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“Io amo la vita”. Inseguendo Attilio Bertolucci, ovvero: storia familiare con aquila
Sull’arco, in pietra: D P B 1794. Rombano le cicale, alberi pachiderma – in basso, uno fa manovra col trattore. Dopo il chiostro, davanti all’avita dimora, stessa iscrizione, diversa la data: “ora segna una P e una B,/ una croce sottile, un Anno Domini 1798,/ e ha finito”. Così scrive Attilio Bertolucci nel primo, folgorante capitolo del “Romanzo famigliare” La camera da letto, poema imperiale, difforme, “che ha la freschezza delle cose nate en plein air e la flessibilità liquida dell’action painting” (Paolo Lagazzi); edito da Garzanti tra il 1984 e il 1988, scandito da novemila e quattrocento versi, è uno dei libri ‘impossibili’ della poesia italiana.  Il primo dei quarantasei capitoli in cui è suddiviso – forse il più bello – s’intitola Fantasticando sulla migrazione dei maremmani; Bertolucci proviene da un’antica famiglia di allevatori di cavalli trasferitasi sull’Appennino parmense. Una nota del “Patrimonio culturale dell’Emilia Romagna” dice che i Bertolucci sono a Casarola “fin dal 1500”; la casa è stata costruita da don Pietro Bertolucci: domina sul minuscolo borgo, confitto tra i boschi. Il papà di Attilio, Bernardo, diede agio alla famiglia: sagace nell’arte del commercio, fu, tra l’altro, presidente della Banca emiliana. Attilio, il poeta, nasce nel novembre del 1911 poco fuori Parma, a San Prospero.  Casarola, frazione di Monchio delle Corti, dista sessanta chilometri da Parma: bisogna passare per Langhirano, poi svoltare a Corniglio. D’improvviso, i boschi ti inghiottono – querce, faggi, castagni in regale assetto. Qualcuno, più tardi, mi dirà dell’odore penetrante del castagno, un odore che frastornava i sogni di Bernardo, il figlio di Attilio, il grande regista. Un cartello intima “Strada bloccata”; bisogna andare oltre. L’abisso, ai margini della strada, spaura, impone una vita cervide. I paesi, ora, hanno nomi araldici, non istruiti da mappe o da gps: Svizzo, Grammatica, Riana… In una poesia devotamente nota, Verso Casarola (raccolta in una delle raccolte più alte, Viaggio d’inverno), il poeta cita Montebello, Bellasola e Villula. Con nitore omerico, il poeta dice di Casarola “ricca d’asini di castagni e di sassi”, dice di un cielo in cui si mescolano “fumo e stelle”. Una trentina i residenti, nessun negozio, la mitica “Trattoria Tramaloni” ha chiuso qualche anno fa, all’era del covid. Per fortuna, il cellulare non prende.  Casarola: la dimora settecentesca dei Bertolucci Nessun poeta italiano ha stretto un rapporto così consustanziale con un luogo come Attilio Bertolucci con Casarola. Si può dire, in effetti, che l’opera poetica di Bertolucci sia una specie di casa padronale,che ripercorra, pietra per pietra, la struttura – scenica e salvifica – della dimora di Casarola. Qui, il 9 settembre del 1943, il poeta si trasferisce con la famiglia; “vi ho passato mesi meravigliosi, nella più completa irresponsabilità”, scrive; imperava la guerra. L’anno dopo, i tedeschi falciano l’Appennino, “erano giovanissimi, le ultime leve che il Führer era riuscito a strappare dalle case”. Il poeta si rifugia con i suoi alle pendici del Monte Navert; i nazisti setacciano, bruciano case, ammazzano partigiani.  