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“…e io stesso non esisto più”. Divorando il cuore di Strindberg
August Strindberg sta alla solitudine come Marcel Proust sta alla memoria. Parafrasando quello che una volta Walter Benjamin ha detto di Proust, si può dire che per lo scrittore svedese la parte principale non è affatto svolta da ciò che egli ha vissuto, ma dalla tela di Penelope della sua solitudine. D’altra parte basta leggere Solo, il romanzo breve pubblicato nel 1903 per avere conferma di quanto ho appena affermato. Il protagonista-narrante è un cinquantenne vedovo che, dopo avere vissuto per una decina di anni in provincia, torna nella sua città natale, Stoccolma. Qui si trova faccia a faccia con la noia per i vuoti rituali sociali travestiti da normalità e per le futili chiacchiere da caffè con i vecchi amici di un tempo, così sceglie deliberatamente l’isolamento ed elegge la solitudine come il luogo più autentico dove realizzare se stesso. Affitta una camera ammobiliata da cui esce solo per delle brevi passeggiate, evitando ogni rapporto con il prossimo che non sia quello puramente formale della sopravvivenza quotidiana. Non vuole avere niente a che fare con quello che gli altri chiamano progresso, civiltà, normalità.  Per molti versi Solo è la rappresentazione del conflitto insanabile tra la società e l’individuo. > «Nel rompere i contatti con gli altri ebbi dapprima l’impressione di perdere > energia, ma intanto il mio io cominciava come a coagularsi, ad addensarsi > intorno a un nucleo in cui si riunivano, si fondevano le mie sensazioni, e la > mia anima le assorbiva come nutrimento. Inoltre mi abituai a dare corpo a > qualsiasi cosa vedessi o udissi in casa, per la strada o nella natura, e nel > trasferire ogni mia percezione al lavoro in corso sentivo crescere il mio > capitale; così, gli studi che facevo in solitudine risultavano più > significativi degli studi sulla gente nella mia vita di società.» Quella dell’io-narrante di Solo è una solitudine voluta e ricercata, una solitudine allo stato puro, tonica, fortificante, tutta tesa a riassaporare idee, ricordi e istanti vissuti sotto un’ottica diversa. Una condizione che nella visione di Strindberg è essenziale per conoscere se stessi, ritrovarsi e approfondire la propria identità.  Coprotagonista assoluta del romanzo è Stoccolma, rappresentata nello scorrere dei giorni, dei mesi, delle stagioni, dalle luminose e interminabili serate estive alle cupe e brevi giornate invernali e alla quale l’autore si abbandona senza opporre resistenza.  > «È di nuovo inverno, il cielo è grigio e la luce viene dal basso, dalla neve > candida per terra.» Case e strade hanno il potere di stimolare sensazioni del tutto particolari. In una delle scene più belle di Solo il protagonista ritorna per qualche minuto in una casa dove aveva abitato molti anni prima e nel suo animo riprendono vita le speranze e le paure di quando era giovane. Come dice bene Franco Perrelli nella acuta e penetrante introduzione al romanzo presente nell’edizione di Carbonio, in Solo «Stoccolma è soprattutto un luogo intimo, che vibra dentro e con il suo essere». In questo mare di solitudine però affiorano delle isole di socialità. In modo in apparenza del tutto involontario il personaggio narrante ha delle frequentazioni con quelle che lui definisce le “conoscenze impersonali”; sono gli estranei incrociati per caso in strada oppure visti di sfuggita attraverso le finestre illuminate di una casa. Ecco che allora, quasi per magia, quelle figure intraviste solo per qualche istante diventano la scintilla per accendere l’immaginazione del protagonista, che in questo modo approfitta della solitudine in cui è immerso per trasformare e potenziare a dismisura il proprio io.  Un processo con un fascino del tutto particolare e anche un po’ inquietante. Leggete la citazione che segue e ditemi se non è vero che per molti versi fa venire alla mente, mutatis mutandis, la metamorfosi raccontata da Stevenson ne Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde:  > «Quando però torno a casa e mi siedo alla scrivania mi sento veramente vivo… > sguscio fuori dalla mia persona e parlo come fossi un bambino, una donna o un > vecchio: sono re e mendicante, sono il signore potente, il tiranno e il più > disprezzato, il ribelle sconfitto; qualsiasi opinione mi appartiene e > qualsiasi religione è la mia; vivo in qualsiasi epoca, e io stesso non esisto > più.» Chi lo conosce e ha letto un po’ dei suoi libri sa bene che esistono molti Strindberg diversi: ildrammaturgo, il romanziere, il botanico, il chimico e persino l’occultista. La sua è stata una personalità complessa e tormentata che ha attraversato molte crisi, e così abbiamo avuto lo Strindberg antifemminista, quello ateo, il precursore dell’autoanalisi psicologica, lo scrittore naturalista e quello espressionista, il mistico seguace di Swedenborg e poi di Nietzsche. Quello che incontriamo in Solo è uno Strindberg lontano dai toni veementi e dalle furie selvagge per cui è più conosciuto. Le sue proverbiali invettive qui lasciano il posto a toni più sommessi, i suoi furori misogini vengono messi in disparte per lasciare spazio a tormenti più intimi e personali. Lo Strindberg brutale misantropo dei tanti drammi teatrali che ha scritto, il tormentato visionario delle sue opere più autobiografiche si prende una pausa di riflessione e preferisce volgersi verso le sfumature più sensibili del proprio animo. In Solo Strindberg ha deposto la sciabola dell’invettiva per affidarsi al fioretto della poesia. In queste poco più di cento pagine prima ancora del suono della sua voce sentiamo i battiti del suo cuore. Silvano Calzini L'articolo “…e io stesso non esisto più”. Divorando il cuore di Strindberg proviene da Pangea.
