In copertina, un particolare dalla Santa Lucia di Francesco del Cossa: occhi che
germogliano da una piantina, stretta con malizioso garbo dalla santa. Era il
1994 e dell’autore – “nato nel 1941 a Rimini, dove vive” – si diceva, per lo
più, della biblioteca, la Gambalunghiana, di cui era, all’epoca, direttore,
“fondata al principio del Seicento, da un gentiluomo allampanato e funereo”. Il
romanzo – L’avvocata delle vertigini –, tra i più singolari e remoti del nostro
canone recente, nascondeva, tra l’altro, un altro libro, Ufficio del silenzio,
in cui si legge quanto segue: “Tacet. Come il colore bianco è la somma
misteriosa di tutti i colori, così quella lingua bianca che è il silenzio
accoglie paternamente tutte le parole”. Un monito, forse. Il protagonista,
Dominici, ricorda a sprazzi il Daniele Dominici de La prima notte di quiete,
l’eroe malinconico del film di Zurlini, ambientato a Rimini. Del libro si parlò
tanto, tanto fu tradotto: un autore italiano nel catalogo Adelphi era pura opera
di teurgia, quasi un’annunciazione; qualcuno paragonò L’avvocata delle
vertigini alla Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig, noto romanzo uscito nel
1993: l’affinità è meramente editoriale.
Rispetto ad altri autori dal tardivo esordio – Francesco Biamonti e Gesualdo
Bufalino, ad esempio – Piero Meldini aveva già pubblicato tanto, per lo più
saggi, con l’amico editore di una vita, Guaraldi: tra gli altri,
ricordo Reazionaria, la prima “Antologia della cultura di destra in Italia”,
uscita nel 1973, Mussolini contro Freud (1976) e il ciclo “La cucina
dell’Itaglietta” (1977), che è poi una storia d’Italia, dall’età giolittiana al
fascismo alla “cucina del tempo di guerra”, attraverso la controcultura
culinaria.
Per lo più ostile alla cagnara letteraria, per lo più sulle sue, un isolato,
Piero Meldini ha pubblicato per Adelphi il suo libro più bello – L’antidoto
della malinconia, 1996, ambientato in un inquieto, coriaceo Seicento – e per
Mondadori quello che ritiene il più compiuto, La falce dell’ultimo quarto, nel
2004. L’ultimo libro, Italia. Una storia d’amore (la quinta: vigilia della Prima
guerra, tra Bologna e Rimini) è uscito per Mondadori poco meno di quindici anni
fa. Da allora, Meldini, senza dubbio uno dei grandi scrittori italiani di oggi,
vive in una veglia tutta sua: non ha più voglie letterarie, è quasi del tutto
refrattario al presente. I racconti radunati per Vallecchi come In disparte, in
silenzio (brutta la copertina “generata con AI”), così, fanno l’effetto di una
scoperta. Pochi – sedici – brevi – in tutto, compresa la Nota, il libro conta
centoquaranta pagine – sagaci, non scalfiscono il tema: il testo più recente è
del 2009. Eppure, per una sorta di sfrenata austerità, di spudorata sapienza, i
racconti di Meldini sembrano più moderni, freschi, scattanti, giovani di troppa
narrativa che infesta le librerie patrie.
Il racconto più bello – parere mio – è Dietro la grata: siamo nel Seicento, il
secolo narrativamente aureo e oracolare per Meldini, si parla di una giovane, di
fantomatica bellezza, confinata in monastero, di un diario mistico dalla
“scrittura insieme puerile e artificiosa”, di un donnaiolo attaccabrighe che
porterà al disfacimento la famiglia, non nobile ma capace in ricchezze. Il genio
dello scrittore, come sempre, si vede subito, fin dalla filigrana dell’incipit:
> “Sulla carta spessa, che crocchia e si accartoccia agli angoli, le righe
> corrono svelte. Le lettere pendono a destra, come investite da una corrente
> d’aria. Là dove la scrittura a un tratto si inalbera, graffiando il foglio, la
> porta avrà sbattuto”.
