Djuna Barnes è da annoverarsi nella folta schiera di artisti americani expat che
negli anni ’20 trovarono rifugio a Parigi. Tra questi, è sicuramente una delle
figure meno note al grande pubblico, soprattutto se paragonata a personaggi del
calibro di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. Ritornata negli Stati
Uniti scelse di vivere, anche a causa dell’alcolismo, in quasi totale isolamento
per il resto dell’esistenza. Terminò la sua vita da reclusa in un modesto
appartamento in Patchin Place, nel Greenwich Village.
Eccentrica e sessualmente polimorfa, femminista ante litteram, generò uno dei
capolavori “minori”della letteratura americana degli anni
’30, Nightwood (1936); Bosco di notte secondo la traduzione di Filippo Donini
(1968), La foresta della notte secondo quella di Giulia Arborio Mella (1983). Se
l’autrice non appartenesse al côté modernista, il libro potrebbe anche essere
dantescamente intitolato La selva oscura. Non è superfluo ricordare che il
volume gode del raro privilegio di aver ricevuto in dono un’introduzione firmata
niente meno che da Thomas Stearns Eliot.
A tutta prima, si direbbe un romanzo senza trama che consiste più che altro di
una galleria di personaggi giustapposti fra di loro e tenuti insieme da un
personaggio-amalgama che fa da collante, il dottor Matthew O’Connor. Senonché –
prima di confermare perentoriamente la correttezza di quest’impressione – per
timore reverenziale non si può non tener conto di quello che scrive Eliot:
> «Questo libro non è una semplice raccolta di tratti isolati; i personaggi sono
> tutti strettamente legati l’uno all’altro, come accade nella vita reale, più
> che dalla scelta volontaria della reciproca compagnia, da ciò che possiamo
> chiamare caso o destino; è il disegno complessivo di questi rapporti,
> piuttosto che ciascuna componente individuale, a costituire il fulcro
> dell’interesse».
Anche se l’autore della Terra desolata, nella sua introduzione, dopo aver
asserito che «Quando descrissi La foresta della notte per invogliare i lettori
all’edizione inglese, dissi che “sarebbe piaciuto innanzi tutto ai lettori di
poesia”», predispone immediatamente una palinodìa («[…] non intendo dire che lo
stile di Miss Barnes sia “prosa poetica”»), non si può negare che lo stile
adottato dalla Barnes nella Foresta della notte sia molto vicino a quello della
prosa lirica. D’altronde, è stato uno dei massimi poeti del Novecento, Dylan
Thomas, ad aver sostenuto che quello della Barnes è «uno dei tre grandi libri di
prosa scritti da una donna» e il suo è senza ombra di dubbio un elogio da
collega a collega (la Barnes era anche poetessa). E, comunque, Eliot precisa:
> «Dire che La foresta della notte piacerà innanzi tutto ai lettori di poesia
> non significa che esso non sia un romanzo, significa che è un romanzo così
> bello che soltanto una sensibilità formatasi sulla poesia può apprezzarlo fino
> in fondo».
È difficile, però, riuscire a comprendere quanto ci sia di esornativo nello
stile della scrittrice e quanto di effettivamente necessario e conforme al
contenuto dell’opera dal punto di vista espressivo. Eliot mette subito le mani
avanti, insinua nel lettore il dubbio che il romanzo sia inconsistente ma, al
tempo stesso, con un trucco da illusionista, lo dissolve: «Non voglio dar
l’impressione che i meriti di questo libro siano soprattutto verbali, e ancor
meno che questo stupefacente linguaggio nasconda una vacuità di contenuto. Se il
termine “romanzo” non si è troppo svilito, e se sta a indicare un libro nel
quale si creino personaggi vivi e li si mostri in rapporti non gratuiti, questo
libro è un romanzo». Certo, le frasi che potrebbero essere considerate “ad
effetto” si sprecano e, a dire il vero, riescono di frequente a blandire e a
incantare il lettore: «[…] il riso è il denaro del povero»; «Rendere omaggio al
nostro passato è il solo gesto che includa anche il futuro»; «Chi ama tutto
viene disprezzato da tutto»; «L’amore è la prima menzogna; la saggezza
l’ultima». Qualcuna di queste frasi si dibatte tra l’aporia e l’ossimòro:
«L’uomo è nato dannato e innocente fin dall’inizio». Qualche altra ha un sapore
nichilista: «Il vero bene che incontra il vero male (Santa Madre di
Misericordia! ma esistono?)». Qualche altra ancora è a più stretto contatto con
l’essenza stessa della storia: «[…] la notte fa qualcosa alla tua identità,
anche mentre dormi»; «La vita non si lascia comandare».