Nella casa – proprietà della Fondazione Bernardo Bertolucci dal 2015 – è allestita una mostra di Carlo Bavagnoli, il grande fotoreporter che lavorava per “Life”, morto lo scorso anno. Attilio, egualmente scontroso e sorridente, passeggia per Casarola, siede su una pila di legna, legge, appollaiato sulla poltrona dello studio. Era ‘Ninetta’, l’incommensurabile moglie del poeta, a ‘fare casa’: aiutava le donne del borgo, organizzava i lavori di restauro. Di Attilio è restituita l’immagine di un uomo chiuso, buono fino a una sorda severità – un patriarca. Paolo Lagazzi – il fraterno esegeta del poeta, curatore delle Opere di Bertolucci nei ‘Meridiani’ Mondadori – ha scritto del “lato potenzialmente saturnino (depressivo, angoscioso)”, del poeta, in gemellaggio all’amore per la vita. “Era capace di osservazioni che avevano in sé la forza di un’improvvisa rivelazione o di un koan zen” (così Lagazzi in un libro di estatica potenza, La casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci, La nave di Teseo, 2025): un giorno, nell’agosto del 1985, Bertolucci scocca un aforisma che riassume una poetica, “Io amo la vita, non la morte”.  A Casarola vedo la proverbiale lucertola (“emblema/ o stemma vivo/ non so se della famiglia o dell’estate”); lo studio e la camera del poeta pullulano di libri: erano davvero i suoi? Ne scorgo uno, Chiamalo sonno di Henry Roth; in un articolo, Il libro per la sera – pubblicato sulla “Gazzetta di Parma” nel dicembre del ’54 – Bertolucci parla dell’“abitudine di portarsi un libro in camera da letto, la sera, per una lettura intima, che consoli della giornata finita e aiuti contro la notte imminente”. Alternava Agatha Christie a Marcel Proust, Marco Aurelio e Lao-tzu ad Anton Čechov, di cui amava, su tutto, La steppa. Negli anni Cinquanta, Bertolucci era a Roma: abitava in via del Tritone, in un appartamento di Roberto Longhi. Era amico di Vittorio Sereni e di Gadda; soprattutto, di Pier Paolo Pasolini. Due settimane prima della sua morte, a Chia, ricorda, “volle farci gustare certi vini che gli erano stati invitati dal Friuli”. Per Guanda aveva fondato la straordinaria collana di poesia straniera “La Fenice”; è stato consulente per Garzanti; ha diretto – con genio ‘fantastico’, extracanonico – la rivista dell’Eni, “Il Gatto Selvatico”. A Casarola, il figlio di Attilio, Bernardo, quindicenne, scrive il suo primo ‘soggetto’, La teleferica – a quegli anni “della vocazione e dell’apprendistato” del figlio, il padre dedicherà la poesia omonima. Quando esce Ultimo tango a Parigi, pare che Attilio abbia sussurrato alla moglie, “questa volta finiamo tutti in galera”.   Sul tavolo all’ingresso della sala, il panama di Attilio, un monile: chissà se basta indossarlo per essere poeta. Il camino è enorme, inquietante – il poeta sapeva accendere il fuoco; la poesia, d’altronde, è aruspicina verbale. Fioccano, in abuso, gli aneddoti: lì Giuseppe Bertolucci ha abbozzato insieme a Benigni Non ci resta che piangere; là Bernardo ha avuto l’idea di Novecento; lì Attilio scriveva La camera da letto. Sembra di trovarsi al cospetto di una famiglia biblica, dove non c’è discontinuità tra l’opera dei padri e quella dei figli: conta la promessa.  Più tardi, ritornato in Romagna, in una sera in cui flottano zanzare che paiono Sherazade, leggo a mia figlia, che ha il nome di una regina persiana, alcune poesie di Bertolucci. Amo quella in cui il vento è paragonato al lupo, “poi, stanco s’addormenta e uno stupore/ prende le cose, come dopo l’amore”. Le dico che Bertolucci ha pubblicato un libro dal nome stellato, Sirio, a diciotto anni.  Il poeta è morto a Roma venticinque anni fa, è sepolto a Parma, al Cimitero della Villetta. Bernardo e Giuseppe, i figli, sono tumulati nel romito cimitero di Casarola, dove imperano, come gran khan, le erbe selvagge. Da quando Attilio Bertolucci è morto, dicono, l’aquila reale è tornata a nidificare sul Groppo Sovrano, la parete di arenaria che sovrasta Casarola – si vede pressoché da ogni finestra della casa dei Bertolucci. Il poeta è rinato in forma di rapace.  * Verso Casarola Lasciate che m’incammini per la strada in salita e al primo batticuore mi volga, già da stanchezza e gioia esaltato ed oppresso, a guardare le valli azzurre per la lontananza, azzurre le valli e gli anni che spazio e tempo distanziano. Così a una curva, vicina tanto che la frescura dei fitti noccioli e d’un’acqua pullulante perenne nel cavo gomito d’ombra giunge sin qui dove sole e aria baciano la fronte le mani di chi ha saputo vincere la tentazione al riposo, io veda la compagnia sbucare e meravigliarsi di tutto con l’inquieta speranza dei migratori e dei profughi scoccando nel cielo il mezzogiorno montano del 9 settembre ’43. Oh, campane di Montebello Belasola Villula Agna ignare, stordite noi che camminiamo in fuga mentre immobili guardano da destra e da sinistra più in alto più in basso nel faticato appennino dell’aratura quelli cui toccherà pagare anche per noi insolventi, ma ora pacificamente lasciano splendere il vomere a solco incompiuto, asciugare il sudore, arrestarsi il tempo per speculare sul fatto che un padre e una madre giovani un bambino e una serva s’arrampicano svelti, villeggianti fuori stagione (o gentile inganno ottico del caldo mezzodì), verso Casarola ricca d’asini di castagni e di sassi. Potessero ascoltare, questi che non sanno ancora nulla, noi che parliamo, rimasti un po’ indietro, perdutisi la ragazza e il bambino più su in un trionfo inviolato di more ritardatarie e dolcissime, potessi io, separato da quel giovane intrepido consiglio di famiglia in cammino, tenuto dopo aver deciso già tutto, tutto gettato nel piatto della bilancia con santo senso del giusto, oggi che nell’orecchio invecchiato e smagrito mi romba il vuoto di questi anni buttati via. Perché, chi meglio di un uomo e di una donna in età di amarsi e amare il frutto dell’amore, avrebbe potuto scegliere, maturando quel caldo e troppo calmo giorno di settembre, la strada per la salvezza dell’anima e del corpo congiunti strettamente come sposa e sposo nell’abbraccio? Scende, o sale, verso casa dai campi gente di Montebello prima, poi di Belasola, assorta in un lento pensiero, e già la compagnia forestiera s’è ricomposta, appare impicciolita più in alto finché l’inghiotte la bocca fresca d’un bosco di cerri: là c’è una fontana fresca nel ricordo di chi guida e ha deciso una sosta nell’ombra sino a quando i rondoni irromperanno nel cielo che fu delle allodole. Allora sarà tempo di caricare il figlio in cima alle spalle, che all’uscita del folto veda con meraviglia mischiarsi fumo e stelle su Casarola raggiunta. Attilio Bertolucci *In copertina: Attilio Bertolucci e Ninetta, photo Paolo Lagazzi; nel servizio le fotografie sono di Diana Mazon L'articolo “Io amo la vita”. Inseguendo Attilio Bertolucci, ovvero: storia familiare con aquila proviene da Pangea.
October 6, 2025 / Pangea
La vita come magia: Attilio Bertolucci, il poeta del batticuore. Dialogo con Paolo Lagazzi
La lucertola di Casarola è il titolo della poesia che battezza l’ultimo libro di Attilio Bertolucci, uscito nel 1997 per Garzanti. La scena ha la luce olimpica dell’infanzia, una specie di celestiale crudeltà. “Ricordo che bambino m’incitavano/ a mozzar loro la coda – non temere,/ rinasce, non temere – e io a rifiutare, caparbio, silenzioso”. La poesia parla, in forme sotterranee, di ciò che permane e di ciò che va, della cenere e dell’indomito. Nella caparbietà, nel vello del silenzio, si intravede – come l’autoritratto di un pittore del Rinascimento, viso che fissa lo spettatore dall’angolo tra la massa degli altri – la firma del poeta. Un