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“Un segreto inviolabile”. I “Sonetti” di Shakespeare nella traduzione di Giuseppe Ungaretti
Ognuno di noi serba nell’animo il ricordo di una lettura folgorante, un libro che ha segnato tutta una vita, confermato il presagio di una vocazione e illuminato la possibile traiettoria di un’esistenza. Un libro totem, un libro talismano – fatto per essere conservato come un amuleto o da indossare come un’armatura contro gli agguati del tempo, un orizzonte di privata salvezza in fondo alle nostre piccole e grandi apocalissi.  La mia copia dei Sonetti di Shakespeare, nella versione in prosa di Lucifero Darchini, risale ormai a più di venti anni fa. L’avevo comprata, se la memoria non m’inganna, durante le vacanze estive tra il secondo e il terzo anno di liceo. Mi aveva sedotto la copertina color blu cobalto con al centro un piccolo ritratto del poeta inglese, la famosa incisione di Martin Droeshout. Una copertina senza orpelli, piuttosto minimalista. Tante volte mi sono interrogato, nel corso degli anni, sulle ragioni che fanno dei Sonetti un’opera per me totalmente invulnerabile all’usura del tempo, del dolore e degli affetti. Ora, a distanza di due decenni, quel blu si è schiarito, le pagine si sono irrimediabilmente ingiallite. Resiste quell’odore inconfondibile e familiare dei libri che abbiamo portato in giro per il mondo, pieni di note e piccole illuminazioni scritte alla luce fievole di un abat-jour. Persiste anche, inalterabile, quella voglia di serrare il libro al petto, come si fa con le persone più care. Forse, è questa la migliore risposta alle mie domande. * Sugli interlocutori dei sonetti, sulla datazione, così come sulle misteriose vicende della pubblicazione, sono stati scritti e si continuano a scrivere fiumi d’inchiostro. Poco importa, in fondo, dare un nome e un cognome al “fair youth”, alla “dark lady” e al “rival poet”. Qualcuno ha scritto che in questi versi Shakespeare ha messo a nudo il suo cuore. Che in quei 14 pentametri giambici disposti in tre quartine in rima alternata più un distico finale in rima baciata, il poeta abbia voluto drammatizzare le tensioni più intime del suo poetico sentire. Per me, i Sonetti coincidono da sempre con la meridiana che segna il mezzogiorno della Poesia. * Cerco di indagare le ragioni del senso di meraviglia che i 154 sonetti sprigionano. Da cosa deriva il loro fascino irresistibile? Con quale lingua mi parlano, accarezzando il dolce mistero della poesia, aggirando le mie arrendevoli difese?  Forse – mi dico – il motivo è nell’intreccio tra la sfera del privato e dell’eterno, inscritta cioè nell’orizzonte delle umane passioni. O forse la ragione si trova nell’unione tra l’universale e il particolare – cioè l’irripetibile, o nella commistione miracolosa e al tempo stesso naturale tra il solenne e il sublime ordinario. Qualsiasi cosa sia, so che ad incantarmi è la drammatizzazione del discorso lirico, in cui sempre il dettato oscilla tra la prima, la seconda e la terza persona singolari. È già qualcosa, ma non basta ancora. Provo a mettere a fuoco, quanto basta per vedere più da vicino il mistero, ma senza correre il rischio di svelarlo. I Sonetti – una bussola con l’ago magnetico rivolto verso il Nord della poesia. Il che vuol dire nutrire in sé la perenne convinzione che quel libro attraverserà tempeste e schiarite della giovinezza, l’ingannevole saggezza della maturità, le vaste distanze marine e aeree, le possenti montagne dove mulina la neve, nel regno delle nubi. * I Sonetti compaiono per la prima volta nel 1609, mentre a Londra infuria la peste. Quasi tre secoli e mezzo dopo, un altro tipo di piaga affligge l’Europa e il mondo intero – la Seconda Guerra Mondiale. In una Roma che inizia a patire i primi bombardamenti, esce a cavallo tra il 1943 e il ’44, a firma di Giuseppe Ungaretti, la traduzione di 22 sonetti in 498 esemplari di lusso. S’era già cimentato, il sommo poeta italiano, nella traduzione di diversi poeti – diversi per indole, lingua e cultura – come Gongora, Esenin, Saint-John Perse, Blake e Paulhan. Ma è proprio il corpo a corpo con il poeta inglese, durato quasi quindici lunghi anni, a rivestire un’importanza decisiva nella vita e nell’opera ungarettiana. Ce lo dice il poeta stesso nella breve e fulminante nota introduttiva alla sua traduzione. Ungaretti inizia ad accostarsi ai versi di Shakespeare nel 1931. Lo assale, in quegli anni, un’esigenza profonda di rinnovamento formale, che s’accompagna a un inaridimento dell’ispirazione. Ungaretti sognava una poesia >  “dove la segretezza dell’animo, non tradita né falsata