Un tentativo di ricostruire la trama del libro (i cui temi portanti sono
l’identità, il desiderio, la sessualità e il dolore per la perdita della persona
amata), per quanto esile e incerta questa possa essere, bisogna pur farlo.
La location della storia è Parigi. In particolare, i luoghi più citati sono
situati nei dintorni di Saint-Sulpice e nel quartiere di Montparnasse. Felix
Volkbein – un ebreo non tradizionalista che si sente «attirato verso la
chiesa», di nazionalità austriaca e «ascendenza italiana», sedicente barone con
la fissa dei nobili natali – ha il desiderio di procurare una discendenza al
proprio “casato”. Sposa Robin Vote – conosciuta in circostanze fortuite
nell’Hôtel Récamier, in cui entrambi soggiornano – che gli dà un figlio maschio,
il quale in seguito si rivelerà per lui una profonda delusione (il dottor
O’Connor lo aveva avvertito: «l’ultimo figlio dell’aristocrazia è talvolta un
idiota»). Prima di decidersi ad avere il bambino, Robin si fa cattolica ed esce
spesso di casa, prendendo treni per chissà dove, mettendosi a vagare assorta in
misteriose meditazioni, elaborando «pensieri spopolati» e muovendosi con una
«calma ostinata, catalettica».
Difficile sostenere che tra i due coniugi ci sia vero amore. Il marito dà più
che altro l’impressione di aver voluto prendere un “utero in affitto”. Dopo la
nascita del figlio, la moglie non è quasi mai a casa, riprende a viaggiare, si
mette a frequentare i caffè e a bere. Finché un giorno sbotta, riferendosi al
bambino: «Io non lo volevo!». E abbandona la famiglia, facendo perdere le sue
tracce per tre o quattro mesi. Quando ricompare è in compagnia di Nora Flood,
con la quale ha una relazione sentimentale. Sonnambula, in preda alla
dromomania, raccolta in «una meditazione informe», Robin esce di casa sempre più
di frequente, soprattutto di notte, inseguita da Nora che la osserva andare «di
tavolo in tavolo, di bicchiere in bicchiere, di persona in persona». Vaga per
le strade della capitale francese, spostandosi da un caffè all’altro, a caccia
di fugaci incontri, irrimediabilmente persa tra i fumi dell’alcol.
Per quanto le storie possano essere frutto della fantasia dello scrittore, c’è
spesso un aggancio con la realtà: se la figura di Felix Volkbein è modellata su
quella di Guido Bruno, editore della Barnes per un certo periodo di tempo, i
personaggi di Nora e Robin sono ispirati rispettivamente all’autrice stessa e a
una delle sue amanti, Thelma Wood (che Djuna pedinava e inseguiva nei suoi
continui cruising notturni). Alla fine, anche Nora subisce il tradimento di
Robin che si trova un’altra compagna, Jenny Petherbridge (una tizia che vive
un’esistenza di seconda mano; la cui vita è vissuta attraverso quelle altrui,
sottraendo affetti e oggetti e prendendo in prestito le parole; come Robin un
personaggio beckettiano che meriterebbe una trattazione a parte proprio a causa
della sua significativa insignificanza), con cui poi va via da Parigi per
stabilirsi in America. Il finale è melodrammatico e, per non togliere ai
potenziali lettori il gusto della sorpresa, non è opportuno svelarlo in
anticipo.
