Nel 1997 il “New Yorker” dedica un ampio servizio a Jorie Graham, “the most
celebrated American poet of her generation”. L’articolo, Big Poetry, è bello,
ardito, arioso. Stephen Schiff ha agio nel mostrarci la poetessa “vestita di
nero dalla testa ai piedi, con un numero sufficiente di bracciali, collane e
anelli da far venire l’ernia a una danzatrice del ventre”. Studenti, studiosi,
passanti le fanno spazio “con tenero riguardo e cenni di assenso”. Nella
fotografia che ingioiella l’articolo, la Graham ha uno sguardo colpevolmente
innocuo. Il giornalista la descrive così: “occhi vasti, vispi; fronte aperta,
bocca che sboccia nel broncio e dappertutto una massa di capelli scuri”. Alcuni
– compreso Mark Strand, il poeta – sussurrano, “è un genio”.
Nata a New York da Curtis Bill Pepper – inviato speciale per “Newsweek”,
scrittore, autore, tra l’altro, di un romanzo biografico centrato sulla vita di
Leonardo da Vinci – e da Beverly Pepper, scultrice, cresciuta a Roma, studi alla
Sorbona e alla New York University, la Graham è stata, da ragazza, assistente di
Michelangelo Antonioni: voleva fare la regista. Esordisce alla poesia nel 1980
con Hybrids of Plants and of Ghosts, subito elogiato dal “NY Times” – dissero di
“una poetessa di enormi ambizioni, dal ritmo spericolato” –; seguono libri
pressoché infallibili – The End of Beauty, 1987 e Region of Unlikeness, 1991, ad
esempio – fino al “Pulitzer for Poetry”, ottenuto nel 1996 con The Dream of the
Unified Field. “Poetry” la definisce “uno dei poeti statunitensi più noti e
celebrati della generazione post-bellica”: ogni suo libro è – per natura lirica
tellurica – un ‘caso’.
Jorie Graham, potremmo dire, esercita una politica attraverso la poetica. Per
dirla in modo più frugale, usando le parole del critico americano Calvin
Bedient, la Graham “è una campionessa mondiale nel porre le domande più
radicali… Ciò che le importa è la speranza insita nell’interrogativo, non la
risposta”. Anche l’ultimo libro, 2040, è un libro interrogativo, è un
libro-scavo – dacché ogni domanda prevede una zappa, una pala, il desiderio di
dissotterrare qualcosa interrando qualcos’altro. Scritto dal 2020, pubblicato
nel 2023, tradotto quest’anno da Crocetti, 2040 ha per interrogativo
l’estinzione dell’uomo e il massacro del creato. “Protagonista principale di
questa raccolta poetica è una speakerautobiografica che vaga, sola e
disorientata, in uno spazio avvolto nel silenzio, in limine fra un mondo che non
esiste più e a un passo dalla potenziale estinzione dell’umanità e della sua
storia millenaria”, scrive Antonella Francini, la traduttrice della Graham in
Italia, nella partecipe introduzione al libro, Il potere della memoria. Il libro
ruota intorno a una lettera Al 2040 – p.78 della versione italiana – di cocente
bellezza:
“Gli anni spinsero la loro durata in noi come lunghe
corde bagnate, e noi ci aggrappammo, ci tennero appesi per andare avanti, & in
alto, ci impedirono di annegare nei minuti terribili. Una volta mi sedetti &
piansi mentre guardavo sorgere il sole & i fiocchi cadere come ignara del
movimento dalla notte al giorno – ci sia almeno una differenza – altrimenti
qualsiasi cosa rimanda del desiderio se ne andrà – altrimenti non ci sarà
nulla di ciò che ho salvato – nulla da salvare – fate rifiorire il giorno in un
segmento di tempo – fa freddo – il sogno è cosa difficile da scorgere”
Il libro alterna parti in prosa a vertigini in versi, estreme cupezze ed estreme
tenerezze. Si vedono boschi, nevi, uccelli a sciami, sciabordio di bestie – e
malinconia, rapimento, rabbia. Pochi umani in giro.