June 18, 2025 / Pangea
Torgny Lindgren, l’UE e il mistero dello snus
Comunque, per fare qualche altro nome: Virginia Woolf, Peter Handke e Torgny Lindgren. Così risponde Jon Fosse alla domanda di Eskil Skjeldal, “Quali scrittori sono stati importanti per te?”, in Il mistero della fede, testo-intervista del 2015 tradotto da Margherita Podestà Heir e pubblicato da Baldini+Castoldi nel 2024. La Woolf non bisogna averla letto per sapere chi sia stata, se si è di quelli che leggono o che si spacciano per tali, e Handke è lo scrittore che leggo compulsivamente nell’ultimo paio d’anni, ma: Torgny Lindgren? Sprovveduto io o non è tra i soliti noti sul versante italiano – come del resto non lo era Fosse stesso, prima che il Nobel desse l’impulso all’editoria che pubblica i premiati eccellenti. Per Wikipedia, la prima fonte a tiro, Lindgren è uno scrittore svedese morto nel 2017 che ha ottenuto la consacrazione “con la pubblicazione de Il sentiero del serpente sulla roccia”. Leggi Wikipedia e di Lindgren ne sai quanto prima, un quasi nulla, tranne che è stato uno scrittore importante per Jon Fosse, al pari della Woolf e di Handke. Bisogna leggerlo, bisogna leggere uno scrittore che nella considerazione di Jon Fosse è importante quanto Virginia Woolf e Peter Handke, fosse solo per non essere d’accordo, per restare nell’incomprensione, nel mistero della letteratura che, come per tutti i misteri, per taluni è baggianata e per altri uno stare sull’orlo di un abisso.  Se per Fosse “scrivere è una specie di lode, anche nella poesia più buia, una lode del linguaggio”, come scrive Torgny Lindgren, cosa scrive? In Perdonami madre di Jacques Chessex per Armando Dadò editore mi aveva ha colpito il paratesto iniziale in cui si esplicita “l’intendimento” della collana in cui è stato pubblicato, I cristalli – Helvetia Nobilis: “L’intendimento è che questi testi contribuiscano a una riflessione sull’identità elvetica e sul lungo cammino che ha portato al formarsi dello Stato attuale.” Secondo l’editore la Svizzera è la sua letteratura. Così come l’Italia è la sua letteratura – finché ne ha avuta e ne vorrà avere una. La letteratura dà un’identità a chi ne cerca una, eventualmente per potersene poi disfare, ma qualcosa di cui potersi disfare deve essere data, prima. Datemi un punto di appoggio e il mondo potrò o sollevarlo o sprofondarlo ma niente punto d’appoggio niente mondo. E l’Europa? L’Europa, per dirne una, non è e non può essere il suo riarmo, non può consolidarsi nel segno del terrore di essere smantellata, distrutta, per quanto legittimo possa essere il suo terrore di esserlo. Un’identità fondata sul terrore è terribile di suo, è meglio perderla prima ancora di essersela data. E l’Europa per fondarsi sul terrore non ha mica dovuto attendere la Russia di Putin. La Fortezza Europa aka Bastiani si fonda sull’ansia securitaria fin da subito, sulla sua paura di sparire, sullo spavento si noti la sua insignificanza sopraggiunta.     L’identità europea moderna e contemporanea però potrebbe fondarsi tanto sulla Woolf quanto su Handke. E in che misura Torgny Lindgren contribuisce, può contribuire, all’identità europea, dunque anche alla mia che neppure sapevo del suo contribuito, poiché sempre a detta di Fosse: “Tutti traggono beneficio dalla matematica più avanzata, anche se non la comprendono, e tutti traggono beneficio della migliore letteratura, anche se in apparenza non ne ricavano nulla”? Cosa si ricava da Torgny Lindgren? “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso”, così scrive in Miele, del 1995, pubblicato da Giano nel 2002, nella traduzione di Carmen Giorgetti Cima.  È un passaggio narrativo nei paraggi dell’incipit, in auto ci sono le prime due entità della trinità che domina il romanzo. In auto ci sono “la donna sola di quarantacinque anni, una forestiera che veniva dal sud del paese e che aveva scritto dei libri sull’amore e sulla morte e sui santi”, scrittrice di pochissimi lettori, e l’uomo incaricato di ospitarla, che “portava una giacca di pelle nera sopra la camicia scozzese” e che “Puzzava di putrefazione.” La donna resterà innominata mentre l’uomo “Le confidò il suo nome, Hadar” e in quella scelta del verbo, nella sua resa italiana, in quel ‘confidò’ si sente tutta una tradizione letteraria sul potere magico del nome proprio, sul suo potere segreto. Miele rintocca di riflessioni sul mistero dell’essere al mondo.  