Come già detto, tra i vari personaggi del racconto fa da collante il dottor
Matthew O’Connor, nordamericano di origini irlandesi, confidente privilegiato di
Felix e Nora. Quest’ultima si rivolge a lui per chiedergli di dirle tutto quello
che sa a proposito della notte e implicitamente di sapere cos’è di per sé la
notte. Il dottore, «che indossava una veste da notte di flanella, da donna […]
pesantemente imbellettato, le ciglia dipinte», glielo spiega in maniera criptica
in una lunga tirata, con ampie digressioni, che occupa un intero capitolo
(«Guardiano, com’è la notte?»), di cui si riportano di seguito alcune delle
frasi chiave: «vi dirò come il giorno e la notte siano collegati dalla loro
divisione»; «La struttura stessa del crepuscolo è una favolosa ricostruzione
della paura»; «la notte non si premedita»; «la notte è una pelle tesa sulla
testa del giorno perché il giorno sia tormentato»; «Il dormiente è proprietario
di una terra sconosciuta»; «Il sonno esige da noi una colpevole impunità»; «Dice
Donne: ‘Tutti siamo concepiti in un cieco carcere, tutti, nel grembo di nostra
madre, siamo prigionieri isolati in una cella buia. Quando nasciamo, nasciamo
solo alla libertà della casa – tutta la nostra vita non è che un camminare verso
l’uscita, dove sono il patibolo e la morte’». E, infine, una delle frasi già
citate: «[…] la notte fa qualcosa alla tua identità, anche mentre dormi».
Sciamano e sacerdote dell’inconscio, una sorta di novello Tiresia, considerato
da Felix «un gran bugiardo, ma un bugiardo prezioso», secondo alcuni il primo
personaggio en travesti della letteratura moderna, il dottor O’Connor, che di
notte si cambia d’abito e indossa vesti femminili, si lascia invasare
dall’Es, esibendosi in un profluvio di parole incontrollate e incontrollabili e,
in parte, apparentemente senza senso. Il suo eloquio è una manifestazione
dell’inconscio stesso che sembra incarnarsi in lui. La casa in cui vive è una
palpabile epifania della sua essenza e della sua esistenza. Più che
un’abitazione è un tetro abitacolo, un antro angusto in cui O’Connor mette in
scena se stesso, svelando la propria natura “femminea” attraverso gli oggetti
che ha disseminato al suo interno, in primis lo chiffonier da cui traboccano
abiti, biancheria e ornamenti mulìebri. Se nelle oscure foreste la luce spiove
filtrando attraverso i folti rami degli alberi, nella stanza del dottore essa
penetra da «un finestrino a grata», unica apertura verso l’esterno di cui
l’abitazione è dotata.
La foresta della notte che O’Connor descrive a Nora, è una
metafora dell’inconscio, degli istinti primordiali, di quella parte buia e
misteriosa della mente umana che – percorrendo sentieri tortuosi – finisce per
far perdere all’individuo la propria identità e che – conducendolo in luoghi
inesplorati – genera in lui terrore e angoscia. Il dottore, pur assumendo
un’aria professorale si guarda bene, com’è uso dei veggenti, dal
propinare all’amica una soluzione chiara ai problemi e agli interrogativi che
gli pone. Egli stesso – in quanto animale uomo – è in preda a istinti
bestiali, inconfessabili e, in una certa misura, ineffabili. È ossessionato
dall’inconscio.
È una tendenza comune a tutti gli esseri umani quella di cercare di sottrarsi,
di tanto in tanto, al dominio dell’Io e del Super-io e a far ritorno, anche se
per breve tempo, alla propria “animalità”. Djuna dà conto di questo anche in una
sua poesia in cui compare nuovamente il motivo del bosco o foresta («woods»).
Nei versi che seguono, i bambini si svezzano («be un-parented») dai genitori (il
Super-io) per far ritorno alla natura (l’Es), simboleggiata dalle foglie degli
alberi («the leaves») e dall’intera foresta:
All children, at some time, and hand in hand,
Go to the woods to be un-parented
And ministered in the leaves.
(“The Bo Tree”)
I personaggi della storia narrata dalla Barnes non sono affatto a tutto tondo.
Sono appena abbozzati e, in qualche caso, quasi completamente privi di
personalità. E, da quel che sembra di capire, molto probabilmente questa è una
scelta deliberata dell’autrice.