> “Non ho nulla da offrire.
> Il mondo è sempre stato
> pronto per il mondo.
> Il fiume in secca.
> Vedo pesci sulle rive senza uccelli.
> Cuore umano, mi dico, cosa ci fai qui, questo è troppo
> per posarci
> lo sguardo.
> I pesciolini galleggiano nel salmastro.
> La corrente rallenta. Gridi di uccelli della sera come vetro infranto,
> un grido e hanno finito”.
Non è, fieramente, un poeta facile, Jorie Graham. Non è poeta di proclami, bensì
di rivelazioni e di affondi. È stata la prima donna, ad Harvard, ad aver coperto
la cattedra di “Rethoric and Oratory” che fu – tra gli altri – di Seamus Heaney.
Per capire il ‘personaggio’ – o meglio: l’impeto politico di una intellettuale
totale –: Jorie Graham è tra i produttori di The Voice of Hind Rajab, il film
che ha straziato la scorsa Mostra internazionale del cinema di Venezia – da cui
ha raccolto il Leone d’argento – e che racconta l’uccisione di una bambina
palestinese, Hind Rajab, appunto, da parte dell’esercito israeliano.
L’ultimo libro di Jorie Graham è previsto per il prossimo
anno. S’intitola Killing Spree. Il suo ‘metodo’ lirico mescola i modi di Wallace
Stevens ai toni del contemporaneo, i ‘modernisti’ alla modernità. I temi sono
quelli di oggi, urticanti: “devastazione ambientale, senso della perdita,
instabilità politica”. Credere nel potere della parola, nel segreto sussurrato
dal verbo, penso – dopo tutto, confidare con sciamanica ostinazione in un
qualche risveglio.
Mi pare che 2040 sia un libro, allo stesso tempo, potentemente poetico e
fortemente “politico”. Esprime una poetica della politica. Come è nato – e
perché?
La poesia è in primo luogo uno strumento in grado di mettere in moto l’intera
anima (“dell’uomo”), come ci ricorda Coleridge. Quindi, siccome vivo in un mondo
che va verso l’autodistruzione e siccome la poesia nasce dall’esperienza del
poeta – corpo, mente, anima – non c’è altra esperienza che possa guidare la mia
scrittura. Non ho altro corpo se non questo corpo mortale. Come ci ricorda
Aristotele, siamo per natura “animali politici”. Vorrei sottolineare questa
nostra caratteristica di mammiferi capaci di intuire nei minimi dettagli i
pericoli, anche lontani, come se li percepissimo attraverso i nostri pori. Siamo
attraversati da una profonda intuizione. Il nostro obiettivo è sopravvivere. La
poesia è uno dei grandi strumenti che lo spirito umano ha sviluppato per
esprimere e approfondire gli istinti della sua natura animale e spirituale.
Potremmo dire che i nostri millenni di poesia sono il nostro manuale
d’istruzioni per quanto riguarda ciò che serve a rimanere umani in mezzo a tutte
quelle forze – interne e esterne – che gravano su di noi allo scopo di
disumanizzarci o indurci a distruggere il resto del creato. Mi risulta che anche
il termine “umano” venga oggi messo in discussione. Abbiamo fatto così tanto
male, e continuiamo a farlo. Forse la nostra estinzione sarebbe una vera
benedizione per questa terra. Ma credo, tuttavia, che in noi esista ancora
l’istinto di provare a risvegliarci. Ecco dove la poesia e la politica si
incontrano.
Che rapporto c’è tra “politica” – nel senso ampio, greco del termine – e
“poesia”? Intendo dire: cosa significa per un poeta, per lei, “prendere
posizione”? Cosa significa per un poeta la parola “impegno”?