negli impulsi, si > conciliasse a un’estrema sapienza del discorso”. Desiderava quindi, il sommo poeta italiano, pervenire a un miracoloso equilibrio grazie a una lingua alleata ad un tempo con l’arcano e il popolare. Accogliere la rotonda inquietudine del Petrarca e l’angolosa asprezza dei versi michelangioleschi. Rinvenire, scegliendo le parole, quelle in grado di sollecitare lo spirito e i suoi moti, al di là delle leggi della prosodia. Di nuova linfa aveva bisogno Ungaretti, per volgersi di nuovo con sguardo fiducioso verso la poesia. Un vento proveniente da altro quadrante doveva gonfiare le sue vele, tirando fuori l’ispirazione dalla secca in cui era finita. Cosa spinge allora Ungaretti verso il canzoniere di Shakespeare? Perché la scelta, da poeta a poeta, cade proprio sul bardo inglese? * La lunga gestazione della traduzione dei Sonetti è da collocare in un decennio decisivo per Ungaretti. La morte della madre, una crisi mistica che sfocia nella conversione religiosa, la pubblicazione nel 1933 della raccolta Sentimento del tempo, la scomparsa durissima del figlio di appena nove anni nel 1939, portano il poeta a confrontarsi direttamente con il senso della finitudine umana e del dolore gratuito. E proprio l’intensa meditazione sulla morte e su come opporvisi costituisce uno degli accenti più vibranti dei versi di Shakespeare. Solo la poesia – giusta essenziale e retta –, per dirla con Elitis, può valere come argine contro la morte. Solo quel miracolo nato in mezzo all’Egeo, più di due millenni fa, è in grado di sgambettare la furiosa corsa del tempo verso l’oblio eterno. Poco importa se il tema è un topos letterario inaugurato da Orazio. Nei Sonetti, non avverti la maniera, l’esercizio freddo in ossequio al canone. L’io lirico riesce, sempre e comunque, a soffiar vita dentro i versi. Lo stesso si dica per l’amore. Cantato in tutte le sue gradazioni, dall’ammirazione alla procreazione, dalla gelosia alla sete di immortalità, l’amore evocato da Shakespeare è un amore nel quale senti il grido trasferirsi dal privato all’universale, “pieno d’echi di popolo, urlo”. Ecco “il diretto, il segreto contatto” che Ungaretti sentiva verso il poeta inglese, ancor prima di mettersi a tradurre i Sonetti. Nel sovrapporsi di figure diverse, nel colloquio incessante e drammatico tra intime e condivise passioni, noi siamo, rispetto ai Sonetti,spettatori ammirati, e Ungaretti insieme a noi. Uomo di teatro e per il teatro, Shakespeare riesce a proiettare anche tra quelle rime il palcoscenico dove si esibiscono le vaste esperienze umane. E tuttavia, anche nelle composizioni che si aprono al tepore di una primavera d’ispirazione, financo nello sbocciare armonioso e meridiano delle immagini e dei temi, senti la vibrazione tellurica di un mistero che è il nucleo stesso della grande poesia. Scrive Ungaretti nella nota introduttiva, e la citazione è di quelle che non lasciano spazio a repliche: > “Non esisterà mai poesia che non rechi in sé, traendone vita, un segreto > inviolabile”. Pare quasi di sentirlo parlare in una delle sue interviste, Ungà, con quel tono di voce cantilenante e magnetico – ogni frase cade come un meteorite di amorevole saggezza. Lo sguardo dolce, che lascia intuire tutto il dolore vissuto, ma trasfigurato ormai in qualcos’altro – una vaga serena docile consapevolezza. Quell’aria un po’esotica che sa di adolescenza e pleniluni africani, quel suo abitare la poesia con la giustezza di una vita interamente dedicata, senza compromessi, ai versi. Poesia come vocazione, poesia come destino. Che viaggi allora nel tempo, Ungaretti, con la speranza dell’immortalità, insieme alla sua traduzione del sonetto 55 di William Shakespeare: “Non il marmo, né gli aurei monumenti Di principi, potranno alla potenza delle mie rime sopravvivere; Ed in esse voi contenuto, splenderete più splendido Che non nella negletta pietra, dal sozzo tempo deturpata. Quando la guerra che devasta rovescerà le statue E le fazioni scalzeranno il lavoro di muratura, Non la sua spada Marte offenderà, né incendio di battaglie I vivi archivi del ricordo vostro. Contro ogni morte e ogni obliosa nimicizia Non si arresterà il vostro passo, ed avrà stanza il vostro elogio In tutti gli occhi di quante generazioni postere Avranno questo mondo da esaurire per l’ultimo giudizio. Così sino allo squillo che vi farà risorgere, Quaggiù vivrete e abiterete in sguardi innamorati”. Lorenzo Giacinto *In copertina: Giuseppe Ungaretti. © Archivio Fotografico Paolo Di Paolo L'articolo “Un segreto inviolabile”. I “Sonetti” di Shakespeare nella traduzione di Giuseppe Ungaretti proviene da Pangea.
