La Trinità di Andrej Rublëv è un incanto dilatato, di terso silenzio:
scoscendimento contemplativo, esperienza dell’ustoria gioia del proprio limite.
Il contenuto narrativo è tronco: tre angeli che appaiono a Abramo sotto le
querce di Mamre (Genesi 18,1-3) – tre persone, una voce sola –, e vivamente
alludono alla Trinità. Immagine cui ubbidire immobili, nell’estasi degli aurei
sfondi che trasudano dal legno; la disposizione di spazi e flussi di chiarore,
la trasparenza delle forme, l’azzurro profondo reiterato nei mantelli sono
proiezioni all’infinito; giovane e tenero verde: profumo dell’aperto, spirito
vivo; e il porpora velato, scuro del sacrificio: kenosi, offerta. Teologia
cromatica ardente, luminescenze che non appartengono alla fisica terrestre della
luce, bensì a quell’urgenza epifanica che porta l’annuncio dell’increato nel
visibile.
L’elemento umano è espunto, tutto è nei tre angeli, esilissimi, dalle ali
incorporee, seduti intorno a una mensa che reca il calice eucaristico: da
narrazione a diafanìa mistica: visione circonfusa di bagliori soprannaturali,
che sostiene la tensione all’ulteriore: la coinerenza armonica, circolare, delle
tre essenze trinitarie.
La quercia di Mamre: albero della vita, tronco della croce; sullo sfondo la
tenda di Abramo, la casa del Padre; la montagna della rivelazione; e, intessuti
di aurea chiarità, i tre angeli: in un cerchio quasi perfetto, a inclinare corpi
e volti l’uno verso l’altro, creando in chi osserva il ritmo interiore, silente,
del reciproco amore.
Guardare la Trinità è nuda intuizione del proprio limite, che spezza lo sguardo
in preghiera. Il mistero rimane stretto, inospitale, ma sfiora il basso profondo
dell’umana ferita.
Si partecipa senz’afferrare, possedere. Chi guarda è chiamato a sostare, ai
ripidi declivi dell’assoluto, soffrendolo in amore: tale il ruolo kenotico
dell’icona, “immagine conduttrice”, via “apofatica”, “ascendente” secondo Pavel
Endokimov[1], che si fa limen di catarsi trasfigurativa, evidenza di
inadeguatezza, pur adorante, grata.
Rublëv vive in epoca asservita, tumultuosa: il giogo tataro, i pesanti tributi
all’Orda d’Oro, le frammentazioni, i saccheggi: dilaniata e oppressa la Rus’,
non trovando spazi esteriori, reagiva interiormente, con la spiritualità devota
e unificante di Sergio di Radonez, “umile servo della Trinità”: dal monachesimo
disadorno, spoglio e il carisma mistico di un alter Christus del Medievo. Rublëv
iconizza questa condizione: l’impossibilità di comprendere, di circoscrivere il
fenomeno porta a una dolente evoluzione intima e personale.
È Pavel Florenskij a rilevare, più di chiunque altro, il ruolo attivo, salvifico
dell’icona, visuale in grado di sbalordire “con un colpo solo anche lo sguardo
più insensibile”, mediante “quel senso acuto, che penetra l’anima, della realtà
del mondo spirituale che, come un colpo, come una scottatura, sconvolge
all’improvviso” chi osserva, dando “un’autentica percezione
dell’aldilà, un’autentica esperienza spirituale”[2]; fino a poter dire: “se
esiste la Trinità di Rublëv, allora esiste Dio”[3]. È la condizione del limite
che patisce l’intero, l’irreparabile splendore: struggimento che diviene
vocazione.
Andrej Rublëv, Trinità, 1422 ca.