Nel leggere la storia, il lettore si trascina da una pagina all’altra incantato,
stupefatto e costernato, proprio come fosse in transfert con il personaggio più
misterioso di tutta La foresta della notte, Robin Vote, la sonnambula «consunta
dal sonno», anche lei personificazione dell’inconscio in quanto creatura
notturna, in preda a impulsi irrazionali che non riesce a dominare. Robin Vote,
il personaggio che ha la personalità meno delineata di tutti gli altri
personaggi del libro (il dottor O’Connor confessa al barone di non aver mai
avuto «un’idea veramente chiara di lei») proprio in quanto individuo perduto
nell’indistinto magma della notte, «essere in letargo», che pur essendo in
apparenza qui e ora è, in realtà, altrove («Non voglio essere qui» confessa a
Nora, senza spiegare dove vorrebbe essere), in una dimensione – quella onirica –
per sua natura precaria, situata sull’incerto confine tra essere e non
essere, perennemente in bilico e – dunque – sempre prossima alla dissoluzione.
E questa eterna transience non è forse la condizione stessa della poesia?
Angelo Guida
*In copertina: ritratto fotografico di Djuna Barnes (1892-1982) di Berenice
Abbott
L'articolo “La notte fa qualcosa alla tua identità”. Intorno al romanzo insonne
di Djuna Barnes proviene da Pangea.
Tag - Angelo Guida
Flannery O’ Connor, fervente cattolica, divenne famosa a sei anni per aver
insegnato a un pollo a camminare all’indietro. Sofferente di una grave malattia
autoimmune a carattere ereditario, il lupus eritematoso sistemico, morì a soli
39 anni.
Nonostante le innumerevoli difficoltà che costellarono la sua vita, non si perse
d’animo.
Pregò Dio di farla diventare una brava scrittrice e Dio la esaudì.
La speranza non l’abbandonò mai nonostante fosse consapevole di dover porre fine
anzitempo al suo percorso terreno.
Ma è proprio la speranza a essere la grande assente nelle storie narrate nella
sua raccolta di racconti Everything That Rises Must Converge (1965), titolo
genialmente reso in italiano con Punto Omega (a volte il traduttore deve,
ossimoricamente, “tradire” la lettera per rimanere “fedele” alle intenzioni
dell’autore) da Gaja Cenciarelli.
Innanzi tutto, cos’è il Punto Omega? Wikipedia dice che «è un termine coniato
dallo scienziato gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin per descrivere il
massimo livello di complessità e di coscienza verso il quale sembra che
l’universo tenda nella sua evoluzione. Teilhard de Chardin postula la
somiglianza di Punto Omega con il Logos cristiano: Cristo che accoglie tutte le
cose in Sé».
Il titolo scelto da Gaja Cenciarelli per il libro della O’Connor è perfettamente
aderente alla tematica religiosa ricorrente nei racconti ivi inclusi nei quali
la speranza – una delle tre virtù teologali con la carità e la fede – è
sostituita dall’alienazione, dalla disperanza e dal pessimismo (in quarta di
copertina, Claudia Durastanti chiosasottolineando che le storie dell’autrice
americana sono pervase da «un senso di morte e condanna»). Tutti i racconti
della raccolta si concludono in modo drammatico, molto spesso con la morte di
uno o più personaggi. Il mondo o i mondi in cui sono ambientati sembrano trovare
la loro spiegazione o giustificazione più che nel cristianesimo nella gnosi.
Il racconto che dà il titolo alla silloge descrive il rapporto idiosincratico
tra un figlio e una madre, reso ancora più difficile dal razzismo strisciante
della donna. Nella scena finale, il figlio si dispera, chino sul corpo
agonizzante della genitrice, colta da un grave malore.
In Greenleaf, la signora May, proprietaria terriera, muore incornata dal toro
del figlio del suo infingardo fattore.
Ne La veduta del bosco, un nonno, dopo aver indispettito tutta la famiglia con
la sua arroganza, si inimica anche la sua nipotina preferita che finirà per
uccidere accidentalmente. E così non gli resta nient’altro da fare che togliersi
la vita annegando nelle acque di un lago.
