Nel 1950, scrivendo una recensione di The Lost Traveller, il secondo romanzo di
Antonia White, Evelyn Waugh colse l’occasione per dire la sua sulla letteratura
cattolica:
> «Molti hanno iniziato a dubitare che esista una cosa del genere. Ebbene, qui
> si può trovare in una forma completa e splendida. […] I personaggi sono tutti
> permeati dalla fede. Dio è l’influenza suprema nelle loro vite, […] e quando
> vi è la minaccia di un disastro, tutti si rivolgono alla preghiera. La loro
> religione è la loro vita, sebbene superficialmente siano occupati con altro.
> Non si tratta di “trascinare il cattolicesimo dentro”. È sempre lì, al centro
> della storia».
Per quanto poco conosciuta in Italia, la White – pseudonimo di Eirene Botting –
è stata una delle personalità più rappresentative di quella letteratura di marca
“papista” che conobbe una certa diffusione nella Gran Bretagna del Novecento, in
particolare nella prima metà del secolo.
La sua fu un’esistenza travagliata, segnata non solo dalla cronica mancanza di
denaro, ma anche da tre matrimoni falliti, da un rapporto complicato con le
figlie e da una serie di frustranti impieghi d’ufficio che le toglievano tempo
ed energie per la scrittura. Persino la sua fede, abbracciata da bambina in
seguito alla conversione dei genitori, non fu sempre salda e per parecchi anni
smise di praticarla. Infine, dovette sopportare pure il peso di una grave
malattia psicologica, da lei ribattezzata «la bestia», che minò non poco le sue
potenzialità creative (la questione è stata recentemente analizzata nel
dettaglio da Patricia Moran nel volume Antonia White and Manic-Depressive
Illness). Come sottolinea Jane Dunn, autrice di Antonia White: A Life, quello
della inglese
> «è un dramma di vasta portata che abbraccia grandi questioni di fede, i
> bisogni dell’anima, la lotta per diventare sia scrittrice che donna;
> l’impossibilità di essere moglie e madre quando si combatte per la propria
> sanità mentale».
Da ciò deriva la scarsità della sua bibliografia, che comprende quattro romanzi
parzialmente autobiografici, un epistolario, una manciata di poesie, qualche
articolo, delle traduzioni dal francese e una smilza raccolta di racconti; a
questi lavori vanno aggiunti due libri per bambini con protagonista una coppia
di gatti – gli animali preferiti della White – il primo dei quali, Mila e Cuor
di Leone, è ad oggi l’unica sua opera ad essere stata tradotta in italiano.
Nata nel 1899, tutto o quasi del suo destino umano e letterario fu deciso
nell’infanzia, quando venne mandata a studiare presso la scuola femminile
annessa al Convento del Sacro Cuore, a Roehampton, dove le suore, il cui ordine
era stato fondato da una santa francese, erano famose per mantenere una
disciplina ferrea. Lì imparò ad amare i libri e volle provare, appena
quindicenne, a scrivere un romanzo. Nelle sue intenzioni doveva essere la
classica storia di un peccatore che cambia vita; peccato, però, che il
manoscritto, ancora fermo alla prima parte, quando il protagonista è immerso nel
vizio, venne scoperto e giudicato scandaloso. La conseguente espulsione fu un
duro colpo e da allora la White non fu più in grado di mettere nero su bianco
nulla che non fosse in qualche modo legato alla propria esperienza personale. A
questo si aggiungeva un perfezionismo esasperato che la portava a riempire le
pagine di così tante correzioni da renderle quasi illeggibili, causandole di
riflesso parentesi intermittenti di blocco della scrittura.
