Ci sono millanta poeti oggi che millantano la loro poesia: troppi, per
permettersi il lusso di continuare a brucare la terra polverosa e non alzare il
capo al Sommo Poeta, pronto a falcidiarci. Dante, l’insuperabile. Chi non
accetta di scoprire la gola, chi nicchia e cerca di sgamarla, come lo studente
che fa lo struzzo e abbassa gli occhi per non essere interrogato, non è poeta e
non ama la poesia. Chi non accetta la morte non sarà mai immortale.
Che poi il giochino viene facile: Dante è laggiù in fondo, nel mito, nel
passato, in un mondo che non c’è più, pigolano i poetini. Oggi siam tanti e gli
spazi di festa son pochi, stai fresco se dobbiamo confrontarci con i classici
(ma stiamo pure all’altroieri: Montale Luzi Zanzotto Sanguineti Caproni e
compagnia briscola). E qui scatta la mannaia di ogni avanguardia,
neoavanguardia, postavanguardia, non-avanguardia-ma-ricerca et similia: fare
tabula rasa. E potrebbe persino essere la volta buona, crollati tutti i punti di
riferimento, per cui si salvi chi può. Chi attraversa la selva oscura della
contemporaneità con cognizione di causa? Accidenti, mi sono tirata la zappa sui
piedi: di poetini che danno la mano, e forse non solo quella, al loro presunto
Virgilio d’oggidì ce ne sono fin troppi. Ma mica si prestano ad attraversare
l’inferno: cercano subito l’ascensore per i piani alti, per gli open space con
vista sui laghetti artificiali. Epperò gli editori pubblicano ciò che vendono,
della poesia non si occupano davvero più, così gli specchi diventano specchietti
per allodole, giusto per ricordarci del settore, dell’angolino in basso in fondo
alle librerie, quello spazietto da riempire tra i classici latini e il
teatro. Del resto si diventa editori per fare affari, e le scadenze sempre più
immediate impediscono di imbastire piani non si dica nemmeno stalinianamente
quinquennali, ma berlusconianamente trimestrali (cento giorni, via). Figurarsi
se i manager della carta stampata pensano al capitale simbolico da accumulare
nel corso dei decenni, al prestigio, alla rendita quando un autore finirà nei
manuali scolastici. I quali, poi, o restano cautamente fermi alla compagnia
briscola di cui sopra o tentano sortite con logiche sempre più vaghe,
confondendo le idee ai già confusi.
Che dite? Il compito di riconoscere i valori in campo spetterebbe ai critici?
No, per carità, smettetela di credere a babbo Natale. I critici non esistono
più. Oppure esistono in queste sottocategorie inutili e perniciose:
a) i critici militanti, i partigiani di una particolare idea di poesia, che poi
resta vaga perché va bene sia la prosa sia il sonetto, sia il testo
iper-retorico sia quello tendente al grado zero dello stile, sia l’approccio pop
sia l’impegno civile, qualsiasi cosa insomma purché si faccia parte di quella
nuvola di scrittori-insetti che continuano a ronzare intorno al capo del capo.