November 13, 2025 / Pangea
“Sei nero inferno, sei la notte oscura”. Shakespeare: cinque sonetti alla dark lady
Non è un caso che gli ultimi due testi del canzoniere scespiriano, i sonetti gemelli 153 e 154, siano dedicati a Cupido, variando un motivo tratto da un epigramma di un poeta bizantino incluso nell’Antologia greca. “L’epigramma narra di come Cupido si fosse addormentato e di come le ninfe avessero deciso di spegnere in una pozza d’acqua la sua torcia infuocata (la più antica “arma” di Cupido, con cui egli accende d’amore i cuori degli uomini, prima che gli venissero attribuiti arco e frecce), ottenendo però il risultato di infuocare per sempre quelle acque” (Camilla Caporicci). “La ninfa di Diana approfittò / tuffando la sua torcia infiammacuori/ in una fredda fonte nella valle,/ così dal sacro fuoco l’acqua attinse/ un eterno calore inesauribile,/ che fu bagno bollente e che si dice/ sia la sovrana cura a malattie” (153).  Nel mito, dunque, uno spirito femminile è inviato dalla dea Diana a cercare un rimedio alle fiamme accese dal dio scugnizzo e tenta di trasformare il fuoco che brucia in acqua che plachi: “e così il Generale di passioni/ fu disarmato in sonno da una donna./ Spense la torcia in una fredda fonte/ che divenne calore con quel fuoco,/ bagno termale e cura per malati” (154). Questo racconta il mito, ci dice Will, ma aggiunge che si tratta di un falso, di un estremo inganno, che lui ha esperito sulla propria pelle: “Dolente, cercai aiuto in quella fonte/ ma, triste, non ne ebbi cura alcuna”: a quel punto del canzoniere l’unica cura sono, come da tradizione cortese e petrarchista, “gli occhi della donna” (153). Pubblicati nel 1609 molto probabilmente senza il consenso dell’autore, i Sonetti di William Shakespeare hanno come si sa due dedicatari: un giovane di grande bellezza, il fair youth, e una misteriosa (o)scura donna, la dark lady. Il corpus principale del canzoniere ci offre la celebrazione della giovinezza, poi il doloroso scarto tra bellezza e virtù, e da qui i tormenti del cuore, la gelosia per altre/i amanti del giovane narcisista, quindi la disperazione per l’impietoso avanzare dell’orologio e l’appressarsi della morte, ma anche la sfida tra Will e la propria Musa e la più mondana rivalità con gli scrittori suoi contemporanei. Lo scacco esistenziale è però compensato dall’assoluta certezza di aver consegnato l’amato fair youthall’eternità, grazie all’arte poetica.  Quando poi dal sonetto 127 fa la sua entrata in scena la dark lady, c’è un deciso definitivo cambio di registro: le atmosfere si intorbidano, la lingua s’infiamma, il lirismo estatico del corpus principale viene sommerso da una materia infuocata, pietra lavica composta di lussuria, sfide, minacce, maledizioni. Se poi l’innamoramento omosessuale per il fair youth era di natura ideale, l’amore di carne e seme per la donna pare richiedere a Will una prova di forza tale che le sue forze vitali ne risultano vinte, conquistate: “Ma se m’hai quasi ucciso, tuttavia, / finiscimi di sguardi e così sia” (139). Arresosi alla sua padrona e tiranna, conclude il magnifico canzoniere con una dolente consapevolezza, che è anche un supremo inno all’amore: tra Cupido e Diana non c’è partita, il vincitore è il bimbo capriccioso per le cui ferite non c’è fonte d’acqua né bagno termale, né