Terminati gli studi alla St Paul’s Girls’ School, dopo vari rovesci sentimentali
e un ricovero di nove mesi in un ospedale psichiatrico, nel 1933 vide la luce il
suo primo e più famoso romanzo, Frost in May, oggi considerato un classico della
narrativa a sfondo scolastico, sebbene privo del lieto fine che solitamente
caratterizza il genere. La storia vanta uno stile limpido, distaccato, e
racconta le giornate di Nanda Gray, un’alunna del collegio cattolico di
Lippington, da cui però è infine allontanata a causa di uno spiacevole
incidente. Il titolo, suggerito all’autrice da un articolo sulle rose trovato in
una rivista di giardinaggio, sottolinea l’infelice destino di Nanda, a cui si
accompagna una critica non tanto alla Chiesa quanto all’autoritarismo e alla
miopia di un’istituzione educativa al limite del sadismo.
Durante la Seconda guerra, segnata da un’esistenza che non le aveva risparmiato
nulla, tornò definitivamente al cattolicesimo, una decisione motivata per esteso
in un volume del 1965, The Hound and the Falcon, che contiene una serie di
missive scambiate tra il 1940 e il 1941 con il sessantenne giornalista Peter
Thorp, ex seminarista che come lei aveva da poco riscoperto la fede.
Anche se la scrittrice seguitò a non condividere alcuni aspetti della dottrina,
specie quelli legati al sesso, e le sue simpatie erano tutte per gli
intellettuali più divisivi, mosse diverse critiche alle riforme liturgiche
introdotte a seguito del Concilio Vaticano II, ritenute impoverenti:
> «Nella messa ormai non c’è più spazio per il silenzio. Quando sono andata alla
> messa solenne in latino, sono stata profondamente scossa da un moto di
> nostalgia, [ma] sono stata pure colpita da quanto la liturgia abbia perso
> nella versione scarna che abbiamo oggi. Tutto quel lento e riverente rituale
> dà il tempo di apprezzare il significato mistico della messa. E persino
> l’ammirevole preoccupazione per le ingiustizie della società e gli ardenti
> preti “rivoluzionari” sembrano dare troppa enfasi a quello che si potrebbe
> definire il lato “materiale” del cattolicesimo – o forse “l’amore per il
> prossimo” a danno dell’amore per Dio».
Nel frattempo, grazie anche al supporto di alcuni amici scrittori come David
Gascoyne, Dylan Thomas e Graham Greene, dopo anni di gestazione, la White era
finalmente riuscita a pubblicare l’attesissimo seguito di Frost in May,
intitolato The Lost Traveller, a cui erano seguiti The Sugar House (1952)
e Beyond the Glass (1954). La protagonista, ribattezzata Clara, ancora una volta
ripercorre più o meno le medesime tappe esistenziali della sua autrice, finendo
per essere ricoverata a causa di un crollo nervoso.
I romanzi, di impianto troppo tradizionale per colpire i critici alla moda,
vennero accolti tiepidamente, col risultato che la White, oltremodo delusa,
lasciò incompiute le bozze di un quinto libro della serie, conosciuto col titolo
provvisorio di Julian Tye o Clara IV, e preferì trasferirsi per un periodo negli
Stati Uniti, occupando la cattedra di scrittura creativa al Saint Mary’s
College, affiliato alla Notre Dame University.
A salvarla dall’oblio letterario ci pensò Carmen Callil, fondatrice della Virago
Press, incontrata alla fine degli anni Settanta. Quest’ultima fece
ripubblicare Frost in May e i suoi seguiti garantendo alla scrittrice, di cui
divenne anche agente, una fama mai goduta prima.
Dopo la morte della White, avvenuta nel 1980, videro la luce il frammento
autobiografico As Once in May – incentrato sui suoi primi anni di vita– e i
diari, raccolti in due volumi. Nel 1982 la BBC acquistò i diritti dei romanzi e
ne trasse una miniserie in quattro episodi.
Grazie alla Virago, ancora oggi in prima linea nella promozione di una
letteratura “al femminile”, la scrittrice in perenne crisi creativa continua,
almeno in Inghilterra, a essere letta e amata. C’è da esser certi che nulla
l’avrebbe resa più felice.