gatto fissa la scena, la figura rettile che appare e scompare. L’ultima lassa sfiora l’oracolo, una forma verminosa della luce: > “Sciocca felina, ignara > dei cunicoli cui torna, non fugge, > l’abitatrice avanti te e me > di questa verde plaga occidentale”. Secondo Paolo Lagazzi – in un libro, La casa del poeta, di leggiadra magia, ora edito da La Nave di Teseo, che assembla “Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci” – si tratta di una poesia-rivelazione: “la lucertola appenninica, ricca di cunicoli in cui nascondersi per tornare, di sortilegi per riemergere dalle proprie ferite, racchiude in sé la forza di ciò che dura e durerà sempre, attraverso e oltre i dubbi e i dolori la vita – e la poesia che in essa si cerca e riflette”. Forse quel rettile – figura di una vita non rettilinea – simboleggia la poesia stessa di Bertolucci: all’apparenza comune, sorgiva, come l’erba e le lucertole; in verità, retrattile, sapiente al mezzogiorno, edotta nei meandri dell’oscurità. Così, nel suo discorrere – come di chi è uso ad abusare della pazienza dei morti, come chi sa imbonire il miraggio, disperdere l’inganno in una fiaba: si legga l’insuperabile Per un ritratto dello scrittore da mago, Diabasis, 1994, poi Moretti & Vitali, 2006 –, Lagazzi dice della luce frontale di Bertolucci, gioviale Giove, principesco nell’avita Casarola, conficcata nell’Appennino parmense; non ne cela le aspre ombre. La crisi-catabasi del 1958, ad esempio – gli anni in cui il poeta comincia la lunghissima elaborazione del poema familiare La camera da letto –, in cui Bertolucci sperimenta ‘il terribile’, il mostro interiore; il gemellaggio, spiazzante, tra allegria e desiderio di isolamento; amicizia e reticenza.  Con nobile andare, da patriarca, Bertolucci ha attraversato tutti i tempi della cultura italiana: negli anni Trenta dirige per Guanda la collana “La Fenice”; vent’anni dopo guida “Il gatto selvatico”, la rivista dell’ENI; sarà alla direzione di “Nuovi Argomenti”. Amico di Vittorio Sereni e di Pier Paolo Pasolini, fu consulente per Garzanti; con Viaggio d’inverno (1971), tra l’altro, ottenne l’“Etna-Taormina”, nell’anno in cui presidente di giuria era Eugène Ionesco. In calce a La casa del poeta, Bernardo Bertolucci, primogenito di Attilio, appunta, “Continuo a chiedermi: e io dove ero?”. A significare, credo, la placida inafferrabilità del padre; il talento di un padre di ‘liberare’ i figli, che sappiano librarsi da sé. Chissà fino a che punto i grandi film di Bernardo – Ultimo tango a Parigi, Novecento, L’ultimo imperatore… – sono debitori dello sguardo di Attilio. Nei ricordi di Pietro Citati – riferiti da Lagazzi – “Appena parlava c’era odore di prati emiliani, di Tasso, di letteratura inglese, di famiglia, di mucche, di dolcezza e di infinita saggezza”.  Bertolucci amava Thomas Hardy e William Wordsworth; amava Proust – ha tradotto Baudelaire. Certo, la sua opera può avvicinarsi a quella pittorica di Vermeer: una luce fiamminga, esatta, non priva di enigma. Nel Ritratto di giovane gentiluomo di Lorenzo Lotto, una lucertola sfida l’uomo che ci guarda, drappeggiato da un’insanabile mestizia, mentre sfoglia un libro. Creatura a sangue freddo che si nutre di luce, ne fa scorta per i suoi viaggi sotterranei – sapersi nascondere, disgustati dalle mode, è il tono del poeta. Luce-lucertola, nostra verde torcia.  