mai potrà esistere cura alcuna. E, citando il Cantico dei Cantici, si congeda così: “Ma io, schiavo di lei, ci andai e vi dico:/ fuoco d’amore all’acqua dà calore,/ invece l’acqua non raffredda amore” (154). (Massimiliano Palmese) ** 129 È uno spreco di linfa, è una vergogna  quando in corpo s’accende la lussuria. È spergiura e colpevole, è sanguigna, è selvaggia e bugiarda quando infuria. Non appena appagata è disprezzata. È rincorsa in maniera animalesca poi pazzamente odiata, come l’esca  che rende pazzo chi l’abbia ingoiata. Pazzo sia nel possesso che al bisogno. Prima, durante e dopo è sempre estrema:  buona la prima volta, poi gran pena.  Promette gioia, sì, ma è solo un sogno.    E tutto il mondo sa, e non sa evitare     un cielo che all’inferno può portare. * 137 Tu cieco pazzo amore, che sai fare all’occhio mio che guarda ma non vede!  Sa la bellezza, sa dove risiede,  però confonde il bene con il male. Se occhio sviato da affrettati sguardi  s’àncora nella sua baia affollata,  perché, ingannati gli occhi, fai altri ganci per raggirare un’anima assennata? Penserà che sia pascolo privato un terreno che sa che è aperto al mondo?  O dai miei occhi ciò sarà negato per dare aspetto onesto a un viso immondo?      Il cuore e gli occhi hanno sbagliato via,     precipitando in questa malattia. * 139 Non mi chiedere di scusare i danni che la tua crudeltà infligge al mio cuore:  non con gli occhi, feriscimi a parole,  usa forza con forza, e non inganni. Dimmi che hai amori altrove ma di giorno,  cuore caro, non ti guardare intorno: perché ingannarmi quando puoi più offesa  di quanto può l’esausta mia difesa? Ma io ti scuso: “L’amor mio lo sa  che i suoi sguardi mi furono fatali,  e dal mio viso li distoglierà, perché lancino ad altri i propri strali”.    Ma se m’hai quasi ucciso, tuttavia,     finiscimi di sguardi e così sia. * 147 Il mio amore è una febbre, cerca sempre ciò che più a lungo ne alimenti il male,  nutrendosi di quel che lo conserva per appagare una morbosa fame. La ragione, che dell’amore è medico,  furiosa per ricette che non sèguito, m’ha lasciato e ora scopro disperato  che desiderio è morte, e era vietato.  Sono incurabile, la mente è a un bivio,  pazzo furioso e sempre più in delirio. Dei pazzi ho sia i discorsi che i pensieri,  tutti sconnessi, vani e poi non veri.    Ti pensai bella e ti ho giurato pura:     sei nero inferno, sei la notte oscura. * 149 Dici, crudele, che Will non ti ama  se contro me sto sempre dalla tua? Dici che non ti penso, mia sovrana, quando per gioia tua scordo la mia?  Chi ti odia forse prendo per mio amico? Lodo qualcuno di cui ti lamenti? E se con me t’imbronci, io poi non grido  vendetta su me stesso tra i tormenti?  Quale merito vuoi mai che mi tocchi da scordare che sono qui a servirti, se tutto in me ancora ama i tuoi vizi  a comando di un cenno dei tuoi occhi?     Odiami, amore, ora che ho imparato:    vuoi chi ti ammiri, e io sono accecato. Traduzione di Massimiliano Palmese *I testi sono tratti da: William Shakespeare, Sonetti, trad. it. di Massimilliano Palmese, Marcos y Marcos, 2025 *In copertina: John Henry Fuseli: Self-portrait (1790), Victoria and Albert Museum, London L'articolo “Sei nero inferno, sei la notte oscura”. Shakespeare: cinque sonetti alla dark lady proviene da Pangea.
March 21, 2025 / Pangea