitta. Così,
> interruppi l’incanto. Pensai che l’ira con cui scrivevo fosse una malattia,
> volevo sedarla, non si addiceva alla povera persona che ero. Finché non ebbi
> trent’anni. Lavoravo a maglia tutto il giorno per i contadini, leggevo, mi
> auguravo – secondo i modi di nostra madre – di avere un tetto sopra il cranio
> e un posto buono per dormire. Finché un giorno, contro mia volontà, mi è stato
> imposto un volume di versi di Rilke. Lo presi per non offendere la
> bibliotecaria che me l’aveva offerto. Nulla sapevo di Rilke, non intendevo
> leggere poesie – ostacolavano il mio lavoro. Poi l’ho letto. Galoppata di
> nuvole sopra di me. Non ho fatto che scrivere versi. Giorno e notte”.
*
Miracolata da Rilke, che giunge come un dio tra le nubi – ma di Rilke, Christine
tiene l’esubero, la carcassa. Nessun vello retorico, nessun veicolo filosofico:
soltanto denti, ossa, le scattanti figure della predazione. Di Rilke, il profilo
centauro.
*
Lento, lentissimo approvvigionarsi di onori. La prima raccolta nel 1949; nel ’54
ottiene il Premio Georg Trakl. Usciranno “La ciotola del mendicante” (1956), “Un
fuso nella luna” (1959), “Il grido del pavone” (1962). L’amore per il pittore
Werner Berg le dona dionisiaca ispirazione. Christine scrive fino a trenta
poesie al giorno; finché la soglia tra vita e scrittura si deforma, si sfascia,
la donna crolla in collasso nervoso.
Di migliaia di versi si compone il canzoniere di Lavant – dissennato, diseguale,
inabile ad alcuna didattica lirica. Va amato questo sperpero di sé, questo
intenebrarsi nel linguaggio, ogni giorno, come una lotta al quotidiano. Come una
tacca sul bastone, come un intaccare la luce. Ci è stato detto di una poesia
raffinata fino all’alambicco, di poche perfettissime parole: chessò, i testi di
Eliot e di Valéry, l’opera ben ragionata di Montale, di Ungaretti. Invece,
penetrare nell’oceano fino a perdere il giudizio – fino allo scafo capodoglio.
Dunque: la scrittura continua di Lorenzo Calogero, il milione di versi di Gian
Giacomo Menon, la lirica perpetua, almeno una poesia al giorno, di Ghiannis
Ritsos. A questa indecente generosità segue, di solito, la reticenza,
l’incomprensione, il disorientamento. Ma è quello: perdersi in un’opera
immeditata e immensa, darsi alla danza. Altri vadano con il bilancino
dell’orafo, a pesare aggettivi ed endecasillabi – qui si è nel ritmo, nel gorgo
– senza poesia, non sorge il sole, nasce obliquo, mero astro-feto, infecondo.
*
> “Poesia, nemico mortale. È lei che mi ha fatto invecchiare così presto, mia
> prematura morte”.
Dopo la morte del marito, nel 1964, Christine piomba nell’abulia, nel disastro
dei nervi. Nel 1970 riceve il “Großer Österreichischer Staatspreis”, tra le
massime onorificenze conferite all’eccezionalità letteraria dallo stato
austriaco, andata, tra gli altri, a Elias Canetti e a Ingeborg Bachmann.
Christine Lavant muore tre anni dopo, in giugno. Nel 1978 esce, postuma, la
raccolta “Un’arte come la mia è solo vita mutilata”: nel titolo già si è negli
argini di una poetica che risolve, a contrario, l’estasi della “vita come opera
d’arte”. In Christine è il senso animale, l’andare con mani a maggese, a
setacciare particole e rovi.
Piaceva a Thomas Bernhard, la poesia di Christine Lavant. L’aveva conosciuta
negli anni Cinquanta, Bernhard, poco più che ventenne, quando praticava la
lirica, con toni campali, marziali, di campo (una selezione delle poesie di
Bernhard è in Sulla terra e all’inferno e Sotto il ferro della luna, entrambi
editi da Crocetti). Proprio Bernhard, nel 1987, per Suhrkamp, cura una
serratissima antologia di Poesie di Christine Lavant, da cui la traduzione di
Anna Ruchat per FinisTerrae (2022; già Effigie, 2016).
Tra le altre cose – tratte dal carteggio tra Bernhard e Siegfrid Unseld, 2009 –
Bernhard scrive che “La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di
essere conosciuta nel mondo intero”. E più in particolare:
> “La Lavant era un essere assolutamente terreno, molto intelligente e
> raffinato. Viveva sopra il tetto di cemento di un supermercato e batteva le
> sue poesie direttamente a macchina. Per me tutto questo è molto più
> significativo di tutte le menzogne raccontare sulla sua estraneità al mondo,
> sul suo romanticismo valligiano e su un destino voluto da Dio”.