Luca Fumagalli
L'articolo “I bisogni dell’anima”. Antonia White, una scrittrice “papista”
contro il Concilio Vaticano II proviene da Pangea.
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Se nel Novecento inglese non sono mancati gli esempi di sacerdoti cattolici
votati alla letteratura, come R. H. Benson, Ronald Knox o John Ayscough, di
certo Sylvester Houédard ne è stato il rappresentante più eccentrico, monaco
benedettino e poeta della Beat Generation.
Classe 1924, Pierre-Thomas-Paul Joseph Houédard – Sylvester è il nome assunto da
religioso – era nato a Guernsey, una piccola isola nel canale della Manica, da
una famiglia di origini francesi. Sin da ragazzo dimostrò una non comune
vivacità intellettuale che si associava a una profonda devozione. Nel 1977, in
un articolo per il «Tablet» intitolato Memories of a Catholic Childhood,
raccontò del suo amore di allora per la liturgia latina e di come volentieri
accompagnasse la madre alla messa domenicale.
Rimasto orfano, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale fu costretto a
trasferirsi nel Lancashire con il fratello maggiore, pilota della RAF, purtroppo
destinato a morire in combattimento poco tempo dopo. Nel 1941 riuscì a ottenere
l’ingresso al Jesus College di Oxford, dove studiò storia moderna, e venne
nominato presidente della prestigiosa Newman Society, in prima fila nell’animare
la pastorale cattolica in università.
Intanto Houédard iniziava a scorgere nel proprio animo i chiari segnali di una
vocazione religiosa e perciò volle recarsi in visita al monastero di Prinknash,
vicino a Gloucester, dove, di lì a poco, sarebbe entrato come novizio l’amico
Victor Brooke, nipote del famoso generale Lord Alanbrooke.
Sul finire della guerra fu chiamato a operare in Asia per conto
dell’Intelligence e, per un breve periodo, lavorò al Ministero
dell’Alimentazione. Data la pessima calligrafia dovuta alla meningite e
all’artrite reumatoide di cui aveva sofferto da piccolo, finì per essere
costretto a usare sistematicamente la macchina da scrivere: non è esagerato
affermare che senza la scoperta di quel prezioso strumento la sua successiva
carriera d’autore non sarebbe mai iniziata.
Una volta congedato, Houédard ritornò a Oxford per completare il suo percorso di
studi, dopodiché nel 1949 fu libero di indossare l’abito monacale. Prima di
entrare a Prinknash, regalò agli amici ciò che possedeva e a Christopher
Tolkien, terzogenito dell’autore de Il Signore degli Anelli, toccò un bastone da
passeggio in ebano, con un pomello d’avorio finemente intarsiato, che si diceva
fosse appartenuto all’Imperatore d’Abissinia.
Tra il 1951 e il 1954 studiò al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma,
scrivendo una tesi sulla libertà nell’opera di Sartre, e nel 1959 venne ordinato
sacerdote.
Al di là dei meriti squisitamente ecclesiastici – scrisse di teologia, collaborò
con diverse case editrici cattoliche e curò la pubblicazione, nel 1966,
della Bibbia di Gerusalemme – Houédard si distinse per essere stato tra i
principali interpreti della cosiddetta “poesia concreta” (concrete poetry), una
delle tante manifestazioni artistiche germogliate in seno
al milieucontroculturale degli anni Sessanta e Settanta.
Teorizzata dal brasiliano E. M. de Melo e Castro, la “poesia concreta” sposta
l’attenzione dal contenuto del testo ai suoi elementi costitutivi, che sono
parole, sillabe e fonemi di cui si esalta la dimensione tipografica, variamente
valorizzati mediante la disposizione sul foglio o anche su materiali diversi
dalla carta. L’intento, sulla falsariga delle prove futuriste, è quello di
scomporre il linguaggio tradizionale per donargli una dimensione visiva e sonora
inedita, con un esito che si situa a metà strada tra la letteratura e l’arte
figurativa.
