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“Nelle fauci del Lupo”. Sulla dimensione animalesca della poesia
In poesia accade come in pittura. Potremmo dire: il privilegio del volto, il principio del ritratto – o dell’autoritratto –, bracconiera priorità dell’io.  L’arte europea eccelle nell’investigare l’uomo. Negli sguardi smaliziati di Antonello, nei corpi-molosso di Michelangelo, nei volti regali e atterriti di Tiziano intuiamo il ribollio dell’anima, i labirinti dell’interiore. La resa dei volti, pur perfetta, non è mai realistica – o encomiastica – ma arresa. Il corpo è ritratto, in realtà, per ritrarre l’interiorità: il corpo ritratto è un corpo rivelato, identifica un’indole – che sia: ferina e ambiziosa o umile e benevola, sottomessa al fato o fatale.  Il ritratto reca un meccanismo opposto a quello dello specchio, oggetto demoniaco perché riduce il corpo alla sua superficie corruttibile – alla sua disonestà. Il ritratto ambisce ad essere la riproduzione di un corpo già risorto, eletto ai cieli.    La ragione del predominio dell’umano nell’arte europea è ovvia: da un lato l’armonia greca – l’universo è proporzionato alla sproporzione del corpo umano; il tutto è commisurato all’uomo – dall’altro lo schianto del Dio-fatto-a-somiglianza-d’uomo (ribaltamento della prospettiva ebraica espressa in Genesi). Tutto è lì, in quel Dio-corpo appeso alla Croce. Le innumerevoli raffigurazioni del trafitto, dell’innocente ucciso, hanno per scopo lo spiraglio, la stimmate di luce, uno stillare d’altro mondo. Non si ritrae il Cristo: gli si fa, devotamente, lo scalpo – che mi attraversi, mentre lo dipingo, che mi folgori mentre prego Lui attraverso la Sua raffigurazione.  Dalla pittura europea l’animale è bandito.  Certo, l’animale c’è. Di solito, a decorazione – la stessa funzione che ha il paesaggio. I cani – cagnetti o levrieri che siano – fanno parte dell’oggettistica di un principe, ne costituiscono il paesaggio domestico: come la sua pelliccia, l’anello, il bastone – indicano uno status.  Altrimenti, l’animale assurge a simbolo. Il pavone, lo scorpione, il pellicano, il serpente – per non dire gli emblemi cristici o evangelici, dal leone al toro – non sono raffigurati per ciò che sono ma per ciò che rappresentano in uno zodiaco dei sensi, in un bestiario umano, troppo umano. È una dinamica tipica, di cui abbiamo dimestichezza leggendo Dante, ad esempio, quando appaiono, quasi bave d’oltremondo, la lonza e la pantera, l’aquila e il veltro. I bestiari, in effetti, non sono un repertorio zoologico di bestie: l’animale, spesso ferino, spesso immaginario, s’insinua in un senso, in un sentire, umani, come la pietra incastonata nella chioma di ferro di un anello.  Esempi sparsi – chessò, la lepre e il rinoceronte di Dürer – afferiscono a un’area del singolare che riguarda la sapienza zoologica, il primo vagire della ‘scienza’ – ma l’animale, come l’animale uomo, non è semplicemente la sua pur perfetta raffigurazione fisica. Le scene di caccia del Settecento, i leoni di Delacroix o le vacche di Segantini – pur nella diversità di intenti e di talenti – non deviano dalle schema: la bestia è co-protagonista, è lì a illuminare certi aspetti della vita umana. La bestia esiste perché c’è un uomo che la agisce. Anche i pittori statunitensi, storditi dalla vastità dello sconosciuto continente in cui sono atterrati, restano alieni all’animale: i loro quadri – pompier più che pionieristici – raffigurano, alla meglio, vaste vallate, monti abissali, un verdeggiare infinito (quando non inquietante); l’uomo, in scala, ridotto, è pur sempre lì, frastornato Adamo pronto a modellare il mondo secondo il suo spirito.  Allo stesso modo, l’aquila di Hölderlin, il passero solitario di Leopardi, il nightingale di Keats, l’albatros di Baudelaire e l’upupa di Montale sono funzioni – geniali – dello stato d’animo del poeta: sono simboli. La pratica è antichissima: già Efrem il Siro, nel IV secolo, in uno dei suoni inni, celebra la familiarità tra uomo e bestia (“noi siamo loro”), pur nella differenza: “attraverso gli animali/ l’uomo scoprì se stesso”. Gli animali in elenco rappresentano, appunto, dei ‘caratteri’ umani: il lupo è vorace, la iena assassina, la serpe infida, lo scorpione traditore, il cane fedele; la volpe è figura di Erode, il sovrano ingordo e codardo che “profana la tana altrui” e “per vanità” uccide il Battista. L’animale, in sé – troppo attonito al terreno –, è niente. La ‘continuità’ con l’uomo ne annienta l’irriducibile alterità, l’irriducibile nobiltà.  