Niente è ancora accaduto eppure tutto è già accaduto. Miele è un romanzo con le sue vicende, come tutti, ma è pure tutt’altro, un libro di sentenze, un libro sul mistero del tempo, “Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti”, sul mistero delle cose come la neve che è “una spuma di luce trasformata in materia”, sul mistero del corpo umano che consiste “di un’unione armoniosa di mobile e rigido, di fluido e solido, muco e smalto(…).”  Si può andare avanti, dire che Miele è “l’avventura del momentaneo prolungamento della vita”, la storia dei due fratelli Hadar e Olaf che sopravvivono grazie all’odio reciproco, come l’umanità di solito ecco, ma preferisco fermarmi prima poiché l’ho sentito da subito, dall’inizio, cosa si ricava leggendo Torgny Lindgren, al primo scambio tra la forestiera del sud e l’uomo in putrefazione del nord: >  “Tutti i paesaggi e le strade che vi serpeggiano hanno le loro peculiarità e > caratteristiche (…) Hanno le loro imperfezioni e loro difetti.” > > “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso.” Questa strada è la nostra vicenda umana stretta e dritta che attraversa la Storia mondiale sconnessa. Questo è il mistero della letteratura che rende amaro persino il miele, dolce persino la putrefazione.  Quanto più sarebbero temibili gli europei se i miliardi invece che in armi li spendessero in politica culturale, in letteratura, cinema, arte e via andare. Certo a nulla servirebbe per renderci indistruttibili ma nessuno più lo è o può più esserlo nell’epoca sorta e mai più tramontabile della Bomba:  > “L’età atomica non è mai finita. Abbiamo forse smesso di pensarla, presi dalla > fantasia di pace eterna del momento unipolare americano. Eppure l’epoca > apertasi nel 1945 non solo non è finita, ma è anzi «definitiva» nel senso del > tutto particolare che le attribuiva Günther Anders: al suo interno la storia > umana può giungere a termine”. > > da Se la bomba non ci protegge più della bomba, di Agnese Rossi, in “Limes” > 1,2025.  Non potremo mai più essere indistruttibili, imbattibili, d’altronde non lo siamo mai stati, ma potremmo diventare invitti perché non più orwellianamente manipolabili a piacere. Quando ci si è dati un’identità non resta poi molto altro che possano portarti via, se non la vita – ma la vita alla lunga che non è poi chissà quanto lunga bisogna renderla in ogni caso. L’identità almeno sarà servita a darti un senso, la sua invenzione, tra il nulla di prima e il nulla di dopo, perché poi Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti. E prima di nascere, idem. Per essere europei bisogna essere anti UE? Con Fosse  > “L’intero progetto dell’UE è antieuropeo, l’essenza dell’Europa è la > diversità, in tutti i sensi, mentre l’UE rappresenta, se non proprio > l’uniformità, sicuramente l’omologazione (…). È scandaloso. L’omologazione, > che sia dettata dal potere del denaro, da decisioni politiche o dalla > burocrazia, mi ripugna profondamente. Io sono un grande sostenitore > dell’Europa ed è proprio per questo che sono contro l’UE.”  Per dovere di verità va precisato che Fosse trovava scandaloso il divieto di vendita dello snus, tabacco svedese, nel 2015 il ReArm Europe plan era di là da venire. Il divieto di vendita dello snus è scandaloso, sia, ma pure il ReArme Europe plan per com’è stato escogitato non scherza. Quanto è illusorio immaginarsi, grazie alla letteratura, come persone circondate dal mistero impenetrabile di un’identità che ciascuno potrebbe reinventarsi ma soltanto secondo il proprio piacere mai imposto, mai imponibile? …Il dilemma dell’identità, per di più, non è che non abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, ammesso ne abbia mai risolto qualcuno, ma per l’identità vale come per la Bomba. Per dirlo con altre parole di Agnese Rossi – che le pronuncia a proposito della teoria della deterrenza nucleare – giocare con la teoria dell’identità “continuerà a servire finché esisteranno le armi atomiche. Cioè ancora per molto tempo, visto che è impossibile disinventarle.” Disinventare il feticcio dell’identità è impossibile ma inventarsene di altre e di nuove sì, è possibile. È il compito e il mistero della letteratura. Perché non possiamo continuare a vivere così ma continueremo a vivere così lo stesso. antonio coda *In copertina: Eva Bonnier, Geor Pauli. Studio, 1884 ca. 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April 1, 2025 / Pangea