Si sente, cioè, in poche righe, il sapore di un mondo e il suo senso,
il suono dell’epoca. Lo scrittore gioca con gli astri, ha a cuore tutti gli
angoli della propria invenzione (soprattutto quelli invisibili al lettore). La
scrittura di Meldini rimanda – parere mio – ai racconti più riusciti di
Marguerite Yourcenar, quelli raccolti in Come l’acqua che scorre; lui cita, tra
i suoi lari, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Morselli, Buzzati. A Jorge Luis
Borges – autore che accompagna da sempre l’epopea letteraria di Meldini – è
dedicato uno ‘scherzo’ assai sugoso. In Pasticcio, il grande scrittore argentino
interpreta se stesso in vesti di cuoco: il suo piatto, naturalmente un
“capolavoro”, sortirà effetti mortali nella mente e nel corpo dei commensali. I
borgesiani di ferro riconosceranno nomi, temi, topografie, comunque esplicitati
dall’autore in nota.
Come ci si potrebbe attendere, Meldini – almeno in apparenza – guarda con
indocile sprezzatura ai suoi libri: nell’arco di un ventennio o poco più – mi
sono dimenticato di citare Lune, Adelphi, 1999 – ha pubblicato alcuni dei libri
indimenticabili della nostra tradizione recente, ma cosa gli importa… “Dubito
che qualche mio romanzo mi sopravviva e non è che la cosa mi turbi più di
tanto”, tende a ripetere. Lo scrittore forse fa proprio questo: scrive per
cancellarsi – delle cose che ha scritto, gli resta un riverbero, una breve
nudità, lo sbrego sul margine, un manoscritto pervertito dall’uso. Forse la sua
icona è la farfalla – o l’effimera; i libri, intanto, fanno la crisalide. Il
resto – far vivere un libro, dotarlo di eternità – è compito nostro, è la gioia
dei lettori.
Che cos’è il racconto per te: il disegno preparatorio di un romanzo, un romanzo
abortito, a mala pena abbozzato, un’occasione che avvampa, lasciando dello
scritto un pertugio di cenere – e poco altro. O è molto di più?
Il racconto non è né un embrione né un concentrato di romanzo. È un’alternativa.
La scelta, cioè, di raccontare in un numero limitato di pagine una storia con un
capo e una coda: un inizio che inviti alla lettura e un finale appagante,
sorprendente o perturbante. A differenza del romanzo, che lascia il lettore
libero di indugiare, sostare e fantasticare sulle sue pagine, il racconto lo
prende per mano e lo trascina fino alla conclusione. Un buon racconto è una
parabola nel duplice significato del termine: una traiettoria e un racconto con
una morale. Meglio – molto meglio – se indecifrabile.
La quarta recita: “Tutti i racconti di uno dei più originali narratori
italiani”. Ti domando. Sono davvero “tutti” i tuoi racconti qui raccolti; cosa
significa, appiccicato a te, l’aggettivo “originale”; e poi, ti senti davvero un
“narratore”?
Sì, i racconti sono più o meno tutti quelli che ho scritto; i pochi assenti non
meritavano di essere riesumati. Credo (spero) che con “originale” lo strillo –
di cui non sono responsabile – intendesse appartato e inclassificabile, perché
di fatto è così che mi vedo. E sì, mi considero un narratore. Se non ho in testa
una storia, anche semplice, e dei personaggi – chiamiamoli pure fantasmi – mi è
impossibile cominciare un racconto; non parliamo poi di un romanzo. Non credo
che la bella scrittura sia autosufficiente.
Secondo i canoni – idioti si dirà – della casistica narrativa italica, hai
esordito tardi, nel ’94, non pubblichi testi ‘nuovi’ dal 2012, un secolo fa. Il
racconto più recente raccolto in “In disparte, in silenzio” data 2009. Perché?
Non hai più niente da scrivere? La narrativa è stata una delle tante stanze
della tua vita, ora sigillata?
Scrivere è per me molto impegnativo. Il risultato, dopo una giornata di lavoro
(e se sono particolarmente in vena, s’intende), è una mezza cartella di
testo. Sulla quale tornare poi non so quante volte e più per togliere che per
aggiungere. Non è raro che dedichi a un singolo passo una settimana e più di
lavoro accanito. Non è nemmeno raro che poi lo cancelli senza una lacrima. Un
lavoro così lento e faticoso ha bisogno di un contesto favorevole: un’editoria
che si assuma qualche rischio, una critica attenta e autorevole, una comunità di
lettori sufficientemente ampia e curiosa. Nel ’94, quando ho esordito nella
narrativa, questo contesto esisteva; nel 2012 le cose erano già molto cambiate;
oggi mi attenderebbe una terra incognita, ma presumibilmente inospitale, e alla
mia veneranda età non si ipotecano due anni di vita per essere letti da dieci
amici.
In Italia non si legge – tanto meno, si leggono i racconti, antica leggenda.
Perché?