Altre culture, al contrario – quella estremo orientale, quella dei nativi americani o degli sciamani dell’area uralica e siberiana, ad esempio – fanno dell’animale il centro della loro attività rituale e artistica. La tigre e l’airone, la gru e il granchio, il pesce e la scimmia riempiono le opere dei pittori giapponesi e cinesi: il loro intento non è realistico né simbolico; semmai anagogico. Come il pittore occidentale tenta, attraverso il ritratto, di avverare l’anima di colui che ritrae, così il pittore orientale vuole conquistare la ‘forza’, l’energia della bestia che dipinge. Il corvo e il coyote, la volpe e l’orso, nelle culture sciamane, non sono bestie simboliche, bensì autentiche; sono figure regali che aiutano il sapiente nell’operazione di guarigione, nell’operare il viaggio negli altri mondi. Tranne rari casi, la poesia italiana è embricare l’ombelico: sprofondare in sé, specchiarsi nel mondo; ambire – o aderire – alla belva in quanto araldica lirica. Naturalmente, le eccezioni sono diverse, diversamente singolari – dal Bove di Pascoli agli aironi di Alessandro Ceni e di Antonio Porta, dalla Capra di Saba (nel cui “viso semita”, però, scorgiamo lo scalpitio dell’emblema, di una fraternità che va al di là dell’animale, di cui l’animale non è parte) ai bestiari di Bellintani – io preferisco Il cervo di D’Annunzio, che rimane il solo poeta ‘panico’ della nostra tradizione:  Non odi cupi bràmiti interrotti di là del Serchio? Il cervo d’unghia nera si sépara dal branco delle femmine e si rinselva. Dormirà fra breve nel letto verde, entro la macchia folta, soffiando dalle crespe froge il fiato violento che di mentastro odora. Le vestigia ch’ei lascia hanno la forma, sai tu?, del cor purpureo balzante. Ei di tal forma stampa il terren grasso; e la stampata zolla, ch’ei solleva con ciascun piede, lascia poi cadere. Ben questa chiama “gran sigillo” il cauto cacciatore che lèggevi per entro i segni; e mai giudizio non gli falla, oh beato che capo di gran sangue persegue al tramontare delle stelle, e l’uccide in sul nascere del sole, e vede palpitare il vasto corpo azzannato dai cani e gli alti palchi della fronte agitar l’estrema lite! Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti noi tra le canne fluviali assisi. Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo fiume non solcherà suplice solco del tuo braccio e del tuo predace riso, fieri guizzando i muscoli nel gelo. Inermi siamo e sazii di bellezza, chini a spiare il cuor nostro ove rugge, più lontano che il bràmito del cervo, l’antico desiderio delle prede. Or lascia quello il branco e si rinselva. Forse è d’insigni lombi, e assai ramoso. Ei più non vessa col nascente corno le scorze. Già la sua corona è dura; e il suo collo s’infosca e mette barba, e fra breve sarà gonfio dal molto bramire. Udremo a notte le sue lunghe muglia, udremo la voce sua di toro; sorgere il grido della sua lussuria udremo nei silenzii della Luna. È vero: nel mondo anglofono – complici, soprattutto, le novelle mitologie dei preromantici, Blake su tutti, le vertigini di Gerard Manley Hopkins, la forza concettuale di Yeats – la bestia ritrova il suo estro-cuspide, il posto che le spetta. Eppure, anche qui – il libro germinale è La Dea Bianca di Robert Graves – si tratta, per lo più, di un regesto di simboli, di dissotterrare antiche, druidiche immagini – malinconia di un tempo trascorso. Il solo poeta che sistematicamente abbia messo al centro l’animale nel suo discorrere lirico è Ted Hughes; fin da subito, fin dal primo libro, The Hawk in the Rain, fin da quelle prime poesie-fossili, giunte da un mondo ulteriore, The Jaguar, The Thought-Fox, The Horses. Non è un caso se una delle antologie postume più belle di Hughes – a cura di Alice Oswald – s’intitoli Bestiary. Il bestiario, però, contempla l’inganno: il termine rimanda, ancora, all’animale-effigie, alla bestia come gioiello nell’immaginario umano – alla bestia spoglia di sé, mero alambicco d’intelletto.  