Ha la faccia del predestinato, Willis Barnstone, il patriarca della poesia
americana, ha una faccia di cera, che puoi modellare a tuo piacere, che può
prendere qualsiasi forma. Nato a Lewiston, Maine, nel 1927, finì su un giornale,
il “New York Daily News”, la prima volta, per caso, da bambino: invitava Babe
Ruth, il leggendario giocatore di baseball, a una raccolta fondi per gli orfani,
per gli sfortunati dei quartieri infimi. Quarant’anni dopo, lo vediamo al
braccio di Jorge Luis Borges, a Buenos Aires. Lo scrittore argentino, arso da
cecità, ha il solito sguardo, nei labirinti dell’invisibile; Willis fissa la
camera, perplesso, pare uno Zelig; indossa un completo bianco, il registratore a
tracolla.
Lavoreranno insieme a lungo, per un paio di decenni: Barnstone accompagnerà
Borges in un importante ciclo di conferenze negli States, ad Harvard, alla
Columbia, a Chicago; ne sortì un libro, Borges at Eighty: Conversations, passato
in Italia come Conversazioni americane (Editori Riuniti, 1984). Secondo
Barnstone (in: Borges the Poet, a cura di Carlos Cortínez, The University of
Arkansas Press, 1986), Borges è un Poet of Ecstasy: “Per quel che posso capire,
Borges è un composto instabile, un composto misterioso, che cerca
incessantemente di trovare la condizione stabile, la cifra o la formula o la
chiave della propria essenza, ma è destinato a eterna metamorfosi. Muove cioè
dall’entasis (essere in sé) all’ekstasis (essere altrove)”. Amava la “notturna
attività del poeta cieco”, fonte, per i lettori, di abbagliante chiarità.
Non è difficile capire perché a Borges piacesse quell’americano allampanato,
all’apparenza inerte, dal corpo salamandra. Conosceva lo spagnolo – uno dei suoi
primi lavori è una traduzione dai testi di Antonio Machado –, aveva studiato in
Messico e in Francia, aveva insegnato in Grecia: le sue versioni da Saffo –
uscite in origine nel 1965 – vengono rieditate ancora oggi. Soprattutto,
Barnstone, a differenza di altri poeti, esperti geologi del proprio io,
‘specialisti’ dei fatti loro, aveva una mente oceanica: era stato in Cina – da
lì, le traduzioni da Wang Wei –, lo affascinavano i perigli del ‘religioso’. Nel
1972, per la New Directions di James Laughlin, aveva firmato una notevole
edizione dei Poems of Saint John of the Cross. Le indagini nella letteratura
spagnola non lo abbandoneranno: negli anni, Barnstone traduce il poeta
agostiniano Luis de León (1979), Vicente Aleixandre (1981), Quevedo, García
Lorca e Miguel Hernandez (in: Six Masters of the Spanish Sonnet, 1993). Fra i
suoi libri di poesia ricordiamo From This White Island (1960), China
Poems (1977), Algebra of Night (1998), Life Watch (2003); l’ultimo libro
lirico, Moonbook and Sunbook, è edito nel 2014.
È pressoché impossibile districarsi nell’amazzonica bibliografia di Barnstone,
un poligrafo che non teme fatica, un poligrafo che odora di Himalaya; su Borges
ha scritto un grazioso pamphlet, With Borges on an Ordinary Evening in Buenos
Aires: A Memoir (1993), in cui, tra l’altro, rievoca un sogno narratogli dal
grande scrittore argentino. “Erano i giorni della ‘Guerra sporca’, le bombe
esplodevano in città; arrivai da Borges, lo vidi sconvolto, mi raccontò un
sogno”. Quel sogno è alla base di un racconto borgesiano, La memoria di
Shakespeare, che reca, a sua volta, lo stigma dell’incantesimo, del gioco di
prestigio. Ne riparleremo.
Molti anni dopo – il testo è raccolto nell’antologia Mexico in My Heart,
Carcanet, 2015 – Barnstone ha trasfigurato il suo legame con Borges in una
poesia dai molti sigilli, Borges and His Beasts:
> “Qualcosa è sbagliato nel tuo volto. Non è
> quello di un vecchio, ma di uno che non cresce.