L’estranea è nel mondo ben più dei mondani, gli straniti.
Aveva quel volto ligneo, uscito dalla bottega di Bruegel, la nobiltà di una
regina di Saba in stracci – la nobiltà di chi lancia le briciole alle stelle, i
suoi piccioni.
**
Voglio condividere il pane con i pazzi,
ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,
anche la campana nel cuore,
là, dove il colombo fa il nido
e trova un minuscolo asilo
nella selva sulle acque.
A lungo ho vissuto come pietra
sul fondo delle cose.
Ma ho sentito la campana
sussurrare il tuo segreto
nei pesci volanti.
Imparerò a volare e a nuotare
e lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietra
lascerò la malinconia coricata nella madreperla,
ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.
Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,
le mie ali sono volate oltre il coraggio,
che s’era fatto carico dell’errare.
Voglio condividere il pane con i pazzi
là, nella spaventosa selva del colombo
dove la campana divide in tre parti il grande terrore
trasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.
*
Caccia via da me la stella,
che sghignazza così, senza motivo,
tu, cane del vicino!
Dille una parola di cane!
Abbaiale contro qualcosa di cattivo,
inseguila come fosse selvaggina,
non mi serve una costellazione,
il mio Cane Minore ora sei tu!
Pensi forse che non basti
per questo cuore nero?
Colpisce alla cieca il dolore
e lo morde finché non si spezza.
Non hai fame, cane?
Andate e mangiate entrambi!
La stella s’è ritirata lontano
ora io piango senza motivo.
*
Solo un ramo secondario del sonno,
selvaggio e bastardo, allevato dalle droghe
si prende cura a volte della mia anima.
Due esseri abusati a servizio l’uno dell’altro,
consolano quel che ancora va consolato
e benevoli nascondono ciò che sanno
mettono al mondo sogni dimidiati
cerei e senza volto
ignoranti di pazienza e cura
sciolti già al primo canto del gallo.
E tuttavia sono figli piccoli
battezzati di corsa, tutti consacrati
a colui che li ha sacrificati entrambi
come due schiavi o cani randagi
mentre il buon nobile sonno
si corica soltanto con anime illustri.
*
Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!
O sarai creatore
di ciò che è cadavere e lo rimane
e si unisce alla terra
ben più volentieri che al cielo.
Vai, continua ad ammantare i gigli
corrompi pure i passeri con il miele vergine –
io vivo di ruggine e muffa.
Tu dici che questo non mi sazia
e blateri della città di Dio
che molti conquistano con il digiuno.
Non io! Mi piace vivere nell’argilla
per diventare pietra e tuttavia
mai esserti di peso.
*
Decrepita fisso la ruota del tempo.
Come girano lentamente ora i raggi del sole!
Nessun mastro m’insegna a raggiungere lo scopo,
ma spesso sembra che io sia un’iniziata.
Le persone più vicine mi hanno consegnata
a ciò che vi è di comprensibile nelle caverne
dell’abbandono e le mie dita scivolano
lungo la scrittura ideografica che sa ogni cosa.
Come preferirei star seduta tra i papaveri
tra consolazione, speranza e un po’ di malafede
perché qui tutto ha già i lineamenti chiari
della dura verità – si muore assiderati.
*
Hai modificato tu il paesaggio tra noi.
Ogni cosa tra nuvole e radici ha subito gravi danni.
I fratelli non dormono più l’uno accanto all’altro
e il ponte della fiducia è sparito dagli occhi di tutti.
Non so più su cosa cammino, né dove vado,
perché la tua voce non mi porta nessun vento,
nessun richiamo d’uccello né rumore di fogliame.
Quattro volte verso il basso spinge la direzione del cielo
e la mia mano, che cerca la tua manica,
torna vuota e segnata.
Ora lo grido a perdifiato ed è come tempesta, che mi fa nuda,
tutta nuda, fino all’anima e senza vergogna sotto le stelle.
Perché, dimmi, perché mi hai lasciato il gridare?
E il cartiglio degli occhi sotto la fronte apprensiva?
Perché non mi hai strappato il cuore dalle costole,
perché non l’hai calpestato e dato, a pezzetti, in pasto ai cani?
Questo avresti dovuto fare prima di consegnarmi al villaggio!
Perché è questo l’inferno di cui sognavo con terrore da bambina,
e di certo anche prima nel corpo affamato di mia madre.
Tutto viene di lì.
Di lì sono venuta io, smilza e avida di miracoli,
che uno di essi alla fine mi rendesse bella
per le cose dell’amore e più tardi nella trasparenza degli angeli.
Tu avresti potuto farlo!
Lo sento ancora, sotto la cute, dove gemendo la bestia cresce.
Traduzione di Anna Ruchat
Da Christine Lavant, Poesie. Scelte da Thomas Bernhard, tr. it. di Anna Ruchat,
FinisTerrae, Como-Pavia, 2022.
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poetessa amata da Thomas Bernhard proviene da Pangea.