> “Tutto ciò che ho lasciato da fare, che qualcuno ne faccia buon uso
> in questa vita o nella prossima,
> quella che viene per prima. O per seconda.
>
> (Da Littlefoot, FSG 2007, Crocetti 2023)
Charles Wright, premio Pulitzer nel 1998 e Poeta Laureato degli Stati Uniti dal
2014 al 2015, compie quest’anno 90 anni, oltre sessanta dei quali dedicati alla
poesia da quando, poco più che ventenne e militare nell’esercito americano a
Verona, scoprì la sua vocazione di cantore di paesaggi metafisici tracciando uno
straordinario percorso poetico che dall’Italia del nordest, fra Sirmione e
Venezia, si dirama nella sua regione degli Appalachi, fra Tennessee, North
Caroline e Virginia, dove tuttora vive con Holly, la moglie fotografa, e
nell’immenso spazio del Montana, la residenza estiva di molti anni. È nato il 25
agosto del 1935 a Pickwick Dam, un luogo che ora non esiste più sulla carta
geografica dove il padre ingegnere aveva trasferito temporaneamente la famiglia
per la costruzione della diga che adesso porta il nome del paese. La scelta di
Wright di ritirarsi a vita privata da quando, nel 2019, ha raccolto e pubblicato
tutta la sua poesia in un unico immenso volume di oltre settecento
pagine, Oblivion Banjo, in qualche modo corre parallela alla storia di quel
luogo scomparso: come la diga della sua infanzia che ora attraversa il fiume
Tennessee e produce energia, così questo suo ultimo libro è una grandiosa
costruzione in versi che testimonia l’opera di un grande poeta, il flusso
pausato delle sue meditazioni sulla vita e sulla morte da consegnare ai posteri
, un grande testo potente come i corsi d’acqua della sua terra resi
luoghi sacri nei suoi paesaggi mitopoietici.
Ho conosciuto Charles Wright a New York intorno alla metà degli anni Ottanta
tramite il suo editore, Jonathan Galassi, mentre preparavo la tesi di dottorato
su Montale tradotto dai poeti americani. Wright aveva tradotto i Mottetti e La
Bufera e altro all’inizio della sua carriera e traducendo, come ha detto più
volte, aveva imparato a comporre e a dare forma alla sua poetica. Mi feci
prestare da un amico giornalista il suo appartamento per l’incontro, più
accogliente del mio alloggio da studentessa, e acquistai una bottiglia di Pinot
Grigio delle terre venete visto che quelle zone facevano parte della topografia
poetica di Wright. Ma Charles era di ritorno da un lauto pranzo con l’editore e
aveva mal di schiena, perciò si sedette di sghembo sulla sedia più scomoda della
stanza nel suo leggero cappotto invernale. È questa la prima immagine che ho di
Wright, rimasta intatta nella memoria: un cordiale ed elegante signore,
espansivo e riservato allo stesso tempo, dalla parlata strascicata del sud,
affabile e generoso, arguto e pronto alla battuta, lo sguardo intenso e attento
a ogni dettaglio, uno sguardo addestrato a indagare oltre il visibile e la
parola. Quello fu il primo incontro di molti che sarebbero seguiti nel tempo,
una conversazione sul suo rapporto con la cultura italiana poi confluita in
un’intervista allegata alla mia tesi e ora inclusa nella sua raccolta di saggi
del 1988.
Rientrata in Italia, iniziai a tradurre la poesia di Wright e a recensirne i
libri via via che uscivano, prima sulla rivista di poesia comparata
“Semicerchio”, poi su “Poesia” di Crocetti, che gli dedicò una copertina quando
ancora non aveva vinto il Pulitzer. Ma solo nel 2001 riuscii a pubblicare
un’antologia delle sue maggiori opere, Crepuscolo americano e altre poesie
(1980-2000), grazie alla lungimiranza di Roberto Mussapi, allora direttore della
collana di poesia di Jaca Book, che intravide nei versi di Wright una grandezza
insolita nella poesia contemporanea. Il volume, ormai fuori stampa, rimane
ancora oggi il Wright italiano per i suoi estimatori, un piccolo gioiello
redatto da un’inesperta traduttrice, il quale, tuttavia, fece conoscere in
Italia i grandi poemi degli anni Ottanta e Novanta di Wright, straordinari Song
of Myself della poesia statunitense di fine secolo animati dalla ricerca di una
“metafisica del quotidiano”.