L’importante è che la poesia non sia sincera esposizione delle proprie
entraglie. E ci mancherebbe;
b) critici del post. No, non è questione di post-poesia, non ancora. E nemmeno
di post sui social, anzi. E non parlo nemmeno dei post-critici (in merito
leggetevi la Postcritica di Mariano Croce: vi farà bene). I critici del post
sono quelli che vivono della morte stessa della critica, ma continuano ad
abitarne le spoglie. Sono i critici postumi, quelli che fanno salotto attorno al
ring dove i poeti se la danno di santa ragione, pronti a intervenire solo dopo,
per premiare i vincitori. Sono quelli che ripetono ciò che si sa già (tipo:
Montale è il maggior poeta del Novecento – verità che tra l’altro sarebbe ora di
ridiscutere, ma questo un’altra volta), che non si occupano dei contemporanei
perché non è in caso di compromettersi e di rendersi responsabili,
maieuticamente, di ciò che di buono potrebbe anche venir fuori. Prima si faccia
il canone (con quali criteri: l’amichettismo e i giochi di potere? Io se ci sono
non guardo non vedo non sento non parlo, gesticola il suddetto), poi il critico
del post arriverà a incoronare il poeta e qualunque poesia proponga (tali
critici non hanno gusti difficili, anzi, non hanno gusti punto);
c) i critici accademici che, se animati dalle migliori intenzioni contro “la
cultura in scatola” (leggetevi adesso lo splendido Universitaly di Federico
Bertoni), restano comunque schiacciati dalla pila di libri che si accumula sulle
loro scrivanie e alla fine vanno un po’ a caso, pescando una volta a destra e
una volta a sinistra, una volta in alto e una volta in basso; se invece
ferocemente addestrati alle logiche del loro mondo, evitano la menoma
contaminazione col presente e preferiscono dedicarsi alla raccolta delle lettere
dell’ultimo riesumato futurista di turno, tanto loro sono accademici quindi
patentati e schifiltosi di qualsiasi immersione nella Palus Putredinis
oggidiana, in cui, francamente, non saprebbero affatto destreggiarsi: forse
meglio così, giacché farebbero soltanto danni maggiori;
d) i critici para accademici, che sono indubbiamente accademici e quindi guai a
presentarli con il titolo sbagliato, ma sono anche scrittori e intellettuali
ruspanti, scattanti di fronte a ogni possibile comparsata in tivvù, scattosi nei
social dove danno vita ai loro avatar, con cui non vanno confusi (studiosi del
dadaismo che si travestono e ballano il dadaumpa su TikTok), scazzati nei loro
stessi corsi di scrittura creativa, giacché di tesine scritte con l’IA ne han
già piene le balle o le ovaie, figurarsi di romanzi purtroppo scritti senza
l’IA;
e) i critici massimalisti, che possono sentenziare su chiunque, da Dante
compreso in giù, e affrontare qualsiasi argomento con la stessa reboante
loquacità di Cacciari, tanto i testi li guardano sempre con il binocolo, mica
impiccano lì le loro teorie, mica arrotano i versi come coltelli: qualunque
autore è una brodaglia insulsa, se solo non si adegua completamente al loro
imperscrutabile gusto.
Trovatemene uno che sappia ridimensionare qualche poeta maggiore di oggi, non
dietro l’anonimato di una giuria di premio condivisa con altri, ma con saggi
acuti, con analisi testuali, necessari altresì per addestrare lettori
competenti.
Tabula rasa, allora, dicevamo, poiché editori e critici non fanno filtro. “E se
ci pensassero i poeti stessi?” – filtra l’ultima bava di ottimismo da qualche
irriducibile novecentista caduto nel secolo sbagliato. Prendere atto: quei pochi
poeti che possono permetterselo, appunto perché arrivano fin qui con il
prestigio dovuto alle ultime onde del millennio scorso, di essere padri o madri
letterariamente non ci pensano nemmeno (e forse anche biologicamente arrancano:
intervenga il sociologo a indagare). Loro esercitano con compiacimento il potere
di scegliere, e scelgono con contezza di promuovere i mediocri, per meglio
evidenziare la loro statura letteraria e il loro potere editoriale. Fosse per
loro, applicherebbero la damnatio memoriae sistematicamente su chiunque
rivendicasse diritto di eredità (mica soldi, neh, si parla sempre di poesia) per
più antico lignaggio o per altra, irregolare, intrusione nella casata. Niente
bastardi, insomma. (Vallo a spiegare ai tali che la damnatio memoriae, appena
lasceranno la poltrona, toccherà a loro).
Ah, il malseme di Dante. Sommo poeta, pensaci tu.