*
Così Osip Mandel’štam, astro di mitezza, prono solo all’infinito: perseguitato e
indomito, di fronte alle crudeltà della storia rende il suo dire poetico
frastagliato e regale, ardito come una leggiadra burrasca: teneramente grave,
dal passo sinfonico, concussivo, incendiario nella neve. Autentico poeta del
limite, che del dolore fa vermigli diaspri, parola tremante in ragione
dell’immenso: “Mia tristezza fatidica, presaga,/ mia quieta, silenziosa libertà/
e tu, sempre ridente, là, cristallo/ della volta celeste inanimata!”[4]. Uno
splendore inanimato, che tuttavia commuove. Cozzando con la propria esiguità, il
poeta schiude interiormente al sublime:
> “Io mi porto questo verde alle labbra –
> questo vischioso giurare di foglie –
> e questa terra che è spergiura: madre
> di bucaneve, aceri, quercioli.
>
> Mi piego alle umili radici, e guarda
> come divento insieme cieco e forte”[5];
di fronte a oppressioni e persecuzioni, di fronte all’ottusa concretezza,
rappresa e incoercibile, della materia e della storia, l’esperienza tetra e
glaciale pone il cuore a disarmo, portandolo a fulgore riverso, in intento e
parola:
> “dura è la terra, secondo coscienza.
> Rintraccerai a stento più puro ordito della
> verità d’una tela di bucato.
>
> Si disfa come sale, nella botte, una stella;
> più buia è l’acqua gelida, più pura
> la morte, più salata la sventura,
> ed è più onesta e paurosa la terra”[6].
Se onesto e pauroso è ciò che si staglia dinanzi, se fuori è durezza e gelo,
dentro è retrogrado incendio. È la barriera che sbarra il passo, e dunque impone
il retrocedere nei culmini accesi, nelle frugate, rinvenute nobiltà di sé
stessi. Eppure la creatura trema di fragilità e inadeguatezza, in specie quando
avverte la fugace, intima verità che centra il cosmo nel suo asse: della
soverchiante plenitudine, non saper dire:
> “Superando la fissità della natura
> il durazzurro occhio ne penetra la legge:
> nella crosta terrestre impazzano le rocce,
> dal petto sgorga un lamento minerale.
>
> E il sordo animalcolo si tende
> come per una strada a corno ritorta,
> per capire l’eccesso interno dello spazio,
> del petalo pegno, e della cupola”[7].
La poesia di Mandel’štam, pervasa di sensi supremi, di biblici e salmici
sentori, delinea il punto di arresto, di stasi assorta: inerme alla volgare
alterigia del potere staliniano, al terrore della tirannia, al “mare nero/ che
con greve rombo si addossa al capezzale”[8], ed esile, smarrita alle pendici del
sacro, la parola s’innalza, finanche più vigile, viva: più vera, nell’impotenza
che tocca l’impedimento, perché ad esso s’inchina: vi rende omaggio,
celebrandone fondamento e misura; è là, nella morsa del proprio poco, che essa
si riaffaccia: effimera, mobile, imprendibile, eppure caparbia: “Quando
distrutto l’abbozzo,/ ti sforzi di trattenere nella mente/ il periodo senza
pesanti glosse,/ unito e uno nella notte interiore”[9].
Tremare d’inadempienza delinea uno scenario teologico, se pur non di devozione
dichiarata: il sacro e l’immane presagiti, mai interamente intesi, custoditi in
amore al prezzo estremo: tutti teniamo affettuosa memoria di questo poeta “dei
dativi” in luogo dei “nominativi”, il rapsode dello “slancio esecutivo”, con la
sua “sacra stoltezza” da bizzarro “corifeo”: magrissimo, in punta di piedi,
dallo sguardo “teso, come cieco alle cose di poco conto”[10]. Amato Osip, scarno
ed eterno; imprigionato dalle pazzie del regime, privo di denti, semiassiderato;
così soavemente impavido, sognante: accanto a un cumulo di rifiuti, nei casti
albori di neve, a recitare Dante e Petrarca.