Da non credente ero rimasta colpita dall’ostinata ricerca di spiritualità di cui
trattava la poesia di Wright in un mondo dominato da materialistiche contingenze
e prevaricazioni dei limiti umani. Vestendo i panni di un pellegrino medievale
in viaggio verso ‘l’altra riva del fiume’ (come chiama l’aldilà), Wright
venerava un dio in cui non credeva lanciando una sfida all’inconoscibile che,
talvolta, sembra manifestarsi, ad esempio, nella luce che filtra fra gli alberi
o nel frusciare del vento. Nell’epoca della comunicazione globale e
dell’accelerazione, la poesia di Wright mi appariva rivoluzionaria perché
costringeva a rallentare il passo e a gioire del mondo creato: un percorso umano
e poetico rigoroso che insegnava a leggere il paesaggio, ogni elemento della
natura e ogni evento quotidiano come parte di un tutt’uno inscindibile, fisico e
metafisico, che si trattasse di un notturno stellato o di un uccello, dell’erba
del prato o di ognuno di noi. La poesia di Wright insegnava a guardare le cose
con occhi nuovi ricordandoci che l’assoluto non è che la misteriosa bellezza
della natura umana e non umana a cui lui cantava i suoi inni.
Charles Wright con Nicola Crocetti, nel 2007; Wright, tra l’altro, è parte del
‘Comitato di redazione’ della rivista “Poesia”, fondata e diretta da Crocetti
Senza il suo aiuto, come avrei potuto tradurre quei lussureggianti paesaggi
mobili, i sofisticati dettagli di una lingua sempre più raffinata e rarefatta
nel rappresentare le sagome visibili di un immaginario infinito, o avvicinarmi
almeno un po’ alla musica di quella lingua? Nei nostri incontri in Italia e a
New York, Wright mi aiutava ad entrare in questa sua fiction metafisica, a
decodificare il suo inconfondibile vocabolario fatto di immagini originali,
lunghe catene nominali, colloquialismi, inserti della parlata del sud,
neologismi, espressioni provenienti dalla musica country, dal blues, da
tradizioni poetiche diverse e dallo slang. Gli sono ancora grata per la
generosità e la pazienza con cui rispondeva alle mie molte domande, facendo
addirittura la parafrasi di alcuni passi, tentando di trovare l’equivalente
italiano anche quando non c’era, come toccasse a lui, e non a me, tradurre. Così
è stato anche per la seconda antologia nel 2006, Breve storia dell’ombra, voluta
da Nicola Crocetti per la sua collana di poesia dove, più tardi, nel 2023, è
entrato anche Littlefoot, il libro più bello di Wright degli anni 2000 che ho
tradotto senza il consueto aiuto di Charles, ormai lontano da questioni
editoriali benché sempre disponibile a chiarire i pochi passi che gli ho
sottoposto.
Della nostra collaborazione rimangono anche tre faldoni nel mio studio dove ho
raccolto i moltissimi fax che Wright mi inviava in risposta alle mie domande,
scritti con una vecchia macchina da scrivere, oltre a lettere, saggi e
manoscritti che spesso mi anticipava. Riprendendo ora in mano queste carte
riconosco subito il suo modo cortese di guidarmi nelle traduzioni, un modo che è
diventato la mia maniera di tradurre: dare alla musica dei versi il ruolo
primario perché, davvero, come si legge in una sua poesia, “It’s all music…”. In
uno dei suoi celebri autoritratti si definisce “A shallow thinker […] tuned to
the music of things” e in Littlefoot, come altrove nella sua opera, si dichiara
cantore della storia millenaria della sua terra affinché nulla vada perduto, una
terra così ricca di folklore e leggende, un tempo abitata dai nativi e poi dai
bianchi poveri degli Appalachi che lui riporta in vita, rievocando strambi
personaggi che potremmo trovare nei romanzi di Chris Offutt o Corman McCarthy.