Nella sua ultima intervista, concessa nel gennaio del 1977 alla Radiotelevisione Svizzera, Cristina Campo parla della lucertola come emblema della vita, al contempo solare e terribile: > “Non mi sono mai posta il problema, perché si vive? Per me è un miracolo… > Avere visto una lucertola che prendeva la buccia di una pera, stando sopra il > mio piede, e la portava alla femmina, come un dono, mentre il sole tramontava. > Ecco, che bello essere creati… o che cosa spaventosa in altri momenti”. > > (in: Ottanta poetesse per Cristina Campo, Magog, 2023)  La nuda vita, la mera vita – una fredda incandescenza, come la spada che fa lo scalpo al sole. Nella prefazione alle Operedi Bertolucci, inscatolate nei ‘Meridiani’ (Mondadori, 1997), Lagazzi dà forma al concetto così: > “Non molte sono le opere del secolo in grado di procurarci un così intenso e > nutritivo batticuore perché assai rara è la capacità di restituire la vita > nella sua struggente evidenza, e non solo come onda del tempo, fino al > mormorio più segreto (il fruscìo d’una tenda che sbatte, il brivido d’una > clessidra), o come brusìo di voci prima del silenzio finale, ma anche come > verità di colori, di corpi e di tracce irriducibili alla corrosione del > tempo”.  Quando sento Lagazzi, la sua gioia è già presagio di un gioco di prestigio. “Andremo a Casarola… ti porterò a Casarola… e sarà una giornata memorabile”. E s’intuisce già, nel fondo, il mormorio dei prati, le lucertole che guizzano, quei rettili delfini, un dio aprico, con l’ascia e l’aratro, e il mormorio della parola memorabile fa di questo mondo, immediatamente, una ventura. Che la cosa, poi, accada, o rimandi all’assalto dell’impossibile, poco importa. Il grigio non esiste.  Bertolucci, ancora: descrivimelo in tre aggettivi. Potrei dirti che era seducente, vero e imprendibile.  Col primo aggettivo voglio dire che aveva quel dono molto raro, forse concesso dagli dèi solo ai maestri, che è il fascino personale nel senso più profondo, psichico, magico, sciamanico. Avvicinarlo davvero era impossibile senza lasciarsi sedurre, incantare, plagiare.  Col secondo aggettivo voglio sottolineare che il suo modo d’essere, per quanto tendente all’affabulazione nel quotidiano e alla rêverie nella scrittura, non era mai astratto, non fuggiva mai per la tangente, non si perdeva in discorsi vacui o retorici: c’era in lui, vivissimo, un bisogno di chiarezza, concretezza, fisicità, un bisogno di muoversi con un passo e un respiro giusto che era anche una necessità etica, e che nasceva dalle sue radici contadine e cristiane.   Nonostante la sua concretezza era a suo modo imprendibile, e dicendo questo alludo al fondo mercuriale del suo spirito, alla sua intima mobilità, al continuo trascolorare delle sue parole e delle sue fantasie tra le apparenze e i segreti della vita, ai suoi andirivieni fra naturalezza e malizia, agli spostamenti velocissimi del suo sguardo sul mondo, alla sua refrattarietà a essere incasellato in categorie, al suo grande bisogno di libertà, al suo sentimento della vita come avventura feriale, come magia e grazia, come radicamento delle parole e delle cose anche più umili e comuni nel mistero. Esiste, per tua esperienza, una consustanzialità tra il corpo del poeta e il suo corpus lirico, tra la tempra etica e quella estetica? Mi riferisco, va da sé, a Bertolucci: fino a che punto l’uomo combaciava con il poeta – e viceversa? Ha scritto Pietro Citati che sentirsi un poeta era per Bertolucci come essere “un bollito o una patata al forno”: una realtà naturale, accettata con assoluta innocenza. A mia volta ho ricordato nella Casa del poeta una lirica in cui Paolo Bertolani dice che Attilio sapeva trasformare in poesia qualunque gesto, fosse pure passare un giornale dalle proprie mani a quelle dell’ospite o versare il vino a tavola. Anch’io ho sempre avvertito una continuità essenziale fra la vita e la poesia nel carattere e nel destino di