*
La precarietà, l’umana insufficienza, il caustico tocco del male non
compromettono, della parola, la vocazione sacrale, il richiamo metafisico come
pratica di resistenza. C’è l’ostinazione dei corpi, la cieca crudeltà della
storia, certamente. Tuttavia la tensione all’invisibile – nel poeta, nel devoto
che osserva l’icona, e in ogni essere umano che, spossato dal dolore, non lo
amplifica, non lo pratica su altri, ma si arresta nel proprio gracile enclave,
avendo cura del limite ricevuto in sorte – innalza l’anima al suo vertice:
> “A tu per tu, il gelo in volto io fisso;
> lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla;
> stirata, pieghettata, senza grinze,
> respirante miracolo, pianura”[11].
Nell’ottusa violenza del visibile, nello sgomento della bellezza, la micidiale:
disarmare il cuore, salire. Secondo Endokimov[12] l’uomo, creatura inferma, come
il servo di Yahweh in Isaia (53,2), è afflitto dal velo dell’imperfezione ma,
segretamente, in potenza, è, per volontà dell’Altissimo, un microtheós: dotato
fin dall’origine di uno speciale “carisma contemplativo” per esperire “il fuoco
ineffabile e prodigioso”, “lo splendore folgorante della Bellezza [di Dio]
dentro tutte le cose”[13]; l’uomo ha facoltà poetica, la potenzialità di
nominare, l’attitudine a sostenere e penetrare la radianza divina disseminata
nel creato, tanto da poterle dare nome: come Heidegger diceva di Hölderlin. Se
ogni cosa possiede il suo lógos, la sua “parola interiore”, posta in trasparenza
tra forma e contenuto dal fiat divino, ebbene l’infermità stessa della materia
corporale umana è trascesa “in un superamento, che è vera trasfigurazione”, in
cui “l’ostacolo viene messo al servizio dello Spirito con una misteriosa
conformità al destino segreto di un essere”[14], e “il pensiero umano che riceve
la rivelazione, si crocifigge per rinascere nella luce trisolare della verità
assoluta”[15]
È sostare con mite realismo nel limite e nel difetto, continuando ad amare, che
colma il divario, mediante la discesa della grazia. Il destino è il modo in cui
Dio sceglie di annullare la distanza, e di aprirci alla visione, alla “immagine
e apparizione della luce inaccessibile, specchio tersissimo, limpido, integro,
immacolato, inoffuscato, che riceve tutto lo splendore della prima
bellezza”[16], fino alla “identità per assimilazione”, “identità in atto” che,
“come un punto, unisce le due sponde al di sopra dell’abisso”[17]: dissolve la
pecca, il difetto, il doloroso confine: da immagine l’uomo va a somiglianza.
È questo, in Mandel’štam: il margine non è mera finitudine, ma ardua apertura:
inclinazione sofferta al mistero.
*
Nel Trisagion, canto antichissimo, nato nella liturgia bizantina nei primi
secoli del cristianesimo orientale, poi diffusosi nell’ortodossia slava, si
intona: « Ἅγιος ὁ Θεός, Ἅγιος ἰσχυρός, Ἅγιος ἀθάνατος, ἐλέησον ἡμᾶς», tradotto:
“Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”[18]. La ripetizione
triplice costruisce un ritmo di sospensione: tre attributi divini che
trascendono la natura umana precedono l’appello di misericordia: il fedele
riconosce la propria pochezza al cospetto del Padre, e partecipa in carenza e
povertà, adorando.
Il Trisagion è icona e poesia insieme, pura nozione del margine: la santità, la
potenza, l’immortalità sono qualità che eccedono l’umano, ma il canto
comunitario consente di entrare in relazione con esse attraverso supplica e
ripetizione, costruendo un tempo sospeso in cui la finitudine si apre al
trascendente. L’incontro con la propria precarietà è invocazione condivisa, come
nella contemplazione di Rublëv o nel gesto poetico, dato e ricevuto, di
Mandel’štam. In quest’ottica, il limite è l’unica forma possibile di relazione
con l’invisibile, spazio fecondo di elaborazione della sofferenza, piattaforma
di devozione radicata nell’umiltà.