Ho imparato da lui, grande traduttore di Montale, Campana e Dante, quel che so
del tradurre versi. Nelle sue risposte alle mie domande sembrava che davvero si
mettesse al mio posto cercando di sbrogliare i punti più ostici. Mentre ora
sfoglio queste carte mi saltano agli occhi le frasi con cui spesso chiudeva le
sue risposte: “Hum, this is a bit tricky”. E ancora: “Pretty impossible stuff to
translate”; “probably untranslatable”; “very fanciful, I know,
but…”; “Impossible in English, impossible to translate”; “This is difficult,
but there it is. Just leave it as it is”, e così via. A volte ho tradotto la sua
spiegazione, bella come il verso da tradurre; altre volte ho accolto il suo
suggerimento, la parola italiana che gli veniva in mente alla fine delle sue
precise delucidazioni. Ed ecco qui, su un altro foglio: un invito – “That’s what
I had in mind” – a tentare di ritrovare l’origine nella mia mente di un’immagine
in un percorso a ritroso verso il non verbale, un metodo che da allora ho fatto
mio. Talvolta bisognava cambiare tutto e decidere, ad esempio, come
tradurre mockingbird, quell’uccellino tutto americano così presente nella sua
poesia, ma inesistente in Europa: tordo beffardo? mimo? oppure farlo diventare
un merlo? Ancora più difficile trovare la soluzione se, come accade in una
poesia, il suo mockingbird got his chop, frase ripresa dal mondo del jazz con
nessun riscontro nella nostra lingua.
Mi passano davanti agli occhi anche note personali, mie e sue, che ci
scambiavamo nella corrispondenza – sui suoi viaggi in Italia, sul convegno
montaliano organizzato da “Semicerchio” nel 1996 a cui Wright partecipò, sui
nostri incontri a New York, sugli amici comuni, su questioni editoriali, ecc.
Mentre rileggo queste carte ritrovo l’affetto sincero che Charles e Holly mi
hanno mostrato nel tempo. Quanto tempo ha dedicato alle mie traduzioni! A quelle
pubblicate e a quelle ancora inedite, come il bellissimo poemetto A Journal of
the Year of the Ox, che lesse con me, quasi verso per verso, un pomeriggio
estivo sulla terrazza di mia sorella in una casa torre del centro fiorentino con
la cupola del Brunelleschi che si stagliava a pochi metri da noi come fosse la
suggestiva replica della montagna purgatoriale che il poemetto disegna mentre il
pellegrino, alter ego di Wright, ascende e discende dalle sue pendici
incontrando lungo la via Poe, Emily Dickinson, Dante e Petrarca. Ricordo anche
momenti conviviali a casa mia, con gli amici di “Semicerchio”, lui fra noi come
uno di noi. E ricordo Holly che, durante la presentazione a Firenze
di Crepuscolo americano nel 2001, mi indicava sorpresa e divertita Charles che,
per la prima volta, parlava a un telefono cellulare: era il mio primo cellulare
e all’altro capo c’era Nicola Gardini che avendo letto di lui e i suoi versi su
“Poesia” voleva conoscerlo e incontrarlo. Nel 2008, a Roma, per ricevere il
premio Luzi, andammo a cena con Mark Strand, suo compagno di college. Felici di
vedersi esprimevano il loro affetto prendendosi in giro, intonando canzoni dei
loro anni passati. Dietro di noi la Fontana di Trevi dava un tocco magico a
quell’incontro romano tra due vecchi amici, due geni della poesia americana
contemporanea. Quando gli è arrivata una copia di Littlefoot nel 2023, Holly mi
ha scritto che lo stava leggendo da capo a fondo e che mi avrebbe scritto appena
finita la lettura. E così è stato: brevi messaggi, affettuosi e sinceri. E la
gradita notizia che il puledro Littlefoot che titola il libro è ora un bel
cavallo adulto, vivo e vegeto in Montana!
Buon compleanno, Charles! E grazie di tutto! Grazie di aver scritto il testo che
mancava sui nostri scaffali: una grandiosa biografia spirituale della nostra
epoca. Grazie di aver dipinto in versi un paesaggio interiore assai più umano di
quello che la comunicazione globale ci mostra ogni giorno. A leggere oggi questa
poesia a distanza di decenni dalla sua nascita, mi appare ancora più che mai
rivoluzionaria e attuale perché ci ricorda quello che l’umanità sembra aver
dimenticato: che la vita è in fondo “un lungo cammino su un molo corto”, che la
confusa realtà materiale non cancella i nostri dubbi, le nostre paure al fondo
della coscienza, che il paradiso è qui nel mondo creato, nella piccola
metafisica quotidiana e nella misteriosa bellezza della natura. Grazie di averci
ricordato che la strada della conoscenza è tutt’altro che dritta e pianeggiante:
ci sono molte deviazioni e continue soste che interrompono lo scorrere del tempo
e impongono di fermarci a guardare dentro e fuori di noi, riflettere su passato
e presente, sulla vita e sulla morte, propria e altrui.