Non so se i lettori italiani non amino i racconti. Quel che so è che gli
editori, a torto o a ragione, li considerano poco commerciali e preferiscono a
una bella raccolta di racconti un romanzo mediocre.
Due domande in una. Che cosa stai leggendo? Qual è il tuo libro che – agli occhi
tuoi – ‘resterà’? (Ne aggiungo un’altra, in coda: il libro tuo che desideri
svanisca nell’oblio, c’è?, qual è?).
Sto leggendo Sotto una stella crudele, un libro del 2017 che avevo
temporaneamente accantonato. Non è un romanzo. Sono le memorie di una donna
ebrea di Praga, Heda Margolius Kovàly, che in meno di un decennio era passata
dagli orrori del nazismo a quelli dello stalinismo. È una lettura che prende
allo stomaco. Andrebbe imposta (no, mi correggo: consigliata) a tutti quei
giovani che si proclamano orgogliosamente fascisti o comunisti. Ma, temo, con
scarsi risultati.
Dubito che qualche mio romanzo mi sopravviva e non è che la cosa mi turbi più di
tanto. Potessi scegliere io, sarei indeciso tra L’antidoto della malinconia – il
romanzo a cui sono più legato – e La falce dell’ultimo quarto – quello che
considero il più maturo, per il suo equilibrio fra dramma e commedia. Tolto
qualche mio remoto saggio, che avrei potuto e forse dovuto lasciar perdere, ci
sono molti libri che oggi scriverei diversamente, ma nessuno di cui mi vergogni.
Anche i racconti – parere mio – confermano che ti trovi narrativamente più a tuo
agio in territori alieni ai più, a noi poveri scribi: il Seicento, l’Ottocento.
Lì, i tuoi tratti, mi pare, trovano una definitività indefettibile. È vero? Dico
sciocchezze?
È vero: ho con la contemporaneità un rapporto complicato, e non m’è del tutto
chiaro se non voglio o non so raccontarla. Mi domando, per altro, se i miei
siano davvero romanzi storici. Sì per la cura scrupolosa dell’ambientazione, a
prova di anacronismi; no per quel che riguarda l’intenzione di resuscitare
un’epoca. Ciò che a me interessava non era la ricostruzione filologica di un
determinato periodo storico, ma la trattazione di temi del tutto personali e
attuali, utilizzando però un “filtro” che mi consentisse di parlare di me stesso
senza compiacimenti e dell’attualità senza riferimenti alla cronaca. Lo
scrittore di romanzi storici finisce spesso, volente o nolente, per attualizzare
il passato. Io credo di aver fatto l’opposto: “storicizzare” il presente
proiettandolo in un’altra epoca.
Tra i racconti, spicca un tributo a Borges, che figura tra i tuoi lari – in
filigrana, vedo la grana della Yourcenar. Quali scrittori italiani tra i tuoi
maestri?
Gadda, innanzi tutto, al punto che avevo l’abitudine di rileggere ogni anno,
come un esercizio zen, La cognizione del dolore. Poi, in parte, Sciascia e
Calvino. Sicuramente Tomasi di Lampedusa. Landolfi, ma in modica quantità, e
Buzzati. Il Morselli di Contro-passato prossimo e Roma senza papa e il Soldati
dei racconti. E inoltre un bel po’ di scrittori ottocenteschi e del primo
Novecento, a cominciare da Svevo.
Pur nella scrittura spesso assertiva, serrata, severa, vedo l’ironia nera, un
piccolo Pan a disfare le sorti dei tuoi personaggi. Un gioco alchemico: il caos
che, in piccole dosi, rende dorata madama armonia. A tratti, la scrittura pare
un gioco – di specchi e di attese e di maschere. È così?
Sì, proprio così, e mi fa piacere che tu lo abbia còlto. I protagonisti dei miei
romanzi sono destinati a percorrere strade che li conducono fatalmente alla
catastrofe. Non ho deciso io di farli finir male, però: lo hanno in qualche modo
deciso loro. Nei racconti, invece, c’è lo zampino maligno dell’autore, che ha
scelto di collocare il veleno nella coda, non so bene se per far dispetto al
personaggio, al lettore o a se stesso.
L'articolo “Con la contemporaneità ho un rapporto complicato”. Dialogo con Piero
Meldini, lo scrittore più appartato e singolare d’Italia proviene da Pangea.