Attilio. Ciò non significa affatto che covasse il seme dell’estetismo. La fonte prima e necessaria della poesia era per lui la vita: la poesia non era vera se non si nutriva di vita, ma a sua volta “sentire” la vita nelle sue risonanze profonde non gli era concesso se non nella luce della poesia. Poiché era impossibile sbrogliare questo nodo con le forbici del pensiero, ho letto e riletto per mezzo secolo la sua poesia e ho camminato fianco a fianco con lui, ho respirato i suoi soffi lirico-epici e ho condiviso molti suoi momenti umani, soprattutto a Casarola. Mi sono lasciato intridere dal batticuore aritmico dei suoi giorni e dei suoi versi, ho cercato di accogliere e di lasciare che si muovessero dentro di me la luce e la pazienza, i lati umbratili e la joie de vivre che percorrevano il tempo della sua esistenza e le pieghe mobili della sua opera. Amava il jazz, il cinema, Verdi e Proust, è vero, ma qual è la vera ‘miccia’ culturale di Bertolucci, quella che lo animava? Forse il “la” alla creazione poetica di Attilio lo ha impresso la pittura, perché la sua poesia è anzitutto immagine, sguardo, visione. L’immagine è per lui il modo che ha il mistero vitale di manifestarsi nella luce. Guardare non è mai un esercizio “teorico”: è invece pura esperienza d’immersione nelle forme dell’essere, nei colori vivi e cangianti delle cose nel flusso del tempo. L’amore del poeta per la pittura precede l’incontro con Roberto Longhi (avvenuto nel ’35); già Sirio (del ’29) e Fuochi in novembre (del ’34) vibrano e brillano di riferimenti pittorici impliciti o dichiarati, da Monet a Bonnard, dal liberty a Modigliani, da Picasso a De Chirico. L’insieme delle scoperte della modernità pittorica è stato per il primissimo Bertolucci un crogiolo d’impareggiabile vitalità, una trama screziata di possibilità sperimentali, un invito al viaggio della poesia tra i sortilegi della luce e dell’ombra. Naturalmente la pittura (e subito dopo il cinema, sorta di pittura in movimento) è stata solo il “la” della sua avventura poetica: nel tempo l’amore per i maestri moderni e antichi della visione si è intrecciato sempre più fittamente con la passione per Proust, per Verdi e per altri poeti, soprattutto inglesi e americani. Ma è significativo che, ancora nel ’43, alla richiesta di Luciano Anceschi a tutti i poeti dell’antologia Lirici nuovi di fornirgli uno scritto di poetica, Attilio abbia risposto con quelle celebri righe sulla propria poesia come ricerca di “un po’ di luce vera” orientata verso fari della pittura quali gli impressionisti e Vermeer. Sul senso dell’amicizia e della famiglia in Bertolucci. Dimmi. Benché nel carattere di Attilio fosse esplicita la componente narcisistica, in lui era altrettanto viva è vera la capacità di amare, il calore dei sentimenti. A parte quello per i genitori e il fratello, l’amore fondamentale della sua vita era quello per Ninetta. Lei era tutto per lui: donna “dolce e pericolosa” e tenerissima compagna, musa e anima tutelare, regista degli spazi domestici e fonte, fino agli ultimi anni, di turbative scintille d’eros… L’amore per lei e con lei era un’esperienza privatissima, qualcosa come un sogno da sognare in due, eppure da quel sogno, da quel nocciolo irriducibile di bellezza erano nati i figli. L’amore si era rivelato una forza espansiva: la solitudine di coppia si era trasformata in una famiglia… In questo movimento di apertura continuava a irradiarsi un calore intimo, simile alle tante rêveries di fiamme e di fuochi che attraversano la poesia di Attilio; eppure né l’amore per Ninetta né quello per i figli ha mai assunto nello spirito e nell’opera del poeta i tratti dell’idillio. Il