Happy birthday to you, Charles!
Antonella Francini
L'articolo “Impossible to translate”. Per i 90 anni di Charles Wright: un
ricordo di Antonella Francini proviene da Pangea.
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Charles Wright è uno dei poeti più potenti del pianeta. Oblivion Banjo, uscito
nel 2019, è il suo ultimo libro: un immane repertorio antologico (quasi
ottocento pagine) in cui il poeta orienta la lettura della propria opera. È una
specie di torcia: fuoco che illumina qualcosa – e incenerisce tutto il resto.
L’importanza di Charles Wright – come quella di ogni poeta – si misura non certo
in copie vendute o premi conquistati, ma in ritrosia, in altitudine, nella
capacità di creare un cosmo allo stesso tempo sigillato e disarmato – compiuto.
L’opera di Charles Wright – come quella di ogni grande poeta – si legge come un
unico poema; un poema ipnotico.
Wright comincia a pubblicare negli anni Sessanta, il primo libro esce nel
1970, The Grave of the Right Hand. Agiografia vuole che Wright sia nato poeta
nel 1959, a Sirmione, presso la grotta di Catullo, leggendo Blandula, Tenulla,
Vagula di Ezra Pound. Il poeta lavorava per l’esercito americano, era di stanza
a Verona; compiva ventiquattro anni. L’ultima raccolta di Wright, Caribou, è
uscita nel 2014; il 25 agosto del 2025 il poeta ha compiuto novant’anni. Da
tempo, Wright ha optato per il silenzio: non rilascia interviste, ha una casa
vittoriana a Charlottesville, la moglie, Holly, fa la fotografa; ha chiamato il
figlio Luca, come l’evangelista. Tenta di credere nell’aldilà. Di sera, siede in
giardino – è ancora siderale la sua ispirazione.
Wright è stato “Poet Laureate” degli Stati Uniti dieci anni fa, è stato
finalista diverse volte al “Pulitzer for Poetry” (vincendolo, nel 1998); alcuni
suoi libri – The Southern Cross, 1981; The Other Side of the River,
1984; Chickamauga, 1995; Black Zodiac, 1997, Buffalo Yoga, 2004 – hanno segnato
indelebilmente la poesia contemporanea. Poeta colto come pochi altri, Wright
sembrerebbe essere la quintessenza del poeta nordamericano: Emily Dickinson è la
sua paladina e Walt Whitman il suo profeta; è sintonizzato sui toni lirici di
Wallace Stevens e di Robert Frost; ama Hart Crane. Nel suo pantheon, spiccano
George Herbert e Gerard Manley Hopkins; non smette di ricordare – dobbiamo
ricordarcelo di continuo – l’importanza del “Book of Common Prayer” per la
poesia anglofona (che è sempre ‘liturgica’, procede per innologie). Ha tradotto
Eugenio Montale e Dino Campana, legge di continuo Dante – forse per questo la
poesia di Wright è ‘passata’ con agio in Italia, pubblicata da Jaca Book
(Crepuscolo americano), da Crocetti (il formidabile Breve storia dell’ombra), da
Donzelli (Italia). L’immane poema Littlefoot (Crocetti, 2023) è uscito in
origine nel 2007; Antonella Francini è la devota traduttrice di Wright nel
nostro paese.
A differenza di altri grandi poeti statunitensi – esempi sparsi: John Ashbery,
Mark Strand, Charles Simic, Robert Pinsky –, eccellenti in stile, Charles Wright
tenta di portarci altrove, di mettere tenda nell’antinferno, di scardinare le
cifre del mistero, di slegare la tela di ragno dei fenomeni, la museruola ordita
da dio.