Il punto più profondo del legame tra Ted Hughes e l’animale, tra il poeta e l’anima animalesca accade in libro considerato secondario nell’opera di quel grande poeta. Under the North Star viene pubblicato da Faber nel 1981 in edizione di pregio, con gli acquerelli di Leonard Baskin, già compagno di imprese poetico-pittoriche di Hughes. Il libro dà voce a diversi animali: il gufo delle nevi e l’orso, la lince e l’airone, la volpe artica, l’aquila e il puma. Dedicato To Lucretia, la figlia di Baskin, il libro ha il ritmo di una filastrocca: in realtà, Hughes – lo consegna alla prima, straniante, poesia, Amulet – impone un rito. Il poeta indossa la stola lirica – dunque: gli attributi sciamanici –, industria la danza e diventa civetta e airone, grizzly e puma, lince e luccio e bue. Guarda con i loro occhi, tenta di registrare il loro linguaggio; non è fratello né artefice della bestia, ma scriba. Poesia, qui, allora, è verbo di neve: bianco testimone di tracce, aneliti, sangue. Non conta tanto – non conta più – che la poesia sia bella (categoria astratta, che pertiene al mondo, per lo più ingannevole, del letterario, dunque dell’illetterato quanto a mondo), ma autentica; l’autorialità del poeta, qui, è nel suo sacrificio: l’io, ora, vola, galoppa, fluttua e sgrana arti e artigli.  Che siano poesie ‘per bambini’, queste – così dicono gli adulti, decrepiti nella loro origine – rientra nella pratica dell’autore. Va addestrato alla bestia, il bimbo, che sappia – piccolo Mowgli espropriato del primigenio bosco – i suoni e le voci animali, che riconosca il punto di parentela e quello dell’intoccabile. A tale distanza occorre ascendere – il resto, non ormeggia più, è gioco di ombreggiatura; e, certo, la poesia è piena di straordinari caratteristi, i caricaturisti della realtà.  *** Da Under the North Star Amuleto  Nelle fauci del Lupo, una montagna di erica. Nella montagna di erica, la pelle del Lupo. Nella pelle del Lupo, la frantumata foresta. Nella frantumata foresta, la zampa del Lupo. Nella zampa del Lupo, l’orizzonte pietrificato. Nell’orizzonte pietrificato, la lingua del Lupo. Nella lingua del Lupo, le lacrime della Cerva.  Nelle lacrime della Cerva, la palude di ghiaccio. Nella palude di ghiaccio, il sangue del Lupo. Nel sangue del Lupo, vento di neve. Nel vento di neve, l’occhio del Lupo. Nell’occhio del Lupo, la Stella Polare.  Nella Stella Polare, le fauci del Lupo.  * Civetta delle nevi  Occhio Giallo, Occhio Giallo giallo perché è gialla la Luna.  Esce dal Buco Nero del Nord un’Era Glaciale in volo! La Luna vola bassa –  la Luna incombe, caccia la sua Lepre –  La Luna cala, grossa di brina affamata come la fine del mondo.  Il Polo Nord ha la gola roca ruggisce e ne trema il globo –  Gli occhi del pianeta serrati di paura eppure le stelle tremano di gioia.  Guarda! Lepre ha il suo splendido monumento! Si impenna una bufera Ciclope su zampe di ferro nero! Gioiamo insieme alla Lepre! Civetta delle nevi, Civetta delle nevi sei immobile e fissi l’immobile globo.  La Luna vola alto.  La bianca montagna è in volo.  Lepre diventa un angelo! * Airone  Sole è un iceberg nel cielo. In un’alcova di gelo giacciono i pesci. Il fiume è condannato Morte si muove su di lui. Ma l’Airone in posa di caccia è diventato di ferro e non può muoversi.  * Volpe artica Nessuna traccia. Neve.  Orecchio – resto stellare.  Cristalli di silenzio.  Il mondo ti fissa, attonito.  Fauci fradice di ghiaccio perforano la brina: qualcosa di impalpabile –  nevischio di piume.  La foresta sussurra.  Respiro furetto vuoto come il chiarore lunare ha un’ombra blu.  Il sogno smuove il muso addormentato della terra folgorata dalla neve.  Quando verrà il giorno sarà impossibile per il sole rintracciare ciò che la notte  ha registrato di nascosto.   * Lince Le zampe silenti della foresta, delle nuvole, delle montagne hanno il loro meritato riposo sotto l’orecchio di Lince.  Dormono del suo sonno – come  in un profondo – profondo – lago. Non disturbare la belva o le nuvole apriranno gli occhi, la foresta, in silenzio, sposterà tutti i boschi e le montagne, arse di nebbia, svaniranno tra le loro pietre. * Puma  Dio mise il Puma sulla Montagna: sarai l’organista  degli echi cattedrale.  Delle sue urla risuona la cava rupe la soglia e l’abisso.  La sua musica sorprende per vastità. Sul pinnacolo del suo gridare solleva la gelida vetta e ascende, alla ricerca del Creatore. Sacerdotessa delle caverne dall’occhio folle –  per tutta la notte cerca di assalire il cielo: il suo canto è come un missile e la Luna gli gela il muso.  Il giorno dopo, esausta dorme al sole.  A volte – spezzata da un silenzio che fiammeggia –  indossa un gioiello.   Ted Hughes *In copertina: Leonard Baskin, Frightened Boy and His Dog, 1955; nel testo, disegni di Leonard Baskin L'articolo “Nelle fauci del Lupo”. Sulla dimensione animalesca della poesia proviene da Pangea.