La lettera-manifesto di E. M. de Melo e Castro, apparsa sul «Times Literary
Supplement» nel 1962, incoraggiò un drastico cambio di direzione nella poesia di
Houédard, fino a quel momento limitata a componimenti semi-confessionali in
versi liberi. Le possibilità offerte dalla “poesia concreta” dettero pure un
nuovo contesto agli arabeschi che andava producendo sin dagli anni Quaranta con
la sua fidata macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 22.
Houédard realizzò la quasi totalità dei suoi lavori nell’arco di una decina
d’anni, tutti firmati con l’acronimo “dsh” (Dom Sylvester Houédard). Li chiamò
“poemi visivi” o “typestracts”, una crasi tra typewriter e abstractsuggeritagli
dall’amico Edwin Morgan. Fu pertanto molto prolifico, ma solo per un periodo
relativamente limitato, collaborando con numerose riviste, gruppi artistici e
piccole realtà teatrali. Inoltre fu un conferenziere instancabile e le sue opere
vennero esposte sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.
Inevitabilmente il suo stato ambiguo di monaco e autore, o, secondo una
fortunata definizione, di «seguace della cultura Beat venuto dal Medioevo», non
mancò di procurare qualche malumore a Prinknash, anche perché il suo legame col
movimento controculturale lo portò a schierarsi politicamente e a occuparsi di
tematiche sessuali in termini un po’ troppo espliciti.
In generale Houédard predicava una visione teologica e artistica la più
inclusiva possibile. Fu un pioniere del dialogo ecumenico, un appassionato
studioso di Islam, di religioni orientali e del mistico Meister Eckhart, e nei
suoi articoli, privi di punteggiatura e zeppi di segni grafici inusuali,
sostenne sempre la necessità di fondere le arti, sintetizzandole in un prodotto
omnicomprensivo. La macchina da scrivere cosmica a cui allude il titolo del
volume curato da Nicola Simpson nel 2012, Notes from the Cosmic Typewriter, ad
oggi lo studio migliore sulla vita e le opere del benedettino, fa appunto
riferimento a una poesia concepita come preghiera, anti-dogmatica, senza limiti,
intesa a cogliere frammenti di quello spirito universale che è Dio.
Sebbene Houédard fosse un tipo schivo, più interessato a sostenere gli scrittori
emergenti che alle luci della ribalta, godette anch’egli del proverbiale quarto
d’ora di celebrità: una sua foto apparve su «Vogue» ed entrò in contatto con un
numero così elevato di letterati e artisti, tra cui Allen Ginsberg, William S.
Burroughs, Jack Kerouac, Yoko Ono e John Cage, che la sua rubrica telefonica
pare contasse quasi tremila nomi. Non è dunque una sorpresa scoprirlo tra gli
spettatori in presenti alla Albert Hall, nel 1965, in occasione della prima
International Poet Incarnation (il suo volto glabro, seminascosto dagli
immancabili occhiali da sole, fa capolino nel filmato dell’evento, The Wholly
Communion, diretto da Peter Whitehead).
Houédard morì nel 1992, all’età di sessantasette anni, e il suo corpo venne
sepolto nel parco del nuovo monastero, dove i benedettini si erano trasferiti
vent’anni prima. Secondo l’ex abate Aldhelm Cameron-Brown, malgrado il
confratello fosse un tipo peculiare,
> «era pur sempre una persona adorabile, ed era dedito alla comunità, anche se
> sentiva che non sempre apprezzavamo quello che stava facendo. […]. A suo modo
> condusse una vita piena di Fede».
Luca Fumagalli
L'articolo «Un Beat venuto dal Medioevo»: storia di Sylvester Houédard, monaco e
poeta proviene da Pangea.