In questo momento, negli Stati Uniti – come altrove – proprio le parole che
usiamo implicano il rischio concreto di essere presi di mira politicamente dal
governo – se così possiamo chiamarlo. Per noi il cui mestiere ha a che fare
interamente con le parole – e con le attività palesi e occulte svolte dalle
parole nell’animo umano, nella coscienza, nella memoria, sulla realtà e il suo
senso – è strano vedere il loro potere (e la storia e l’immaginario che esse
evocano) andare in questa direzione. Proprio mentre ci stavano convincendo che
la nostra vita è interamente immersa in una “cultura dell’immagine”, l’uso di
una parola come “genocidio” può portare a essere licenziati, molestati,
arrestati o fatti sparire dalle nostre forze di polizia private e pubbliche.
L’effetto che tutto questo ha su ciò che abbiamo tra le mani quando si mette la
penna sulla carta è notevole. Nel mio nuovo libro, Killing Spree, che uscirà a
maggio negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ci sono momenti, ovunque in quelle
poesie, in cui le decisioni che devo prendere su quali parole usare implicano
considerazioni extra-letterarie. Questo testimonia il potere di un tale mezzo
che anche nell’era dell’intelligenza artificiale restituisce la vera forza e il
vero valore a un essere umano quando pronuncia una parola nella sua condizione
vulnerabile, precaria e mortale, al contrario di un bot. Solo attraverso il
sangue e la carne le nostre parole sono “engagé”.
Vorrei entrare, come direbbe Hawthorne, nella sua “camera stregata”. Quali
immagini l’hanno ispirata durante la scrittura di 2040? Quale immaginario
linguistico? Quali “fonti”?
Abbiamo vissuto un periodo di intensa siccità – che fa in realtà da sfondo
a 2040 – mentre io mi sottoponevo a un intervento chirurgico, alla radioterapia,
alla chemio. La popolazione aviaria ha subito drastici cambiamenti durante quei
mesi. Alcune specie di alberi sono state attaccate da malattie causate da nuovi
insetti portati dai venti degli uragani che hanno messo a rischio la
sopravvivenza del nostro bioma. Mi sono ritrovata calva e sbalordita lottando
per mantenere le mie forze e salvare i “miei” alberi. Camminavo ogni giorno per
chilometri (come mi aveva consigliato la mia oncologa) e durante quelle
passeggiate nelle nostre foreste ero determinata a sopravvivere entrando in
contatto con la forza magnetica della terra sotto i miei piedi. Quasi tutte le
poesie sono state inizialmente composte mentre camminavo, tranne quelle che
considero odi – “La quiete”, “Nebbia”, “Arco temporale”, “Il visore VR”,
“Giorno” –, sorte nell’intervallo tra una seduta di chemio e l’altra, quando ero
troppo debole per camminare.
Cosa può fare la poesia nel confronto con la Storia? Che cos’è in fondo “la
poesia”?
Ci sono molte risposte a questa domanda e mi sento un po’ sciocca nel cercare di
rispondere. Ma si potrebbe dire che, fra tutti i tipi di storie che creiamo
attraverso lo scorrere del tempo e il suo evolversi mortale, tramite le sue
catastrofiche sorprese e i suoi visibili colpi di scena, la poesia è la storia
che si impegna a rivelare la vita dell’anima. Forse l’evoluzione dell’anima.
Forse la sua permanenza. Forse le sue illusioni o le sue epifanie o i suoi
‘presagi di immortalità’. Ed è meglio, forse, se si porta dietro il minor carico
possibile. Così quel carico si affida alla musica del verso per mantenere il suo
significato rapace, da scoprire, in volo, affidabile e vivo. Ecco perché devo
lavorare così tanto sulla musica – nell’originale e poi, con Antonella Francini,
riscrivendola in quella lingua miracolosa che è l’italiano.
Ritagli un pezzo di 2040 che le sembra esemplare e mi dica perché.