bisogno di essere amato e di amare è sempre percorso in quest’opera poetica da tremori, brividi, lievi sussulti, ombre, timori, ansie, fantasmi…  Quando lei si allontana, anche di poco, in lui sale una fitta d’angoscia; a loro volta i figli saranno presto risucchiati dal “fuori”, dall’altrove, dal lontano, e vani saranno gli esorcismi messi in atto dal padre (come nella struggente lirica I pescatori) per trattenerli, per rendere eterno e inattaccabile dal tempo il cerchio incantato della famiglia. Tutto questo non va inteso alla lettera. Attilio non era quel “ragno” vischioso di cui si è favoleggiato, dedito solo a intrappolare moglie e figli in una ragnatela nutrita d’ansia, senso del possesso, gelosia, ossessione, egoismo. Ninetta è sempre stata una donna intimamente libera, e lui l’amava proprio per questo. A loro volta i figli non sono mai stati tanto condizionati dal padre da non poter lanciarsi in tutte le avventure, verso tutti gli orizzonti. Attilio stesso desiderava che questo avvenisse: non è forse stato lui a propiziare l’incontro fra Bernardo e il Pasolini regista, incontro decisivo per la vita e la straordinaria carriera del primo? Attilio era uno spirito “di soglia”: se cercava di preservare dalle ombre i suoi spazi intimi – le sue dimore, la sua famiglia – era altrettanto portato a uscirne, a respirare i soffi del mondo. Questo secondo lato del suo essere non riguardava solo il rapporto con la natura ma anche quello con la società. Era curioso come Proust, gli piacevano i nuovi incontri, amava esplorare ambienti diversi. Fin da giovanissimo aveva amici che nutrivano le sue giornate di parole scambiate passeggiando o nelle lunghe soste in qualche caffè. Anche la scoperta precoce del cinema non sarebbe stata un’occasione di tale vitalità se non fosse stata da lui condivisa con amici quali Pietrino Bianchi e Cesare Zavattini. Certo questa sete di amicizie non era priva di un retroterra amaro e nevrotico. L’allegra disposizione al confronto, alla chiacchiera e anche al gioco si alternava con momenti in cui prevaleva il lato schivo e ombroso, il desiderio di solitudine, la voglia di fuggire “via dalla pazza folla”. Eppure prima o poi riemergeva sempre in lui il bisogno di aprirsi agli altri, di condividere i momenti, di gustare il piacere dell’incontro, perfino di “perdere il tempo” per poterlo magari, un giorno, ritrovare. Il nostro incontro durato ventisette anni è stato – non ho timore di dirlo – una grande amicizia. Nello scritto che accompagna il mio libro La casa del poeta (nella prima edizione era la prefazione), Bernardo dice che l’espressione “grande amicizia” riferita al rapporto tra suo padre e me “suona riduttiva e semplificatoria”. Senza dubbio lui era per me non solo un amico ma anzitutto un maestro e in un certo senso anche un secondo padre (questo l’ha capito e detto molto bene Emanuele Trevi nella prefazione alla nuova edizione del libro). Eppure se torno a sottolineare la grande amicizia fra noi è in primo luogo perché mi sembra che riuscire a essere veramente amici sia sempre più difficile nei nostri anni. Da alcune persone che ho ritenuto a lungo grandi amici sono stato, infine, tradito. Questo non è mai successo con Attilio. Non potrò mai dimenticare il suo sguardo l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a Roma nel suo appartamento. Era tanto malato che sarebbe vissuto solo altri due mesi, eppure ne suoi occhi resisteva qualcosa – una luce, il segno di una specie di letizia – che non so esprimere ma in cui mi parve di riconoscere il senso del nostro incontro come dono reciproco, come destino. …gli hai fatto qualche gioco di