> Nonostante i grigi capelli e l’occhio cavo come una tazza,
> morto, e l’altro, grigia trama di tumida nebbia
> dove un cervo bianco corre e scompare o lampeggia
> blu, in quel sogno dove hai dimenticato che si muore,
> e progetti un alfabeto di luce che faccia fibrillare
> la sfera del cuore. L’oscurità è sparita e ora devi
> sorridere come un bimbo. Succhi l’antica parola norrena
> che ti offre il cielo. Ma sei solo e sei assurdo
> e sai che c’è qualcosa di sbagliato. Viso da bimbo
> che ride, sembra un dente, l’occhio è un fiume
> perché ha conosciuto la pantera che non muore mai”.
Forse su suggerimento di Borges, Willis Barnstone s’inabissa nella Bibbia,
esplora lo gnosticismo, studia l’ebraico e l’aramaico. Le traduzioni degli
apocrifi, degli pseudoepigrafi e dei manoscritti del Mar Morto convergono in The
Other Bible (1984); nel 2003, insieme a Mervin Meyer raccoglie come The Gnostic
Bible i testi della tradizione gnostica cristiana, mandea, catara, ebraica. Il
suo The Restored New Testament (2009), che riesuma le fonti dei Vangeli canonici
e accoglie i cosiddetti Vangeli gnostici, è elogiato da Harold Bloom: “allo
stesso tempo, è un’eloquente, vivida traduzione dei vangeli e dell’Apocalisse e
un superbo atto di restituzione, di restauro”.
Nel 2004 ha tradotto i Sonetti a Orfeo di Rilke, il libro della vita.
> “Ho iniziato a scrivere versi nel 1947, dopo aver letto i Sonetti a Orfeo di
> Rilke in edizione bilingue. All’ultimo anno di università, cominciai a
> maneggiare il tedesco. Il libro di Rilke fu fondamentale per farmi capire che
> in poesia si potevano esprimere concetti filosofici – fu Rilke a consegnarmi
> alla poesia”.
C’è una generosità impulsiva in questo poeta traduttore, che non teme
l’avventura, l’avventatezza, la capriola e lo schianto. I suoi miracolosi
repertori antologici – A Book of Women Poets from Antiquity to Now, 1980; The
Literatures of Asia, Africa, and Latin America, 1998 – sono un invito al
viaggio, un monito ai poeti: andate lì dov’è l’ignoto, scavate, scoprite –
perdetevi, semmai, e sia bello il vostro essere candele nella tenebra.
Il poeta centenario ha attraversato tempi e poeti, volti e monoliti; nelle sue
mani, pari ad anfore, convergono i millenni, dal vello pieno. Opera di
mungitura, allora, di chi sa i proventi del coltello, di chi sa imboccare il
prossimo.
***
Il bene
Primo mattino, luna sulla landa
a cerchio gli uccelli di Ur, prima che
il diluvio lordi il ricordo della coppia
bandita dalle mele e dal fatale fuoco
del sangue: Adamo ed Eva a passeggio
nel ghetto giardino, accerchiano l’albero.
Non sanno l’incendio che scintilla tra
i corpi, non sanno leggere né parlare
conoscono la notte e il meriggio, gli sfugge
l’oscuro che non ha zenit. Adamo, Eva,
bestie buone, brade all’alba del globo,
cieca gente, come noi, all’apocalisse.
Sondano il sole, che irradia morte da un albero
rosso. La luce infuria, analfabeta – loro, se ne vanno.
*
L’usignolo
Benché l’orrore dell’usignolo
il sacro usignolo dall’inascoltato canto
che stride invisibile nella tormenta,
oltre l’albero delle stelle, sia solo un verbo
o una longitudine epistemologica,
è lui a svegliarmi, all’alba, l’occhio
inumato di croste, prima dell’estasi
del giorno. L’orrore non è mai distante:
l’arida biologia lede la speranza degli insetti:
la falena che intrappola la luna, il ronzio
della solitudine nell’ansimare dell’aria,
la trama dei vermi volanti. Eppure, è sempre
con me il segreto dell’usignolo, che mi illude.
Invisibile, anche io sono ancora qui.
*
In cammino
Cammino sempre: anche se la strada è corta
i passi sono infiniti. Qui
in Canada, le oche respirano lo stesso dolore
artico che aleggia nella mia anima introvabile,
ma le oche non sanno il freddo, volano alte
dalla Patagonia gaucho. Sono un uomo di carbone
e ardo sotto quegli uccelli dagli occhi di fuoco
intrappolati in abitudini elettriche.
Respiro il verde cielo – finché non mi coagulo.
*
Rendezvous
Papà, sei tornato stanotte.
Anni dopo il Tibet. Il viso lampeggia
e sorride tra i camion. Accendi
un fiammifero. Mi alzo dal letto
e siamo sulle colline dove nessuno
può vederci, dove non c’è testimone.