Le rispondo indirettamente. Oggi, in un’epoca in cui stanno scomparendo la
capacità di leggere e comprendere (la capacità di concentrazione e la capacità
di sostenere tempi prolungati), penso molto all’idea di Wallace Stevens secondo
cui “la poesia deve resistere all’intelligenza quasi con successo”. Quel quasi è
essenziale perché costringe a usare i sensi insieme all’intelletto. Cura la
dissociazione della sensibilità di cui parlava Eliot con incredibile
lungimiranza, che oggi sta distruggendo la nostra gente.
Leggo il suo nome tra i produttori di “The Voice of Hind Rajab”: come mai?
All’inizio ho dato una mano. Sembrava davvero impossibile trovare persone
disposte a finanziare quel film. Poi ho dato consigli sulla sceneggiatura,
infine sulle diverse versioni della pellicola. Le devo ricordare che io sono una
regista inappagata. Da giovane, a Roma, ho collaborato con Antonioni come
assistente alla ricerca. Ho frequentato la scuola di cinema alla New York
University. Perciò, quando ora mi viene chiesto di fornire un feedback ad alcuni
film – specialmente documentari – nelle loro varie fasi, torno a usare la mia
immaginazione cinematografica. Alcuni critici sostengono da anni che la mia
poesia sia influenzata dal cinema, in particolare dalle tecniche dell’editing e
del montaggio che ho studiato da giovane.
E ora… quale progetto di scrittura la anima?
Come ho già accennato, ho appena finito di scrivere un nuovo libro, Killing
Spree, che uscirà a maggio. È stato composto durante questi ultimi tre anni in
cui la follia di genocidio, tirannie, fame e IA estrema – sempre presenti fra
noi – hanno raggiunto un livello tale da essere in primo piano sul
palcoscenico.
*La traduzione dell’intervista è di Antonella Francini
In copertina: Jorie Graham; photo Alvaro Almanza
L'articolo “Estinguerci sarebbe una benedizione – ma possiamo provare a
risvegliarci”. Dialogo con Jorie Graham proviene da Pangea.
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> “Tutto ciò che ho lasciato da fare, che qualcuno ne faccia buon uso
> in questa vita o nella prossima,
> quella che viene per prima. O per seconda.
>
> (Da Littlefoot, FSG 2007, Crocetti 2023)
Charles Wright, premio Pulitzer nel 1998 e Poeta Laureato degli Stati Uniti dal
2014 al 2015, compie quest’anno 90 anni, oltre sessanta dei quali dedicati alla
poesia da quando, poco più che ventenne e militare nell’esercito americano a
Verona, scoprì la sua vocazione di cantore di paesaggi metafisici tracciando uno
straordinario percorso poetico che dall’Italia del nordest, fra Sirmione e
Venezia, si dirama nella sua regione degli Appalachi, fra Tennessee, North
Caroline e Virginia, dove tuttora vive con Holly, la moglie fotografa, e
nell’immenso spazio del Montana, la residenza estiva di molti anni. È nato il 25
agosto del 1935 a Pickwick Dam, un luogo che ora non esiste più sulla carta
geografica dove il padre ingegnere aveva trasferito temporaneamente la famiglia
per la costruzione della diga che adesso porta il nome del paese. La scelta di
Wright di ritirarsi a vita privata da quando, nel 2019, ha raccolto e pubblicato
tutta la sua poesia in un unico immenso volume di oltre settecento
pagine, Oblivion Banjo, in qualche modo corre parallela alla storia di quel
luogo scomparso: come la diga della sua infanzia che ora attraversa il fiume
Tennessee e produce energia, così questo suo ultimo libro è una grandiosa
costruzione in versi che testimonia l’opera di un grande poeta, il flusso
pausato delle sue meditazioni sulla vita e sulla morte da consegnare ai posteri
, un grande testo potente come i corsi d’acqua della sua terra resi
luoghi sacri nei suoi paesaggi mitopoietici.