*
Jean-Francois Thomas, in una lunga, incantevole meditazione filosofica[19], pone
Simone Weil e Edith Stein in delicata dialettica riguardo afflizioni e amarezze
dell’umana esistenza; a ben guardare, il tema del testo è precisamente il
limite: soglia da oltrepassare per esperire la piena comunione col sacro, nonché
incompiutezza costitutiva della creatura incarnata, gettata nel cronotopo e
sferzata dagli automatismi della necessità.
L’intero volume è un’accorata riflessione su come due cuori sublimi provarono ad
amare l’Eterno da quaggiù, ad accogliere il reale nei suoi orrori senza negarlo,
a renderlo teoreticamente compatibile con il sommo bene, che è Dio: cercando di
superare la propria corporeità nel continuo slancio all’infinito. Edith infine
vi riuscì, con umilissimo abbandono, ponendosi nella consegna totale; Simone non
ammorbidì mai il suo atteggiamento radicale, rimase di una durezza intellettuale
incorruttibile: la sua postura morale era inconciliabile con le “consolazioni”
della fede: pur praticando la compassione attiva, solidale con i più sventurati,
fino a morirne, non riuscì a porsi in grembo a Dio. Esattamente il limite, sia
come sofferta incarnazione, sia come limen di accesso alla completa comunione in
spirito col Padre diviene un assunto nodale del libro. L’abbandono, come in
Jean-Pierre de Caussade[20], è l’istante consegnato, il luogo d’innocenza dove
Dio ama posarsi, dandosi in trasparenza:
> Non è più una vita di pensieri, una vita di immaginazione, una vita di
> discorsi e di parole, ad occupare l’anima, a nutrirla, a sostenerla: essa non
> procede più, non si sorregge più su queste cose. Non vede più dove cammina,
> non prevede più dove camminerà; non si aiuta più con la riflessione per
> infondersi coraggio nello sforzo e per sopportare i disagi del cammino; essa
> avanza ormai nell’intima coscienza della sua debolezza. La strada si apre
> sotto i suoi passi, l’anima vi si inoltra e prosegue senza esitare; essa è
> pura, santa, semplice e vera.
Nella spiritualità ortodossa è lo jurodivyj, il folle in Cristo, esempio di
quella stoltezza paolina che confonde i sapienti (1 Cor 1,27): è san Basilio il
Benedetto, è il principe Myškin, l’idiota che dobbiamo diventare, cioè il genio,
come diceva Cristina Campo. Un ideale pressoché inattingibile, per la natura
incessantemente mobile e conflittuale dell’animo umano.
Con allegorica esattezza, è proprio Cristina che, nel trattato Les sources de la
Vivonne[21], riguardo il luogo fascinoso – citato da Proust nella Recherche, –
che dà nome al saggio, afferma:
> Infinitamente più delicata e tremenda è la presenza dell’immenso nel piccolo
> che non la dilatazione del piccolo nell’immenso.
Tramite la sua scrittura intensamente simbolica e metafisica, nello scenario
riportato, Cristina registra l’affinarsi di una dismisura: l’immaginario
proustiano della catacombale Entrata agli Inferi, della Cosa
extraterrestre s’arresta in un piccolo lavatoio quadrato, “da cui montano delle
bolle”.
Quest’immane che s’annida nel minuto ricorda ferocemente la presenza di Dio nel
cuore dell’uomo: condizione di astrale potenza, di temibile prodigio, perché si
assottiglia in vigoria letale l’immenso quando è costretto nel vincolo di
un’esiguità. L’interiorità umana è dunque così ricolma e spaventosa, e vacilla
tra bene e male con suscettibile, concisa, nervosissima instabilità.