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Ha la faccia del predestinato, Willis Barnstone, il patriarca della poesia
americana, ha una faccia di cera, che puoi modellare a tuo piacere, che può
prendere qualsiasi forma. Nato a Lewiston, Maine, nel 1927, finì su un giornale,
il “New York Daily News”, la prima volta, per caso, da bambino: invitava Babe
Ruth, il leggendario giocatore di baseball, a una raccolta fondi per gli orfani,
per gli sfortunati dei quartieri infimi. Quarant’anni dopo, lo vediamo al
braccio di Jorge Luis Borges, a Buenos Aires. Lo scrittore argentino, arso da
cecità, ha il solito sguardo, nei labirinti dell’invisibile; Willis fissa la
camera, perplesso, pare uno Zelig; indossa un completo bianco, il registratore a
tracolla.
Lavoreranno insieme a lungo, per un paio di decenni: Barnstone accompagnerà
Borges in un importante ciclo di conferenze negli States, ad Harvard, alla
Columbia, a Chicago; ne sortì un libro, Borges at Eighty: Conversations, passato
in Italia come Conversazioni americane (Editori Riuniti, 1984). Secondo
Barnstone (in: Borges the Poet, a cura di Carlos Cortínez, The University of
Arkansas Press, 1986), Borges è un Poet of Ecstasy: “Per quel che posso capire,
Borges è un composto instabile, un composto misterioso, che cerca
incessantemente di trovare la condizione stabile, la cifra o la formula o la
chiave della propria essenza, ma è destinato a eterna metamorfosi. Muove cioè
dall’entasis (essere in sé) all’ekstasis (essere altrove)”. Amava la “notturna
attività del poeta cieco”, fonte, per i lettori, di abbagliante chiarità.
Non è difficile capire perché a Borges piacesse quell’americano allampanato,
all’apparenza inerte, dal corpo salamandra. Conosceva lo spagnolo – uno dei suoi
primi lavori è una traduzione dai testi di Antonio Machado –, aveva studiato in
Messico e in Francia, aveva insegnato in Grecia: le sue versioni da Saffo –
uscite in origine nel 1965 – vengono rieditate ancora oggi. Soprattutto,
Barnstone, a differenza di altri poeti, esperti geologi del proprio io,
‘specialisti’ dei fatti loro, aveva una mente oceanica: era stato in Cina – da
lì, le traduzioni da Wang Wei –, lo affascinavano i perigli del ‘religioso’. Nel
1972, per la New Directions di James Laughlin, aveva firmato una notevole
edizione dei Poems of Saint John of the Cross. Le indagini nella letteratura
spagnola non lo abbandoneranno: negli anni, Barnstone traduce il poeta
agostiniano Luis de León (1979), Vicente Aleixandre (1981), Quevedo, García
Lorca e Miguel Hernandez (in: Six Masters of the Spanish Sonnet, 1993). Fra i
suoi libri di poesia ricordiamo From This White Island (1960), China
Poems (1977), Algebra of Night (1998), Life Watch (2003); l’ultimo libro
lirico, Moonbook and Sunbook, è edito nel 2014.
È pressoché impossibile districarsi nell’amazzonica bibliografia di Barnstone,
un poligrafo che non teme fatica, un poligrafo che odora di Himalaya; su Borges
ha scritto un grazioso pamphlet, With Borges on an Ordinary Evening in Buenos
Aires: A Memoir (1993), in cui, tra l’altro, rievoca un sogno narratogli dal
grande scrittore argentino. “Erano i giorni della ‘Guerra sporca’, le bombe
esplodevano in città; arrivai da Borges, lo vidi sconvolto, mi raccontò un
sogno”. Quel sogno è alla base di un racconto borgesiano, La memoria di
Shakespeare, che reca, a sua volta, lo stigma dell’incantesimo, del gioco di
prestigio. Ne riparleremo.
Molti anni dopo – il testo è raccolto nell’antologia Mexico in My Heart,
Carcanet, 2015 – Barnstone ha trasfigurato il suo legame con Borges in una
poesia dai molti sigilli, Borges and His Beasts:
> “Qualcosa è sbagliato nel tuo volto. Non è
> quello di un vecchio, ma di uno che non cresce.
> Nonostante i grigi capelli e l’occhio cavo come una tazza,
> morto, e l’altro, grigia trama di tumida nebbia
> dove un cervo bianco corre e scompare o lampeggia
> blu, in quel sogno dove hai dimenticato che si muore,
> e progetti un alfabeto di luce che faccia fibrillare
> la sfera del cuore. L’oscurità è sparita e ora devi
> sorridere come un bimbo. Succhi l’antica parola norrena
> che ti offre il cielo. Ma sei solo e sei assurdo
> e sai che c’è qualcosa di sbagliato. Viso da bimbo
> che ride, sembra un dente, l’occhio è un fiume
> perché ha conosciuto la pantera che non muore mai”.