Ho conosciuto Charles Wright a New York intorno alla metà degli anni Ottanta
tramite il suo editore, Jonathan Galassi, mentre preparavo la tesi di dottorato
su Montale tradotto dai poeti americani. Wright aveva tradotto i Mottetti e La
Bufera e altro all’inizio della sua carriera e traducendo, come ha detto più
volte, aveva imparato a comporre e a dare forma alla sua poetica. Mi feci
prestare da un amico giornalista il suo appartamento per l’incontro, più
accogliente del mio alloggio da studentessa, e acquistai una bottiglia di Pinot
Grigio delle terre venete visto che quelle zone facevano parte della topografia
poetica di Wright. Ma Charles era di ritorno da un lauto pranzo con l’editore e
aveva mal di schiena, perciò si sedette di sghembo sulla sedia più scomoda della
stanza nel suo leggero cappotto invernale. È questa la prima immagine che ho di
Wright, rimasta intatta nella memoria: un cordiale ed elegante signore,
espansivo e riservato allo stesso tempo, dalla parlata strascicata del sud,
affabile e generoso, arguto e pronto alla battuta, lo sguardo intenso e attento
a ogni dettaglio, uno sguardo addestrato a indagare oltre il visibile e la
parola. Quello fu il primo incontro di molti che sarebbero seguiti nel tempo,
una conversazione sul suo rapporto con la cultura italiana poi confluita in
un’intervista allegata alla mia tesi e ora inclusa nella sua raccolta di saggi
del 1988.
Rientrata in Italia, iniziai a tradurre la poesia di Wright e a recensirne i
libri via via che uscivano, prima sulla rivista di poesia comparata
“Semicerchio”, poi su “Poesia” di Crocetti, che gli dedicò una copertina quando
ancora non aveva vinto il Pulitzer. Ma solo nel 2001 riuscii a pubblicare
un’antologia delle sue maggiori opere, Crepuscolo americano e altre poesie
(1980-2000), grazie alla lungimiranza di Roberto Mussapi, allora direttore della
collana di poesia di Jaca Book, che intravide nei versi di Wright una grandezza
insolita nella poesia contemporanea. Il volume, ormai fuori stampa, rimane
ancora oggi il Wright italiano per i suoi estimatori, un piccolo gioiello
redatto da un’inesperta traduttrice, il quale, tuttavia, fece conoscere in
Italia i grandi poemi degli anni Ottanta e Novanta di Wright, straordinari Song
of Myself della poesia statunitense di fine secolo animati dalla ricerca di una
“metafisica del quotidiano”.
Da non credente ero rimasta colpita dall’ostinata ricerca di spiritualità di cui
trattava la poesia di Wright in un mondo dominato da materialistiche contingenze
e prevaricazioni dei limiti umani. Vestendo i panni di un pellegrino medievale
in viaggio verso ‘l’altra riva del fiume’ (come chiama l’aldilà), Wright
venerava un dio in cui non credeva lanciando una sfida all’inconoscibile che,
talvolta, sembra manifestarsi, ad esempio, nella luce che filtra fra gli alberi
o nel frusciare del vento. Nell’epoca della comunicazione globale e
dell’accelerazione, la poesia di Wright mi appariva rivoluzionaria perché
costringeva a rallentare il passo e a gioire del mondo creato: un percorso umano
e poetico rigoroso che insegnava a leggere il paesaggio, ogni elemento della
natura e ogni evento quotidiano come parte di un tutt’uno inscindibile, fisico e
metafisico, che si trattasse di un notturno stellato o di un uccello, dell’erba
del prato o di ognuno di noi. La poesia di Wright insegnava a guardare le cose
con occhi nuovi ricordandoci che l’assoluto non è che la misteriosa bellezza
della natura umana e non umana a cui lui cantava i suoi inni.