December 4, 2025 / Pangea
Intorno a uomini-bestia e a donne che allattano lupi e cerbiatti
In un testo “sul fine conforme ai voleri di Dio e sulla vera ascesi”, Gregorio di Nissa intima ai cristiani di non degradare in Minotauro o Centauro. Il primo, corpo umano e “testa di vitello”, è l’uomo irragionevole, che “resta in balie di dottrine idolatre”; il secondo, busto da uomo e corpo da sauro, è retto da selvaggia “passione per il sesso femminile propria dei cavalli”. Nel suo dire – in: Gregorio di Nissa, Fine, professione e perfezione del cristiano, Città Nuova, 1979 –, il Padre della Chiesa stigmatizza il credo pagano, ben radicato nel IV secolo. Il mito, infatti, insiste sulla ‘confusione’ tra uomo e bestia, è affascinato dall’unione sacrilega tra umano e animalesco: da qui il proliferare di chimeriche creature, centauri, minotauri, satiri, sfingi.  Caratteristica del dio, inoltre, è mutarsi in qualsiasi altro essere: per portare a risultato le proprie seduzioni, Zeus si fa toro e cigno, aquila e pioggia e nuvola… Nelle Metamorfosi – specie di travolgente epica enciclopedica del mito – Ovidio insegna che tutto è soggetto al mutamento, che ogni forma esegue il proprio contrario, per capriccio divino e voluttà. È il desiderio a muovere l’azione, che sia atto di predazione, predizione, predilezione per l’ira, l’invidia, la rovina in rabbia. Così: Cadmo e Armonia divergono in serpenti; Aretusa si muta in fonte (che zampilla a Ortigia); Niobe diventa di pietra; Dafne si fa alloro; Licaone, sovrano in Arcadia, muta in uomo-lupo – e così via. Fantomatica araldica di creature sfuggenti, che generano, per proliferazione, ulteriori forme, fraintesi, inseguimenti. In uno dei “sogni di sogni” registrati da Antonio Tabucchi, Ovidio sogna di mutarsi in farfalla; è lo stesso sogno fatto da Zhuangzi, il grande pensatore cinese vissuto tre secoli prima del poeta latino: “Ma egli non sapeva se fosse Zhuangzi che aveva sognato di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhuangzi”.  In sostanza, Gregorio di Nissa insegna a essere integralmente, perentoriamente uomini. Questo corpo – spirito & carne – donatoci da Dio va restituito intatto, ben custodito, non più imbestiato – senza alcun merito, aspiriamo a risorgere, non più a latrato o a ladrocinio. Con il cristianesimo, sembra definitivamente finito il tempo degli dèi proteiformi – greci o egizi o mesopotamici: con divinità dalla testa di leonessa e di sciacallo, dèi alati, dee ferine, continuamente gravide – e delle forme mutanti. Più che altro, sembra separato il regno umano, di quelli somiglianti a Dio, da quello delle altre bestie. Non è del tutto vero. L’uomo si incarica di tutte le creature animali – Noè – e ne assume i paramenti simbolici: Davide ha in sé l’audacia del leone e del lupo, le bestie che ha imparato a conoscere portando al pascolo il gregge del padre. L’anima – nephesh, il sé – è paragonata alla “cerva” che “anela ai corsi d’acqua” (Sal 42, 2). D’altronde, Cristo, “divinamente e umanamente analfabeta” – José Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo, Rusconi, 1972: devo a Tommaso Scarponi l’aver riportato in memoria, fallacia d’anni, questo mirabile testo –, abita dove non è uomo, spinto al deserto (erémos; cioè, il desolato, il selvaggio) dallo Spirito (Pneuma), “stava tra le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (Mc 1, 13).  