Vorrei darti il mio iPad. Sei un uomo
moderno. Non c’è bisogno del cappello.
I tibetani ci salutano. I monaci, come te,
non vogliono morire giovani. Bruciano
i loro corpi per protesta. Anche tu sei
logoro dal rogo della tristezza. Ora siamo noi
a dover varcare le colline. Il tempo ti ha reso
dolce, esatto. Per venire qui hai venduto
la casa in Colorado. Il cielo è nero
ora. Ci guida il sole interiore.
*
Dai “Sonetti a Orfeo” di Rilke
Silente amico di vaste distanze, odi
il tuo respiro che divarica le stanghe dello spazio.
Perduto tra le cinghie di campanili in rovina, suona,
permetti che rintocchi. Ciò che di te si nutre
trarrà il suo dominio da questo pasto.
Percorri la trasformazione, arretra
in essa. Cosa ti frena? Cediti. Se
bere è dolore, sii vino.
Sii notte, sii la sconfinata forza
e lascia che incroci i tuoi sensi.
Sii il senso di questo strano accordo. Va’ –
e se la terra svanisce, se ti ha dimenticato
sussurra al silenzio della terra: Io scorro.
E all’acqua che scorre: Io sono.
*
Da San Giovanni della Croce
Vivo ma in me non vivo
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
In me non vivo
senza Dio non posso vivere;
a lui o a me me stesso non
posso dare, dunque a che vivere?
Agonia di mille morti
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
Questa viva che solo vivo
è di vita ruberia, nulla se
non perpetua morte – nessuna
scappatoia se in te non vivo.
Dio, ascoltami, parole di verità
la mia: questa vita non voglio
muoio perché non muoio.
Il pesce pescato dal mare
ha la sua consolazione:
morte di breve durata
che infine reca sollievo.
Nessuna morte è più convulsa
e orrenda di questa mia patetica vita.
Più vivo, più muoio.
Provo sollievo soltanto
quando ti vedo nel sacramento
sprofondo nello sconfinato sconforto
privo della tua dolce compagnia.
Ora, tutto pulsa di dolore:
voglio – e non posso – averti
muoio perché non muoio.
**
Da Saffo
Lampi
se ci arride la sorte
ambiremo al porto
alla nera terra
Le raffiche di vento
fiaccano i marinai
che sperano
Nell’asciutto
nello sbarco
e scollegarsi
dal carico
che galleggia
Fatica molta
prima dell’approdo
sulla cruda terra
*
L’invito è per uno
non per tutti
al banchetto
che inaugura Era
perché vasta
sia
la mia vita
*
Silente
Zeus
dallo scudo di pelle di capra
e di Citera
ti prego
ti offro un cuore
saturo di bene
come nei giorni in cui lasciasti Cipro
ascolta la mia preghiera
vieni a me
lima le mie durezze
*
Espero, conduci a casa le rovine
dell’alba
conduci a casa le pecore
accompagna a casa la capra, alla sua casa
la bimba – c’è una madre che la aspetta
*
Imitano la morte
le colombe: quando l’anima
si fa fredda, le ali pendono
ai loro fianchi
*
No – non avrei potuto
credere di afferrare il cielo
con queste nude braccia
*
Verginità, verginità, te ne sei andata
lasciandomi sola.
Da te non verrà più – mai più mi vedrai.
*
Dimmi della sposa dagli stupendi
piedi – che Artemide
la figlia di Zeus drappeggiata di viola
deponga la sua ira
Venite, Grazie, venite Muse di Pieria:
il cuore è gonfio di incanti
e limpido sgorga l’inno
lo sposo infastidisce le dame
mentre l’Alba dai calzari d’oro
posa una lira sui loro capelli
*
Sortiranno inni
dalle vergini
tessitura d’amore
tra te e la sposa
dalla porpora veste
Svegliatevi, svegliate
i giovani della vostra età:
questa notte non dormiremo
saremo noi a destare
l’usignolo dalla vorticosa voce
**
Dal Vangelo di Matteo
Ecco: uscì il seminatore alla semina
e di ciò che seminava, seme finì in strada
uccelli calarono e mangiarono.
Parte su petraia, dove era poca terra
e seme subito sbocciò
perché non s’inabissava la terra.
Ma quando fu alto il sole
seccarono le piante:
prive di radici appassirono.
Parte finì tra spine e spine
finirono per soffocarlo.
Ma parte cadde su terra buona
e venne il frutto
il cento il sessanta il trenta
chi ha orecchie atte all’ascolto, ascolti.
Traduzioni e testi di Willis Barnstone
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