Charles Wright con Nicola Crocetti, nel 2007; Wright, tra l’altro, è parte del
‘Comitato di redazione’ della rivista “Poesia”, fondata e diretta da Crocetti
Senza il suo aiuto, come avrei potuto tradurre quei lussureggianti paesaggi
mobili, i sofisticati dettagli di una lingua sempre più raffinata e rarefatta
nel rappresentare le sagome visibili di un immaginario infinito, o avvicinarmi
almeno un po’ alla musica di quella lingua? Nei nostri incontri in Italia e a
New York, Wright mi aiutava ad entrare in questa sua fiction metafisica, a
decodificare il suo inconfondibile vocabolario fatto di immagini originali,
lunghe catene nominali, colloquialismi, inserti della parlata del sud,
neologismi, espressioni provenienti dalla musica country, dal blues, da
tradizioni poetiche diverse e dallo slang. Gli sono ancora grata per la
generosità e la pazienza con cui rispondeva alle mie molte domande, facendo
addirittura la parafrasi di alcuni passi, tentando di trovare l’equivalente
italiano anche quando non c’era, come toccasse a lui, e non a me, tradurre. Così
è stato anche per la seconda antologia nel 2006, Breve storia dell’ombra, voluta
da Nicola Crocetti per la sua collana di poesia dove, più tardi, nel 2023, è
entrato anche Littlefoot, il libro più bello di Wright degli anni 2000 che ho
tradotto senza il consueto aiuto di Charles, ormai lontano da questioni
editoriali benché sempre disponibile a chiarire i pochi passi che gli ho
sottoposto.
Della nostra collaborazione rimangono anche tre faldoni nel mio studio dove ho
raccolto i moltissimi fax che Wright mi inviava in risposta alle mie domande,
scritti con una vecchia macchina da scrivere, oltre a lettere, saggi e
manoscritti che spesso mi anticipava. Riprendendo ora in mano queste carte
riconosco subito il suo modo cortese di guidarmi nelle traduzioni, un modo che è
diventato la mia maniera di tradurre: dare alla musica dei versi il ruolo
primario perché, davvero, come si legge in una sua poesia, “It’s all music…”. In
uno dei suoi celebri autoritratti si definisce “A shallow thinker […] tuned to
the music of things” e in Littlefoot, come altrove nella sua opera, si dichiara
cantore della storia millenaria della sua terra affinché nulla vada perduto, una
terra così ricca di folklore e leggende, un tempo abitata dai nativi e poi dai
bianchi poveri degli Appalachi che lui riporta in vita, rievocando strambi
personaggi che potremmo trovare nei romanzi di Chris Offutt o Corman McCarthy.
Ho imparato da lui, grande traduttore di Montale, Campana e Dante, quel che so
del tradurre versi. Nelle sue risposte alle mie domande sembrava che davvero si
mettesse al mio posto cercando di sbrogliare i punti più ostici. Mentre ora
sfoglio queste carte mi saltano agli occhi le frasi con cui spesso chiudeva le
sue risposte: “Hum, this is a bit tricky”. E ancora: “Pretty impossible stuff to
translate”; “probably untranslatable”; “very fanciful, I know,
but…”; “Impossible in English, impossible to translate”; “This is difficult,
but there it is. Just leave it as it is”, e così via. A volte ho tradotto la sua
spiegazione, bella come il verso da tradurre; altre volte ho accolto il suo
suggerimento, la parola italiana che gli veniva in mente alla fine delle sue
precise delucidazioni. Ed ecco qui, su un altro foglio: un invito – “That’s what
I had in mind” – a tentare di ritrovare l’origine nella mia mente di un’immagine
in un percorso a ritroso verso il non verbale, un metodo che da allora ho fatto
mio. Talvolta bisognava cambiare tutto e decidere, ad esempio, come
tradurre mockingbird, quell’uccellino tutto americano così presente nella sua
poesia, ma inesistente in Europa: tordo beffardo? mimo? oppure farlo diventare
un merlo? Ancora più difficile trovare la soluzione se, come accade in una
poesia, il suo mockingbird got his chop, frase ripresa dal mondo del jazz con
nessun riscontro nella nostra lingua.