Secondo tradizione, Gesù è l’Agnello, Agnus Dei, e “il leone della tribù di Giuda” (Ap 5, 5); nei bestiari medioevali è pellicano e cigno, pavone e pantera. Non si disgiunge il divino dall’animalesco, quasi che quella fosse la sua vera figura, l’esattezza. Anche gli evangelisti – incarnazione del tetramorfo (Ez 10, 14), sono leone e angelo, toro e aquila. Pienamente uomo – cioè: altro.  Allo stesso modo, l’ibrido inietta un fascino sovrannaturale. Il lupo che allatta l’uomo – Romolo & Remo nella plaga Palatino; Mowgli nella giungla indiana –; la donna che dà latte alla bestia. Ogni nascita ‘speciale’ ha specificità ferina – oppure, a contrasto, virginea sprezzatura. In alcune raffigurazioni, la Vergine è affiancata dal Bambino e dall’agnello, simbolo di Giovanni Battista: nulla vieta che offra il suo portentoso latte a entrambi. In Amazzonia le donne Awá-Guajá sanno allattare alcuni cuccioli animali rimasti orfani come le Baccanti, secondo Euripide, offrono il seno a cuccioli di lupo e di cervo – le menadi che a nude mani squartano la bestia e di carne cruda si nutrono, hanno ruolo centrale nei misteri di Orfeo, che riguardano il linguaggio dei primordi, la poesia.  Potenza che lacera, quel latte: biancore a colpi d’ascia, tra la Via Lattea e l’addentare, l’adorare quel bianco-bianco, quell’avorio, tesoro a piena bocca, di gioiello e di mela.  In una delle poesie più belle, Fawn’s Foster-mother – raccolta in Cowdor and Other Poems, 1928 – Robinson Jeffers racconta di una signora che ha allattato, da neomamma, un piccolo di cervo. L’ha fatto con naturalezza, con ruvida gioia. La signora abitava con il marito nell’odierno Garrapata State Park, poco lontano da Big Sur, California, e da Carmel, dove il poeta aveva costruito, nell’arco di cinque anni, dal 1919 al ’24, la sua mitologica casa, “Tor House”, in pietra, per sé e la sua donna, Una, secondo lo stile dei castelletti irlandesi. Nessun simbolo aliena la poesia di Robinson Jeffers da una quotidianità lattescente, pugnace: pare che la donna abbia amato quel cerbiatto più dei suoi figli. La poesia è tra le predilette da Ted Hughes, poeta di corvi, lupercali, lupi; un autentico bardo che ha imbastito bestiari per tutta la vita; un poeta-Chirone, un poeta-sciamano che sa auscultare le viscere e le stelle. Di ogni poeta, d’altronde, non cerchiamo l’anima, ma il dire animalesco.    ** La madre adottiva del cervo La vecchia siede davanti alla porta, su una panca, litiga con la megera figlia, pallida, depressa.  Una volta, passando di lì, l’ho vista ridere, sola, al sole: mi raccontò di quando si era appena sposata, stava in una vecchia fattoria in cima al Garrapatas Canyon.  (Ora quella casa è vuota: il tetto crollato muraglie di tronchi tra le vive pietre; le sequoie sono state abbattute ma le querce reggono ancora; il luogo è più solitario che mai). “Allattavo il mio secondo figlio; mio marito  trovò un cerbiatto nascosto in un bosco di felci; era giorno, me lo portò, gli misi il muso al seno; piuttosto che lasciarlo morire di fame, pensai: avevo latte a sufficienza per tre bimbi. Come succhiava  quel piccolo frugolo: affondava i piccoli zoccoli nel mio stomaco come fossero aculei.  Mi ha dato più gioia lui di tutti gli altri”.  Il viso, deformato dall’età, sembra una strada  disfatta dai carri, è roso dalla meschinità e dall’incuria.  Cella di pelle secca, pura superficie che molto presto  si staccherà dalle palpebre della terra: eppure, ha avuto anche lei la sua primavera, ha vissuto nelle arterie che fecondano il mondo, nella musica della montagna. Robinson Jeffers *In copertina: Jean-Léon Gérôme, La Baccante, 1853 L'articolo Intorno a uomini-bestia e a donne che allattano lupi e cerbiatti proviene da Pangea.
October 11, 2025 / Pangea