*
Ma che significherebbe, oggi, tornare a volgere lo sguardo a Dante? Puro atto di
masochismo, verrebbe da sentenziare, poiché Dante è insuperabile per ovvie
ragioni: egli è la massima espressione di un mondo che non c’è più, capace di
portare a sintesi un’intera cultura. Dopo di lui, con impressionante rapidità
(già Petrarca è moderno) la sintesi si disgrega e passo dopo passo lirica,
economia, politica, scienza, medicina, filosofia e via elencando vanno
specificandosi iuxta propria principia, lungo una serie di rivoluzioni che hanno
portato dritti all’irreversibile agonia del tedio contemporaneo. Copernico,
Darwin e Freud sono i picconatori dell’antropologia occidentale, a cui
aggiungere volendo gli altri filosofi del sospetto per apparecchiarci alle
catastrofi novecentesche. Come non bastasse, appena riemersi dalle apocalissi
storiche e ideologiche, ecco l’avvento del digitale e l’intelligenza artificiale
adesso a consegnarci a una condizione che taluni già definiscono postumana.
Come guardare ancora a Dante, su quali fronti la sua grandezza ci interpella?
Tre questioni su tutte porrei come cartelli sulla strada di chi vorrebbe, da
poeta, tentare almeno di uscire dal labirinto della buona, patinata, mediocre
letteratura che inebetisce, e imbruttisce, l’epoca: l’ampiezza di registro
espressivo, il poema e l’esilio.
Qui, soffermiamoci sulla prima.
*
Varrà la pena ricordare ai versificatori meno avvezzi alla letteratura italiana
che Dante Alighieri non è il modello vincente della nostra tradizione. Ben
presto abbiamo tradito sì gran padre (anche se in tal caso il crimine non è solo
il parricidio letterario di generazioni successive, considerato il trattamento
riservatogli dai fratelli concittadini: del resto i luoghi comuni
dell’intellettuale che non sarà mai profeta in patria e del poeta destinato solo
a gloria postuma in qualche parte hanno radice). Ha vinto, semmai, Petrarca.
Come spiegano quelli bravi, Petrarca ha azzerato Dante (già frastornato
dall’improvviso revival del latino) e, con il beneplacito di quel curiale
grammatico del Bembo, la lirica italiana ha trovato nell’autore del Rerum
vulgarium fragmenta (volgarmente, il Canzoniere) la matrice del proprio
vocabolario. La ragione è elementare: costruire un dizionario della lingua
italiana sul repertorio vastissimo della Divina commedia (capace di aprirsi e
abbracciare tutti e tre gli stili: l’umile, il medio e il sublime) era
impraticabile. La soluzione ottimale, invece, era già pronta all’uso: la lingua
vaga, elegante, sufficientemente generica e allusiva, ma soprattutto
circoscritta, del Canzoniere. Perfetta per imbalsamare l’italiano (scritto) per
secoli, fino almeno a Leopardi, a sua volta capace del prodigio, giunti ormai al
secolo decimonono, di rispolverarlo e farlo suonare persino sorgivo. Roba da
necrofili prestidigitatori. Che poi, certo, in quello stesso secolo Dante torni
prepotentemente in auge in virtù degli umori romantici e risorgimentali è vero,
ma abbiamo dovuto re-inoculare la lingua sperimentale di Dante recuperandola
dalla finestra, via Eliot (senza dimenticare, tuttavia, l’edizione critica
delle Rime dovuta al giovane e talentuoso Contini: ma qui si è nutrita ancora
primariamente la vena lirica, attraverso lo stilnovismo mutante assorbito da
Montale. Del resto la Commedia in quei decenni veniva tagliuzzata da Croce
intento a separare l’oro della poesia dall’ottone della struttura, manco fosse
lui il miglior fabbro del parlar materno).
Dante paradisiaco secondo Moebius
Fatto sta che i conti con Dante si sono riaperti in fondo soltanto di recente.
Ma a giudicare dalla medietà patinata (aurea mediocritas?) e dal lirismo di cui
è ancora impregnato quanto meno il sottofondo comune del diffuso poetare nel
Belpaese, rinomata terra popolata di poeti a ogni latitudine, l’apertura alare
del Sommo all’interno della lingua materna ci relega al ruolo di pulcini in
ombra.