Malattia mortale è un titolo ironico: alla fine della narrazione il protagonista
finisce per scoprire che la malattia di cui soffre non è altro che una volgare
brucellosi da cui potrà senza alcun dubbio guarire. Ma, nel momento in cui sta
per aprirsi alla nuova vita, sente «le prime avvisaglie di un brivido, un
brivido così particolare […], un’onda calda in un più profondo mare di freddo».
E la conclusione è questa:
> «Un grido debole, un’ultima, impossibile protesta gli sfuggì dalle labbra. Ma
> lo Spirito Santo, avvolto nel ghiaccio anziché nel fuoco, continuò,
> implacabile, la sua discesa».
Nel finale del racconto Gli agi della casa, Thomas uccide involontariamente la
propria madre che si interpone tra lui e l’ospite indesiderata venuta a
“contaminare” la loro abitazione e le loro esistenze e a cui era diretto il
colpo di pistola che ha esploso.
Ne Gli storpi entreranno per primi, Sheppard, un vedovo che lavora come
consulente in un riformatorio, trascura e ingiuria il proprio figlio per aiutare
un giovane disadattato, dal piede equino, che ritiene particolarmente
intelligente e promettente. Ma il suo protégé si rivelerà ben presto un
impenitente delinquentello. Pentito del grave errore di valutazione che ha
commesso, in fretta e furia, tenta allora di recuperare il rapporto con il
figlio e corre in camera sua per dirgli che lo ama. Ma lo ritrova a penzolare da
una trave «dalla quale si era lanciato per il suo volo nello spazio».
In Rivelazione, la signora Turpin, dopo essere stata aggredita da una ragazza
nella sala d’aspetto di uno studio medico, si chiede, con pulsione antinomica:
«“Come mai sono redenta ma vengo anche dall’inferno?”». Ferita nell’orgoglio e
in preda alla hybris, scossa da un empito gnostico, si infuria contro Dio
ruggendogli contro:
> «“Se preferisci i poveracci, vai a cercarti i poveracci,
> allora”, […]. “Avresti potuto farmi povera. O negra. Se volevi i poveracci,
> perché non mi hai fatto poveraccia?”».
E, infine, ha una visione: vede un’orda di anime in cammino verso il paradiso.
Ci sono i poveri, i negri (la traduttrice ci tiene a precisare: «la
parola negro: nelle mie traduzioni ho scelto di non sostituirla con nero, o di
colore, perché nel periodo storico e culturale in cui l’autrice viveva era così
che si parlava»), i mostri, i pazzi e «una tribù di persone che lei riconosce
subito come uguali a lei», composta da coloro «che avevano sempre avuto un po’
di tutto, e l’intelligenza, donata da Dio per farne buon uso […] riconoscibili,
come lo erano sempre stati, per aver fatto dell’ordine, del buon senso e della
rispettabilità la loro bandiera». Eppure «anche le loro virtù stavano divampando
nel fuoco».
Ne La schiena di Parker, il protagonista tenta di conquistare la propria moglie
– una fanatica della setta del Vangelo Corretto – facendosi tatuare sulla
schiena un Cristo bizantino ma viene travolto dall’accusa di idolatria che
quella gli rivolge con veemenza e così, basito e profondamente amareggiato,
non può far altro che mettersi a piangere come un bambino.
Ne Il giorno del giudizio, un anziano impiccione, bistrattato dalla figlia che
lo accudisce, muore dopo essere stato selvaggiamente picchiato da un vicino di
colore che non apprezza la sua eccessiva curiosità e che gli urla contro «“Non
ci credo, a quelle stronzate. Non esiste Gesù e non esiste neanche Dio!”», «“Non
c’è nessun Giorno del Giudizio, vecchio. Tranne questo. Forse questo è il Giorno
del Giudizio, per te”».
Come si può constatare, nei racconti della O’Connor non c’è spazio alcuno per la
redenzione, l’esistenza è un vicolo cieco. Più che di esistenza si potrebbe
parlare di desistenza, di un inevitabile capitolare di fronte all’inesorabile
incedere del destino, al suo oscuro dipanarsi, alle sue ineffabili, sorde e
sordide ragioni.