A mio giudizio, l’unico autore a cui Charles Wright può essere paragonato è
Cormac McCarthy. Quasi coscritti – McCarthy, classe 1933, è più grande di due
anni – sono cresciuti entrambi in Tennessee: i genitori lavoravano per la
“Tennessee Valley Authority”; il padre di McCarthy come avvocato, quello di
Wright come ingegnere. Forse si conoscevano. In entrambi, la fama – o meglio,
l’autorevolezza letteraria – ha agito amplificando l’indole all’isolamento, a
una scrittura come ‘pratica’, per cui pubblicare è esito meditato a lungo, mai
immediato – ci si immedesima nella roccia e nel puma, nella radice e nel vento.
Il più, sempre, è sapere cosa tenere nei cassetti, cosa lasciare per i pochi a
cui consegnarsi, a cui confidare un credito, un dono. Per entrambi, la
letteratura non è la vita, ma la ‘via’: i libri di Wright e di McCarthy non si
esauriscono alla lettura, impongono una scelta spirituale, una preferenza. Li
conserveremo per sempre.
Cormac McCarthy amava i lupi – chi non ricorda la fantomatica lupa di Oltre il
confine? – ma il suo animale-totem era il cavallo, la bestia cosmica dei Veda,
l’antichissimo innario indiano; Charles Wright ama i cavalli, ma il suo
animale-totem – come racconta nel dialogo intrattenuto con “Image”, a cura di
Lisa Russ Spaar, calcato, in parte, in calce – è l’orso. North American Bear è
il titolo di una sua raccolta del 1999; alcune lasse del poemetto omonimo (nella
versione della Francini) recitano così:
“Casuale geometria delle stelle,
casuali
stringhe di parole
belle come l’alfabeto.
O così le ricordo,
Orsa nordamericana,
Orione, Cassiopea e le Pleiadi
che cuciono la loro sintassi sul cielo profondo del North Carolina
mezzo secolo fa,
la lingua perduta di notti estive, la pergamena muta del tempo,
trafitta sul suo scuro
cilindro celestiale.
___________________________
Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle?
Quale
impulso, quale bassa marea
ci attrae lassù come vertigine, quale
inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari?
Stanotte, per esempio,
qualcosa ruota dentro i miei occhi,
qualcosa d’illacrimato, qualcosa d’innominabile,
filando veloce la sua tela.
Chi dirà che il cuore dirottato non è tornato alla sua gabbia?
Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha
sfiorato
l’orecchio?”
Poeta coltissimo – dicevo – Charles Wright ha letto facendo falò. Si legge per
esacerbare la ferita, per lacerare l’acerbo essere e arrivare a quel luogo che
nessuno ha detto, per circoscriverlo con verbi-mirtilli, con verbi-ortica, senza
alcuna cautela. Come un fico cresce in una chiesa sfondata da una bomba, a
nirvana del gufo reale. Si legge per esaurire; si impara per dimenticare. Poi,
dal pentametro giambico si passa all’artigliata. Questa è la poesia come
‘pratica’: ci si impratichisce, ci si perfeziona, perché abbia spazio il
perfetto, ciò che non è perfettibile, ciò che supera il concetto, la
riflessione, il riflesso culturale. Al pentametro giambico segue l’assalto
dell’assoluto.
Per capire Charles Wright, forse, è più utile leggere L’orso, supremo racconto
di William Faulkner, che minuziosi, smaliziati referti critici. Charles Wright
ha detto di aver ‘incontrato’ l’orso a undici anni; una leggenda degli indiani
Montagnais-Naskapi narra di un orso che “trovò un bambino e lo tenne come un
figlio per diversi anni” (in: Riti e misteri degli Indiani d’America, a cura di
E. Comba, Utet, 2003). Quando il padre del bimbo andò a cercarlo, l’orso operò
magie: si distese sul cielo, evocando tempesta. Nulla da fare. Il canto
dell’uomo – dacché un orso si fa incantare dal canto – riuscì a vincere l’orso,
che affidò al bambino una delle sue zampe. Crescendo, il bambino allevato
dall’orso diventò “un cacciatore di orsi straordinariamente abile”. Per
tradizione, soltanto le donne sposate dei Montagnas-Naskapi possono scuoiare un
orso, “le giovani donne non sposate si coprono il volto”. Le donne sono gelose
dell’abilità di quel ragazzo nell’uccidere gli orsi – un’abilità virginea, da
creatura di altri mondi. Abilità sciamanica, altra dalla copula e dal rito
filiale. Quando una di queste donne scopre la magia del ragazzo, riposta nella
zampa dell’orso, egli scompare, “senza lasciare alcuna traccia – si disse che
era diventato un orso”. Chi ha capacità nell’irretire il mito, scorgerà
brandelli di Orione e di Atteone in tale dire.