Oh, certo, di sperimentatori e di avanguardie si fa ricco il Novecento, ma
l’impressione è che vengano alla fine sempre spinti ai margini del canone,
mentre risultano vincenti ancora gli autori riconoscibili e brandizzabili, dallo
stile complessivamente monocorde, costante dall’inizio alla fine, che procede al
più per piccoli, equilibrati adattamenti. Facile, troppo facile motivare questa
tendenza, qualora fosse verificata (o storicamente, anche per pigrizia,
avallata): l’identità di un poeta si costruisce attorno all’autenticità di una
voce e per mezzo dell’abbandono di ogni orpello retorico, di ogni posa, di ogni
“canto” oggi insostenibile. Siamo nell’epoca del tono basso, dell’assenza di
pubblico, del poeta che si rivolge a un tu (in cui spesso si rispecchia sé
stesso). Siamo nell’epoca del relativismo, del pensiero debole, del male di
vivere. E siamo perciò rassegnati ai mugugni, pronti semmai a puntellare le
nostre rovine. Di costruire altre cattedrali non se ne parla nemmeno.
Diverrebbero in breve tempo chiese sconsacrate da riempire di libri insulsi, non
più in grado di consolare la carne triste dell’umanità inebetita sui display.
Siamo nell’infinita fine occidentale. Se mai passasse di qui un nuovo poeta
visionario, lo spediremmo subito all’esilio, spernacchiandolo a dovere. Dante,
più che insuperabile, è irraggiungibile. Lo si innalza, per imbalsamarne il
busto e rimuoverlo nella sua aura di perfezione. Italia, terra non solo di
poeti, ma anche di santi, ricordi che cosa scriveva Joseph Roth nella Cripta dei
cappuccini?
> “La Chiesa romana […] in questo marcio mondo è l’unica ormai in grado di dare,
> di conservare una forma. Anzi, si può dire, di dispensare una forma. In quanto
> racchiude nella dogmatica, come in un palazzo di ghiaccio, l’elemento
> tradizionale delle cosiddette ‘antiche usanze’, procura e concede ai suoi
> figli tutt’intorno, fuori di questo palazzo di ghiaccio che ha un ampio e
> spazioso vestibolo, la libertà di coltivare l’indolenza, di perdonare
> l’illecito, e anzi di commetterlo. Mentre statuisce i peccati, già li perdona.
> Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto
> eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo
> ammette implicitamente l’imperfezione umana. Anzi, ammette l’inclinazione al
> peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al
> peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa
> romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla
> remissione. […]”.
Ridotta a parrocchia periferica zeppa di epigoni, la poesia italiana innalza
Dante e concede plenaria indulgenza a sé stessa. Così, tra nani svetta chi ha la
sigla editoriale più spessa, e per ciò stesso si potrà legittimamente
autoinserire nelle antologie, mentre rigira per l’ennesima volta la frittata dei
propri versicoli strascicati.
Ahi, serva Italia.
Andrea Temporelli
*In copertina: William Blake, The Circle of Corrupt Officials: The Devils
Tormenting Ciampolo, 1825 ca.
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Scriveva Nietzsche nel 1881, che la filologia – arte di oreficeria verbale – ci
consente di sottrarci alla fretta, alla “precipitazione indecorosa e sudaticcia,
che vuol ‘sbrigare’ immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo”.
La lentezza del procedere filologico diventa così un modo di aprire fenditure
nella superficie per prendersi tutto il tempo, raccogliere tutto il silenzio
necessario, per andare dentro le cose “con dita e occhi delicati”. Il
volume Aneddoti letterari da Petrarca a Scheiwiller (Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 2024), a cura di Antonio Ciaralli e Carlo Pulsoni,
rispettivamente docenti di Paleografia latina e Filologia romanza all’Università
di Perugia, restituisce lo sguardo paziente degli studiosi.