Gli esseri umani interagiscono fra di loro con fastidio, mal sopportandosi, in
un’incessante idiosincrasia. Più che instaurare relazioni, si pongono
vicendevolmente in un rapporto dialettico irrisolto che non giunge mai a
sintesi. Gli individui più che incontrarsi si scontrano come accade nella sala
d’attesa di Rivelazione. Covano tra di loro un cupo rancore che, a volte,
finisce per sfociare nella rabbia o in comportamenti aggressivi come ne La
veduta del bosco. Una costante delle storie è poi l’intolleranza dei bianchi
nei confronti dei “negri” (l’autrice registra fedelmente gli umori della società
americana), percepiti come creature estranee al corpo della nazione statunitense
e degni di considerazione solo in quanto forza lavoro da sfruttare.
Non c’è più un creatore amorevole che mette sì alla prova le sue creature ma poi
le riporta a sé, nel suo caldo e misericordioso abbraccio, bensì un cattivo
demiurgo, un artefice cieco, un malvagio eone – confinato nelle regioni
inferiori dell’emanazione divina – responsabile del male, che dà vita a un mondo
malvagio, fatto a sua immagine e somiglianza, proprio come nelle prospettazioni
eretiche degli gnostici. Un mondo in cui l’albero della vita della mistica
ebraica è monco: sembra sia stato spezzato il ramo dell’amore e della
misericordia (hesed) che non bilancia più quello opposto, quello della gevurah,
della giustizia inesorabile di Dio (in questo caso un cattivo demiurgo che si
erge a giudice implacabile, un creatore completamente privo di pietas nei
confronti delle sue creature).
Come ha spiegato Hans Jonas (cfr., del medesimo autore, Lo gnosticismo e Dalla
fede antica all’uomo tecnologico), lo gnosticismo è la matrice del moderno
nichilismo: all’acosmismo (ovvero la negazione dell’esistenza di una natura
indipendente da Dio, un dio che assume la veste di un cattivo demiurgo) del
primo si è sostituita l’assenza di Dio, l’indifferenza di Dio e a Dio (è questo,
per il filosofo tedesco, il «vero abisso»). Nel primo caso l’uomo si trova di
fronte una natura demoniaca contro cui deve lottare, nel secondo il gelido nulla
nei confronti del quale non può affatto lottare:
> «Alla natura indifferente della scienza moderna non è concessa nemmeno questa
> qualità antagonistica e da questa natura non ci si può aspettare nessuna
> direzione».
>
> (Hans Jonas, Lo gnosticismo, trad. di Margherita Riccati di Ceva)
Nel moderno nichilismo
> «Dio è stato lentamente relegato ai margini di un’impresa che si afferma come
> esclusivamente umana».
>
> (Alessandro Dal Lago, Introduzione all’edizione italiana, in Hans Jonas, Dalla
> fede antica all’uomo tecnologico)
In ogni caso, l’uomo – come nei racconti della O’ Connor – vive sotto un cielo
spietato, in un’assoluta e angosciante solitudine.
La scrittrice di Savannah colloca anche il lettore in una posizione antinomica –
ulteriore risvolto “gnostico” della sua arte –: il fruitore per conoscere il
bene deve passare attraverso il male, per apprezzare la benevolenza divina deve
esperire un mondo in cui Dio è assente o quanto meno absconditus o indifferente,
se non addirittura malvagio.
Una profonda scissione segnò dunque la vita della O’Connor: non perse mai la
speranza, chiese a Dio di diventare una brava scrittrice e fu accontentata, ma
il mondo che descrive nei suoi racconti è contrassegnato dalla disperazione,
dall’eresia e dal nichilismo. La sua postura è ancipite: da un lato il
cattolicesimo e il mondo reale, dall’altro la gnosi e il mondo narrato. Il Dio
cristiano, sempre presente nella sua vita spirituale, sembra essere latitante
nei suoi racconti.
È forse questo il Punto Omega?: la “Rivelazione” che nel “Giorno del giudizio”
“Gli storpi entreranno per primi” nel regno dei cieli (o nel regno del “gelo”?).
Angelo Guida
L'articolo Flannery O’Connor, il cattivo demiurgo proviene da Pangea.