In questa leggenda ci sono diversi elementi che riguardano la poesia di Charles
Wright. Il linguaggio che tiene insieme uomini e bestie (ma anche alberi e
stelle); la potenza del canto; il patto concluso con le forze del mondo; la
dedizione al compito; la sparizione. C’è la caccia – e dunque il sangue: ciò che
il poeta elargisce perché ne beva il lettore, famelico. Il poeta non si augura
altro: esumare la tua esanime anima.
***
In cosa credo. “Credo nel mistero delle cose. Credo che il compito del poeta sia
ingabbiare quel mistero. Non credo che occorra far fruttare il mistero, ma
circoscriverlo: fissarlo, ascoltarlo, capire se ti parla – cosa che, di norma,
non accade.
Credo nella musica. Credo nell’amore”.
La lotta incessante. “Nella religione, da un lato ci sono le chiese-supermarket,
che propongono un modo per stare bene, per sentirsi appagati – dall’altra, la
dura, incessante lotta che comporta il confronto con Dio. In poesia è lo stesso:
da un lato c’è la poesia light. Sappiamo cos’è: non chiede troppa fatica.
Dall’altra, ci sono i poeti della lotta: John Donne, Gerard Manley Hopkins,
Emily Dickinson. Poeti che si donano ma che non regalano nulla. Che pongono
limiti da oltrepassare”.
Il giardino interiore. “Una volta, quando ero nel pieno della vita, la magia
vibrava ovunque. Guardavo le cose, cominciavo a scrivere. Ora, guardo il mio
giardino. Ne ho bisogno perché la mia immaginazione non sgorga da sola. Ho
bisogno di guardare qualcosa per metterla in moto. Così, verso le nove di sera
mi siedo in giardino e lui irradia il mio giardino interiore”.
Emily Dickinson sulla ‘Whitman Road’. “Emily Dickinson aveva l’immaginazione di
una alienata, era un’aliena. Era ultraterrena. Ho sempre cercato di giungere a
quello stadio ultraterreno. Pur non avendo direttamente influenzato il mio
stile, la Dickinson è una delle mie eroine – sono ispirato dalla sua natura
ultraterrena. Ho cercato di scrivere con l’intensità della Dickinson, ma… volevo
uscire di casa! Così, nelle poesie più lunghe penso a Walt Whitman, in quelle
più brevi vivo come Emily. O meglio: cerco di essere Emily Dickinson sulla
‘Whitman Road’”.
Non sono un poeta. “Non mi piace definirmi poeta. Non credo in chi si dichiara
poeta. Robert Frost ha detto che sono gli altri, eventualmente, a dirti poeta.
Ho una forte tendenza al religioso, alla ricerca spirituale, ma non sono un
poeta religioso. È vero, mi hanno incluso in diverse antologie di poesia
religiosa: che sia utile alla fine del mio viaggio?”.
Un lignaggio: da Virgilio alla Bibbia. “La mia tradizione proviene dal ritmo
biblico, da quel linguaggio, in particolare dalla King James Bible. Sono
cresciuto come cristiano e amo quella meravigliosa favola; da adulto, sono stato
attratto dal Buddismo. Sento il desiderio di andare oltre le angosce e le
angustie di gran parte del cristianesimo. Eppure, angoscia e tormento possono
essere fonte di grande poesia. Penso alla traduzione del sesto libro dell’Eneide
di Seamus Heaney. Che testo memorabile: è precristiano eppure prevede Dante. Non
c’è da stupirsi che Dante scelga Virgilio come guida nel suo viaggio. Così si
fonda un lignaggio, un albero genealogico. Non voglio rinunciare alle cose del
mondo, non voglio rinunciare alla King James né al Book of Common Prayer. Quando
morirò voglio che mi sia letto il rito per la sepoltura dei morti (Rite One for
the Burial of the Dead)”.