Mi passano davanti agli occhi anche note personali, mie e sue, che ci
scambiavamo nella corrispondenza – sui suoi viaggi in Italia, sul convegno
montaliano organizzato da “Semicerchio” nel 1996 a cui Wright partecipò, sui
nostri incontri a New York, sugli amici comuni, su questioni editoriali, ecc.
Mentre rileggo queste carte ritrovo l’affetto sincero che Charles e Holly mi
hanno mostrato nel tempo. Quanto tempo ha dedicato alle mie traduzioni! A quelle
pubblicate e a quelle ancora inedite, come il bellissimo poemetto A Journal of
the Year of the Ox, che lesse con me, quasi verso per verso, un pomeriggio
estivo sulla terrazza di mia sorella in una casa torre del centro fiorentino con
la cupola del Brunelleschi che si stagliava a pochi metri da noi come fosse la
suggestiva replica della montagna purgatoriale che il poemetto disegna mentre il
pellegrino, alter ego di Wright, ascende e discende dalle sue pendici
incontrando lungo la via Poe, Emily Dickinson, Dante e Petrarca. Ricordo anche
momenti conviviali a casa mia, con gli amici di “Semicerchio”, lui fra noi come
uno di noi. E ricordo Holly che, durante la presentazione a Firenze
di Crepuscolo americano nel 2001, mi indicava sorpresa e divertita Charles che,
per la prima volta, parlava a un telefono cellulare: era il mio primo cellulare
e all’altro capo c’era Nicola Gardini che avendo letto di lui e i suoi versi su
“Poesia” voleva conoscerlo e incontrarlo. Nel 2008, a Roma, per ricevere il
premio Luzi, andammo a cena con Mark Strand, suo compagno di college. Felici di
vedersi esprimevano il loro affetto prendendosi in giro, intonando canzoni dei
loro anni passati. Dietro di noi la Fontana di Trevi dava un tocco magico a
quell’incontro romano tra due vecchi amici, due geni della poesia americana
contemporanea. Quando gli è arrivata una copia di Littlefoot nel 2023, Holly mi
ha scritto che lo stava leggendo da capo a fondo e che mi avrebbe scritto appena
finita la lettura. E così è stato: brevi messaggi, affettuosi e sinceri. E la
gradita notizia che il puledro Littlefoot che titola il libro è ora un bel
cavallo adulto, vivo e vegeto in Montana!
Buon compleanno, Charles! E grazie di tutto! Grazie di aver scritto il testo che
mancava sui nostri scaffali: una grandiosa biografia spirituale della nostra
epoca. Grazie di aver dipinto in versi un paesaggio interiore assai più umano di
quello che la comunicazione globale ci mostra ogni giorno. A leggere oggi questa
poesia a distanza di decenni dalla sua nascita, mi appare ancora più che mai
rivoluzionaria e attuale perché ci ricorda quello che l’umanità sembra aver
dimenticato: che la vita è in fondo “un lungo cammino su un molo corto”, che la
confusa realtà materiale non cancella i nostri dubbi, le nostre paure al fondo
della coscienza, che il paradiso è qui nel mondo creato, nella piccola
metafisica quotidiana e nella misteriosa bellezza della natura. Grazie di averci
ricordato che la strada della conoscenza è tutt’altro che dritta e pianeggiante:
ci sono molte deviazioni e continue soste che interrompono lo scorrere del tempo
e impongono di fermarci a guardare dentro e fuori di noi, riflettere su passato
e presente, sulla vita e sulla morte, propria e altrui.
Happy birthday to you, Charles!
Antonella Francini
L'articolo “Impossible to translate”. Per i 90 anni di Charles Wright: un
ricordo di Antonella Francini proviene da Pangea.