prestigio? Sì, ho offerto diverse volte dei giochi di prestigio a lui, a Ninetta e anche ai loro ospiti di passaggio. Una volta a Casarola io e mio fratello gemello Corrado (da giovanissimi ci eravamo esibiti in varie occasioni, anche in alcuni teatri, come prestigiatori dilettanti in coppia) abbiamo portato da Parma una gran quantità di attrezzi magici e nella locanda Tramaloni abbiamo allestito un vero e proprio show invitando tutti gli abitanti del paese, specialmente i bambini. Ricordo la felicità di Attilio in quell’occasione. Era lo spettatore perfetto: sapeva benissimo che il solo atteggiamento giusto di fronte a un prestigiatore è stare al gioco, abbandonarsi al piacere dell’illusione senza cercare di capire il trucco. Secondo me è lo stesso atteggiamento che occorrerebbe a ogni critico di fronte a un testo letterario in grado di suscitare incanto. Il buon critico non cerca di smascherare il testo, di rivelarne i congegni o i doppifondi, di smontarlo come un meccanismo o di dissezionarlo come un cadavere utilizzando i bisturi della scienza (dalla psicanalisi alla linguistica alla semiotica): accetta, invece, di lasciarsi sedurre, di lasciarsi invadere dalle sue vibrazioni magiche, dalla trama mobile delle sue illusioni per restituirne almeno una parte ai lettori con le proprie parole. Ultima. Una poesia-emblema di Bertolucci, quella a cui sei più legato – e perché. Forse Il tempo si consuma, collocata al centro esatto di Viaggio d’inverno. Scritta nel 1957, in un momento di grave crisi psichica dell’autore, questa poesia sa illimpidire lo strazio trasfigurandolo “in stupore e in contemplazione”, per riprendere parole dedicate da Montale a Saba. Un padre (il poeta) entra in una chiesa romana all’ora della messa festiva, in cerca del giovane figlio; non vedendolo è assalito dall’ansia; ma un quadro che rappresenta Gesù mentre, bambino, aiuta Giuseppe nel suo lavoro di falegname, lo rincuora – e proprio dal ritorno del coraggio scocca l’abbandono giusto, quello che lo porta finalmente a individuare il figlio nell’“agitazione terrena/ delle ragazze e dei ragazzi tenuti/ lontani dal bel sole di domenica”. > Così, d’improvviso, in un angolo vicino > alla porta, t’ ho ritrovato, quieto > e solo, m’hai visto, ti sei > accostato timidamente, ho baciato > i tuoi capelli, figlio ritrovato > nel tempo doloroso che per me e te > e tutti noi con pena si consuma. Sul piano della visione il testo si sviluppa come una scena filmica scandita in tre momenti: l’ingresso del poeta nella chiesa e la panoramica inutile del suo sguardo sui banchi; la zoomata verso il quadro sul fondo; l’incontro col figlio. Attraverso i passaggi ottici, è una complessa vicenda spirituale a dipanarsi nell’anima del protagonista fra il suo improvviso inabissarsi in un vuoto generante terrore, il conforto che nasce dalla bellezza colta nella sua natura più semplice e sacra (il “garzone/ di falegname, Gesù”) e il ritrovamento del figlio insieme al riaffiorare della fiducia. Con una pregnanza e limpidezza davvero evangeliche (penso alle parabole del figliol prodigo e della pecorella smarrita), la poesia si squaderna come dramma di un tempo sospeso e ondeggiante fra la perdita e il ritorno del calore vitale, tra la piccola morte della distanza e la “resurrezione” dell’incontro, tra il brivido dell’assenza e la luce dell’amore ancora possibile.  Per quanto mi riguarda, non credo d’aver incontrato molte volte, nel Novecento, una voce tanto vibrante nella sua forza umile e salvifica, nel suo soffio capace di lenire le ferite profonde dei nostri cuori. 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April 15, 2025 / Pangea