Non mi convertirò. “Amo l’Apocalisse e il libro di Giobbe, ma è il Book of
Common Prayer di Cranmer a echeggiare ancora nella mia testa. Dai sei ai sedici
anni è stato il centro di tutto. A sedici anni ho fatto ingresso in una chiesa
episcopale. In me risuonano ancora i gesti e i ritmi di quella educazione
cristiana, episcopale. Insieme alla musica gospel del Sud. Ho consegnato tutto
questo a mio figlio, che è un vero credente, un teologo. Quanto a me, non credo
che mi convertirò in punto di morte. Ma non si sa mai”.
Amore, amore. “In realtà, tutte le mie poesie sono poesie d’amore. E sono
preghiere. C’è un meraviglioso passaggio nei drafts and fragments di Pound,
quando parla di Olga Rudge, la violinista con cui viveva:
> ______ma bellezza non è follia
> benché errori e naufragi mi accerchino.
> E io non sono un semidio
> non riesco a fare ordine.
> Se amore non è in casa, è il nulla.
Amo molto la poesia di George Herbert, Love III, con quell’attacco superbo:
‘L’amore mi dà il benvenuto, ma l’anima è refrattaria/ colpevole di polvere,
intrisa di peccato…’
E poi c’è Emily Dickinson. Non so a chi siano rivolte, ma le sue sono tutte
poesie d’amore – e preghiere”.
Il mio piatto preferito. “Amo il pesce e le quaglie. Tra le verdure, preferisco
gli asparagi. Non voglio dolci. Passiamo subito alla grappa”.
Illuminati. “Aspiro all’illuminazione. Come il Buddha. ‘Ricordami come uno che
si è risvegliato’, dice il Buddha. Ecco. È tutto. Sono attratto da quel vuoto
che non saprò mai raggiungere, che apre alle cose autentiche e non alle
cianfrusaglie di questo mondo. Ho trovato diverse vie di accesso al mistero
attraverso il Cristianesimo, poi mi ha affascinato il Buddismo. Qualcosa nel
Nirvana e nella via negativa mi stimola come poeta: riempio il pozzo
svuotandolo”.
Il sonnambulo e l’orso. “Da ragazzino ero sonnambulo. Mi svegliavo, correvo
all’altro lato della stanza, verso il letto di mio fratello. A undici o dodici
anni ero in campeggio, in Carolina del Nord. Sono uscito dal sacco a pelo, ho
iniziato ad allontanarmi dalle tende, lungo il sentiero. Stavo camminando verso
un dirupo, una specie di scogliera, sul limite del bosco, ma non lo sapevo. Poi
ho sbattuto contro qualcosa, mi pareva un orso. Sono convinto che un orso mi
abbia impedito di cadere nel dirupo. Ad ogni modo, mi sono voltato e sono
tornato nel mio sacco a pelo. L’orso è il mio animale totem dall’età di undici
anni. Ho sempre indossato come fibbia per la cintura l’artiglio di orso. Si è
rotto, poco tempo fa: ora, come farò?”.
Trinità. “Inferno, Purgatorio, Paradiso. Tutto per me si esprime in carattere
trinitario, in trinità. In poesia: poeta, lettore, poesia. Oppure: poeta,
soggetto, ispirazione. Una volta ero a cena con mia moglie e un amico; lui aveva
ordinato un secondo Martini. La cameriera disse qualcosa del tipo: ‘I Martini
sono come i seni di una donna: uno non basta, tre sono troppi’. Per quel che mi
riguarda è proprio quel ‘troppo’, ciò che fa instabile l’equilibrio, a rendere
le cose interessanti: ti obbliga a ritornare indietro, a tentare di capire”.
Preferisco arrendermi. “Non voglio ripetermi. Non so se scriverò ancora.
Nell’estate di qualche anno fa ho scarabocchiato alcuni testi: così brutti che
mi sono rifiutato di batterli a macchina. Ho alcune poesie, ma mi rifiuto di
pubblicarle, le tengo per me. Forse è davvero questa la poesia: una tratta tra
fede e mistero. Forse la diga si scioglierà, si spaccherà. Ma non credo.
Preferisco arrendermi”.
Charles Wright
L'articolo “Amo l’Apocalisse, aspiro all’illuminazione”. Per Charles Wright
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