Se nel Novecento inglese non sono mancati gli esempi di sacerdoti cattolici
votati alla letteratura, come R. H. Benson, Ronald Knox o John Ayscough, di
certo Sylvester Houédard ne è stato il rappresentante più eccentrico, monaco
benedettino e poeta della Beat Generation.
Classe 1924, Pierre-Thomas-Paul Joseph Houédard – Sylvester è il nome assunto da
religioso – era nato a Guernsey, una piccola isola nel canale della Manica, da
una famiglia di origini francesi. Sin da ragazzo dimostrò una non comune
vivacità intellettuale che si associava a una profonda devozione. Nel 1977, in
un articolo per il «Tablet» intitolato Memories of a Catholic Childhood,
raccontò del suo amore di allora per la liturgia latina e di come volentieri
accompagnasse la madre alla messa domenicale.
Rimasto orfano, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale fu costretto a
trasferirsi nel Lancashire con il fratello maggiore, pilota della RAF, purtroppo
destinato a morire in combattimento poco tempo dopo. Nel 1941 riuscì a ottenere
l’ingresso al Jesus College di Oxford, dove studiò storia moderna, e venne
nominato presidente della prestigiosa Newman Society, in prima fila nell’animare
la pastorale cattolica in università.
Intanto Houédard iniziava a scorgere nel proprio animo i chiari segnali di una
vocazione religiosa e perciò volle recarsi in visita al monastero di Prinknash,
vicino a Gloucester, dove, di lì a poco, sarebbe entrato come novizio l’amico
Victor Brooke, nipote del famoso generale Lord Alanbrooke.
Sul finire della guerra fu chiamato a operare in Asia per conto
dell’Intelligence e, per un breve periodo, lavorò al Ministero
dell’Alimentazione. Data la pessima calligrafia dovuta alla meningite e
all’artrite reumatoide di cui aveva sofferto da piccolo, finì per essere
costretto a usare sistematicamente la macchina da scrivere: non è esagerato
affermare che senza la scoperta di quel prezioso strumento la sua successiva
carriera d’autore non sarebbe mai iniziata.
Una volta congedato, Houédard ritornò a Oxford per completare il suo percorso di
studi, dopodiché nel 1949 fu libero di indossare l’abito monacale. Prima di
entrare a Prinknash, regalò agli amici ciò che possedeva e a Christopher
Tolkien, terzogenito dell’autore de Il Signore degli Anelli, toccò un bastone da
passeggio in ebano, con un pomello d’avorio finemente intarsiato, che si diceva
fosse appartenuto all’Imperatore d’Abissinia.
Tra il 1951 e il 1954 studiò al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma,
scrivendo una tesi sulla libertà nell’opera di Sartre, e nel 1959 venne ordinato
sacerdote.
Al di là dei meriti squisitamente ecclesiastici – scrisse di teologia, collaborò
con diverse case editrici cattoliche e curò la pubblicazione, nel 1966,
della Bibbia di Gerusalemme – Houédard si distinse per essere stato tra i
principali interpreti della cosiddetta “poesia concreta” (concrete poetry), una
delle tante manifestazioni artistiche germogliate in seno
al milieucontroculturale degli anni Sessanta e Settanta.
Teorizzata dal brasiliano E. M. de Melo e Castro, la “poesia concreta” sposta
l’attenzione dal contenuto del testo ai suoi elementi costitutivi, che sono
parole, sillabe e fonemi di cui si esalta la dimensione tipografica, variamente
valorizzati mediante la disposizione sul foglio o anche su materiali diversi
dalla carta. L’intento, sulla falsariga delle prove futuriste, è quello di
scomporre il linguaggio tradizionale per donargli una dimensione visiva e sonora
inedita, con un esito che si situa a metà strada tra la letteratura e l’arte
figurativa.
La lettera-manifesto di E. M. de Melo e Castro, apparsa sul «Times Literary
Supplement» nel 1962, incoraggiò un drastico cambio di direzione nella poesia di
Houédard, fino a quel momento limitata a componimenti semi-confessionali in
versi liberi. Le possibilità offerte dalla “poesia concreta” dettero pure un
nuovo contesto agli arabeschi che andava producendo sin dagli anni Quaranta con
la sua fidata macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 22.
Houédard realizzò la quasi totalità dei suoi lavori nell’arco di una decina
d’anni, tutti firmati con l’acronimo “dsh” (Dom Sylvester Houédard). Li chiamò
“poemi visivi” o “typestracts”, una crasi tra typewriter e abstractsuggeritagli
dall’amico Edwin Morgan. Fu pertanto molto prolifico, ma solo per un periodo
relativamente limitato, collaborando con numerose riviste, gruppi artistici e
piccole realtà teatrali. Inoltre fu un conferenziere instancabile e le sue opere
vennero esposte sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.
Inevitabilmente il suo stato ambiguo di monaco e autore, o, secondo una
fortunata definizione, di «seguace della cultura Beat venuto dal Medioevo», non
mancò di procurare qualche malumore a Prinknash, anche perché il suo legame col
movimento controculturale lo portò a schierarsi politicamente e a occuparsi di
tematiche sessuali in termini un po’ troppo espliciti.
In generale Houédard predicava una visione teologica e artistica la più
inclusiva possibile. Fu un pioniere del dialogo ecumenico, un appassionato
studioso di Islam, di religioni orientali e del mistico Meister Eckhart, e nei
suoi articoli, privi di punteggiatura e zeppi di segni grafici inusuali,
sostenne sempre la necessità di fondere le arti, sintetizzandole in un prodotto
omnicomprensivo. La macchina da scrivere cosmica a cui allude il titolo del
volume curato da Nicola Simpson nel 2012, Notes from the Cosmic Typewriter, ad
oggi lo studio migliore sulla vita e le opere del benedettino, fa appunto
riferimento a una poesia concepita come preghiera, anti-dogmatica, senza limiti,
intesa a cogliere frammenti di quello spirito universale che è Dio.
Sebbene Houédard fosse un tipo schivo, più interessato a sostenere gli scrittori
emergenti che alle luci della ribalta, godette anch’egli del proverbiale quarto
d’ora di celebrità: una sua foto apparve su «Vogue» ed entrò in contatto con un
numero così elevato di letterati e artisti, tra cui Allen Ginsberg, William S.
Burroughs, Jack Kerouac, Yoko Ono e John Cage, che la sua rubrica telefonica
pare contasse quasi tremila nomi. Non è dunque una sorpresa scoprirlo tra gli
spettatori in presenti alla Albert Hall, nel 1965, in occasione della prima
International Poet Incarnation (il suo volto glabro, seminascosto dagli
immancabili occhiali da sole, fa capolino nel filmato dell’evento, The Wholly
Communion, diretto da Peter Whitehead).
Houédard morì nel 1992, all’età di sessantasette anni, e il suo corpo venne
sepolto nel parco del nuovo monastero, dove i benedettini si erano trasferiti
vent’anni prima. Secondo l’ex abate Aldhelm Cameron-Brown, malgrado il
confratello fosse un tipo peculiare,
> «era pur sempre una persona adorabile, ed era dedito alla comunità, anche se
> sentiva che non sempre apprezzavamo quello che stava facendo. […]. A suo modo
> condusse una vita piena di Fede».
Luca Fumagalli
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