Forse su suggerimento di Borges, Willis Barnstone s’inabissa nella Bibbia,
esplora lo gnosticismo, studia l’ebraico e l’aramaico. Le traduzioni degli
apocrifi, degli pseudoepigrafi e dei manoscritti del Mar Morto convergono in The
Other Bible (1984); nel 2003, insieme a Mervin Meyer raccoglie come The Gnostic
Bible i testi della tradizione gnostica cristiana, mandea, catara, ebraica. Il
suo The Restored New Testament (2009), che riesuma le fonti dei Vangeli canonici
e accoglie i cosiddetti Vangeli gnostici, è elogiato da Harold Bloom: “allo
stesso tempo, è un’eloquente, vivida traduzione dei vangeli e dell’Apocalisse e
un superbo atto di restituzione, di restauro”.
Nel 2004 ha tradotto i Sonetti a Orfeo di Rilke, il libro della vita.
> “Ho iniziato a scrivere versi nel 1947, dopo aver letto i Sonetti a Orfeo di
> Rilke in edizione bilingue. All’ultimo anno di università, cominciai a
> maneggiare il tedesco. Il libro di Rilke fu fondamentale per farmi capire che
> in poesia si potevano esprimere concetti filosofici – fu Rilke a consegnarmi
> alla poesia”.
C’è una generosità impulsiva in questo poeta traduttore, che non teme
l’avventura, l’avventatezza, la capriola e lo schianto. I suoi miracolosi
repertori antologici – A Book of Women Poets from Antiquity to Now, 1980; The
Literatures of Asia, Africa, and Latin America, 1998 – sono un invito al
viaggio, un monito ai poeti: andate lì dov’è l’ignoto, scavate, scoprite –
perdetevi, semmai, e sia bello il vostro essere candele nella tenebra.
Il poeta centenario ha attraversato tempi e poeti, volti e monoliti; nelle sue
mani, pari ad anfore, convergono i millenni, dal vello pieno. Opera di
mungitura, allora, di chi sa i proventi del coltello, di chi sa imboccare il
prossimo.
***
Il bene
Primo mattino, luna sulla landa
a cerchio gli uccelli di Ur, prima che
il diluvio lordi il ricordo della coppia
bandita dalle mele e dal fatale fuoco
del sangue: Adamo ed Eva a passeggio
nel ghetto giardino, accerchiano l’albero.
Non sanno l’incendio che scintilla tra
i corpi, non sanno leggere né parlare
conoscono la notte e il meriggio, gli sfugge
l’oscuro che non ha zenit. Adamo, Eva,
bestie buone, brade all’alba del globo,
cieca gente, come noi, all’apocalisse.
Sondano il sole, che irradia morte da un albero
rosso. La luce infuria, analfabeta – loro, se ne vanno.
*
L’usignolo
Benché l’orrore dell’usignolo
il sacro usignolo dall’inascoltato canto
che stride invisibile nella tormenta,
oltre l’albero delle stelle, sia solo un verbo
o una longitudine epistemologica,
è lui a svegliarmi, all’alba, l’occhio
inumato di croste, prima dell’estasi
del giorno. L’orrore non è mai distante:
l’arida biologia lede la speranza degli insetti:
la falena che intrappola la luna, il ronzio
della solitudine nell’ansimare dell’aria,
la trama dei vermi volanti. Eppure, è sempre
con me il segreto dell’usignolo, che mi illude.
Invisibile, anche io sono ancora qui.
*
In cammino
Cammino sempre: anche se la strada è corta
i passi sono infiniti. Qui
in Canada, le oche respirano lo stesso dolore
artico che aleggia nella mia anima introvabile,
ma le oche non sanno il freddo, volano alte
dalla Patagonia gaucho. Sono un uomo di carbone
e ardo sotto quegli uccelli dagli occhi di fuoco
intrappolati in abitudini elettriche.
Respiro il verde cielo – finché non mi coagulo.
*
Rendezvous
Papà, sei tornato stanotte.
Anni dopo il Tibet. Il viso lampeggia
e sorride tra i camion. Accendi
un fiammifero. Mi alzo dal letto
e siamo sulle colline dove nessuno
può vederci, dove non c’è testimone.
Vorrei darti il mio iPad. Sei un uomo
moderno. Non c’è bisogno del cappello.