Nella presentazione del volume, gli autori non mancano di sottolineare come il
richiamo nel titolo a Benedetto Croce, non possa far dimenticare la ben nota
avversione nei confronti della filologia, “incompatibile col proprio sistema”;
segno, per quanto ci riguarda, della serietà con cui sono disposti a considerare
perfino i limiti del procedere filologico, reo, secondo alcuni, di raffreddare
la potenza di un’opera letteraria, pur di ricostruirne le vicende che l’hanno
generata. Ma andare in profondità vuol dire entrare senza remore dentro l’epoca,
ricostruendo la storia della letteratura e della filologia in modo tale da far
irrompere questo passato, che soltanto, appunto, in superficie pare
archeologizzato, quindi morto, nelle espressioni di storia della letteratura e/o
della filologia, come fuoco vivo dentro il presente, sempre impegnato con
dannata fretta a liquidare sé stesso per inseguire un domani che si fa
contenitore vuoto.
I cinque capitoli che compongono il libro consentono salti temporali che vanno
dal Petrarca – con il riconoscimento della parziale autografia del manoscritto
Vaticano latino 3195, testimone dei Rerum vulgarium fragmenta del poeta, vero e
proprio punto di svolta nella storia della filologia petrarchesca – a Vanni
Scheiwiller, al mondo dell’editore milanese, al ruolo cruciale svolto nella
“riconciliazione ideologica” tra Pasolini e Ezra Pound. Il capitolo si apre
infatti con la fatidica data del 26 ottobre 1967 – specificando pure che si
trattava di un giovedì, sicché, al lettore, pare quasi di essere trasportato
personalmente indietro, dentro un incontro così carico di significati, non fosse
altro che soltanto la Poesia è in grado di superare gli steccati di vedute
ideologiche e politiche così diverse. Ma le coordinate di questo straordinario
incontro sono anche geografiche: Venezia, Calle Querini Dorsoduro 252, luogo di
riconciliazione.
26 ottobre 1967, giovedì
Senza tacere della relazione tra lo stesso Scheiwiller, Pasolini e il poeta
Biagio Marin, di cui il secondo fu sincero e vivace promotore e amico. In mezzo,
ci sono Leopardi, Montale, Ungaretti e Mario Praz. Lo spirito che anima questi
scritti e che illumina il senso profondo dello studio filologico è evidenziato
nella stessa introduzione, in cui Ciaralli e Pulsoni scrivono, a proposito del
ritrovamento del manoscritto su Petrarca, scoperto per la prima volta nel 1886
da Arthur Pakscher e Pierre de Nolhac, che la storia di un manoscritto finisce
con il riflettere lo spirito inquieto di un’epoca. Non a caso, proprio il
ritrovamento di questo manoscritto ebbe dei veri e propri risvolti politici, in
tempi in cui certamente filologia e storia concorrevano a ricostruire,
determinandola, l’identità nazionale degli Stati in Europa, in modo tale che la
supremazia negli studi storici e filologici garantisse in qualche modo
(blindandola, aggiunge chi scrive) quella sul piano politico. Perciò, guardando
dentro l’epoca e i suoi fermenti, possiamo osservare come le pretese
imperialistiche degli stati europei esondassero i piani meramente politici e
militari coinvolgendo, appunto, anche la filologia. Il capitolo su Ungaretti –
in particolare sulle varianti di Gridasti: soffoco – nella premessa sottolinea
la “difficoltà oggettiva” nel ricostruire origine ed evoluzione del testo. Come
giustamente rilevato da Marco Grimaldi, ciò è favorito anche dall’epoca digitale
in cui viviamo che, se da un lato consente una maggiore facilità nell’offerta
documentale al pubblico, dall’altro pare indurre surrettiziamente gli studiosi a
rinunciare alla ricostruzione (resa stratigrafica) del cammino di un’opera nel
tempo. Il volume, dunque, esprime fin troppo bene la cura da “sacerdoti della
memoria” che gli studiosi come Ciaralli e Pulsoni profondono in queste
discipline, che risalendo dentro la polvere del tempo sedimentata sulle opere,
le restituisce al loro ambiente, vive.
Livia Di Vona
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leggendario incontro tra Pasolini & Pound proviene da Pangea.