I tibetani ci salutano. I monaci, come te,
non vogliono morire giovani. Bruciano
i loro corpi per protesta. Anche tu sei
logoro dal rogo della tristezza. Ora siamo noi
a dover varcare le colline. Il tempo ti ha reso
dolce, esatto. Per venire qui hai venduto
la casa in Colorado. Il cielo è nero
ora. Ci guida il sole interiore.
*
Dai “Sonetti a Orfeo” di Rilke
Silente amico di vaste distanze, odi
il tuo respiro che divarica le stanghe dello spazio.
Perduto tra le cinghie di campanili in rovina, suona,
permetti che rintocchi. Ciò che di te si nutre
trarrà il suo dominio da questo pasto.
Percorri la trasformazione, arretra
in essa. Cosa ti frena? Cediti. Se
bere è dolore, sii vino.
Sii notte, sii la sconfinata forza
e lascia che incroci i tuoi sensi.
Sii il senso di questo strano accordo. Va’ –
e se la terra svanisce, se ti ha dimenticato
sussurra al silenzio della terra: Io scorro.
E all’acqua che scorre: Io sono.
*
Da San Giovanni della Croce
Vivo ma in me non vivo
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
In me non vivo
senza Dio non posso vivere;
a lui o a me me stesso non
posso dare, dunque a che vivere?
Agonia di mille morti
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
Questa viva che solo vivo
è di vita ruberia, nulla se
non perpetua morte – nessuna
scappatoia se in te non vivo.
Dio, ascoltami, parole di verità
la mia: questa vita non voglio
muoio perché non muoio.
Il pesce pescato dal mare
ha la sua consolazione:
morte di breve durata
che infine reca sollievo.
Nessuna morte è più convulsa
e orrenda di questa mia patetica vita.
Più vivo, più muoio.
Provo sollievo soltanto
quando ti vedo nel sacramento
sprofondo nello sconfinato sconforto
privo della tua dolce compagnia.
Ora, tutto pulsa di dolore:
voglio – e non posso – averti
muoio perché non muoio.
**
Da Saffo
Lampi
se ci arride la sorte
ambiremo al porto
alla nera terra
Le raffiche di vento
fiaccano i marinai
che sperano
Nell’asciutto
nello sbarco
e scollegarsi
dal carico
che galleggia
Fatica molta
prima dell’approdo
sulla cruda terra
*
L’invito è per uno
non per tutti
al banchetto
che inaugura Era
perché vasta
sia
la mia vita
*
Silente
Zeus
dallo scudo di pelle di capra
e di Citera
ti prego
ti offro un cuore
saturo di bene
come nei giorni in cui lasciasti Cipro
ascolta la mia preghiera
vieni a me
lima le mie durezze
*
Espero, conduci a casa le rovine
dell’alba
conduci a casa le pecore
accompagna a casa la capra, alla sua casa
la bimba – c’è una madre che la aspetta
*
Imitano la morte
le colombe: quando l’anima
si fa fredda, le ali pendono
ai loro fianchi
*
No – non avrei potuto
credere di afferrare il cielo
con queste nude braccia
*
Verginità, verginità, te ne sei andata
lasciandomi sola.
Da te non verrà più – mai più mi vedrai.
*
Dimmi della sposa dagli stupendi
piedi – che Artemide
la figlia di Zeus drappeggiata di viola
deponga la sua ira
Venite, Grazie, venite Muse di Pieria:
il cuore è gonfio di incanti
e limpido sgorga l’inno
lo sposo infastidisce le dame
mentre l’Alba dai calzari d’oro
posa una lira sui loro capelli
*
Sortiranno inni
dalle vergini
tessitura d’amore
tra te e la sposa
dalla porpora veste
Svegliatevi, svegliate
i giovani della vostra età:
questa notte non dormiremo
saremo noi a destare
l’usignolo dalla vorticosa voce
**
Dal Vangelo di Matteo
Ecco: uscì il seminatore alla semina
e di ciò che seminava, seme finì in strada
uccelli calarono e mangiarono.
Parte su petraia, dove era poca terra
e seme subito sbocciò
perché non s’inabissava la terra.
Ma quando fu alto il sole
seccarono le piante:
prive di radici appassirono.
Parte finì tra spine e spine
finirono per soffocarlo.
Ma parte cadde su terra buona
e venne il frutto
il cento il sessanta il trenta
chi ha orecchie atte all’ascolto, ascolti.
Traduzioni e testi di Willis Barnstone
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americana proviene da Pangea.