L’immenso di Dio nel limite dell’uomo crea un movimento continuo tra spirito
afferente all’Eterno e miserevoli margini dell’incarnazione. Allorché indigenze
e pochezze vengono attenuate tramite una tenace adesione allo Spirito, rimane
comunque un dibattito continuo di ribilanciamento, che può significare, nelle
note vie dialettiche di rovesciamento degli opposti, una sofferta e splendida
tensione alla salvezza:
> In un rapporto non immaginario – un rapporto dal quale il gioco delle forze
> sia escluso – nessun sentimento o pensiero regge a lungo isolato ma ciascuno
> si capovolge rapidamente nel suo opposto.[22]
In un rapporto non immaginario, ma attentivo: laddove il limite, reclusione
primaria, accolto e pacificato, intaglia il vivente nel suo profilo, gli dona
identità. Allora dal carente lembo incarnato, dalle doglie di una mente vana e
breve, s’innalza l’affidamento, la preghiera, per ricevere svelato il destino:
> Esisteva l’immenso soliloquio, il privatissimo canone che insegna a ricondurre
> alla sua fonte e al suo fine la sorte di ogni uomo su questa terra: il
> Salterio[23].
Nel salmodiare la menomazione diviene contorno, abbozzo di figura che chiede un
assenso, obbedienza al presagio, all’elezione.
Vi è un limite di partenza, condizione data, misura imposta nel vincolo
creaturale, e vi è un limite di arrivo, che è adesione, temperanza: la
terminale disciplina di accordare la propria esistenza a una feconda povertà e
spoliazione, fino a risiedere gioiosamente nella mancanza. Nessuna virtù, solo
la via ineludibile alla compiutezza. Allorquando il limite, connaturato, viene
esaudito dal proposito, s’arriva al non asservimento: alla libertà. Ecco,
ancora, il rovesciamento degli opposti: dando assenso al vincolo, da figure
corporee e desideranti, si va verso altri spazi, a rinsaldarsi in essenze
spirituali, dimoranti nell’assoluto: “Dio precipita a piombo in queste celle, in
questi corpi, con un solo tremendo batter d’ali. E nei corpi, radicati nel cielo
come sono, è una forza che spaventa”.[24]
L’incarnazione è, per ogni mistico, la grande prova, l’attraversamento: per
giungere al distacco, a mitezza radicale, priva d’autoasserzione. Deporre sé
stessi, con fede intera nel sopramondo: far ruotare in petto quel cuore
legato che precludeva l’impossibile.
Il limite, la pecca, la mancanza, sono l’asse di rotazione del cuore nel petto:
cessione di privilegi ed esenzioni, apertura al perenne attrito Frygt og Bæven,
timore e tremore, porsi nelle mani di Dio. In tale ascesi, tutto è per
sottrazione, un avanzare inverso al silenzio e al vuoto; un restare con
cura nella pazienza e nella mancanza, nell’obbedienza, nel rifiuto, alimentano
il soffio dello Spirito: la virtù negativa che tesaurizza, mentre la tentata
affermazione di sé, a contrappunto, disperde e dissipa. Campo – “io non ti
voglio più cercare./ Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia,/ se la corda del
cuore non sia tesa”[25] – durante tutta la sua vita esprime il sogno mistico di
aderire in spirito, di combaciare, rimanendo nella gioia dell’inidoneità,
nell’amore purissimo: il cuore sia una corda tesa.
Dandosi misericordia, assentire a quel punto scoperto dell’armatura che si fa
sorte, rotta ineluttabile, nitida identità:fisionomia, inventario di penurie e
talenti; vocazione: “Un vuoto ricolmato di silenzio, nel quale il destino
precipiterà per legge fisica come l’energia nel vuoto pneumatico”[26].
Spoliazione, stasi, umiltà: spesso si delineano efficacemente solo innanzi
all’irreparabile. Ed è per attinenza che viene alle labbra Giuni Russo, icona
pop degli anni Ottanta, la cui nitida e irrevocabile verticalità si era
manifestata fisicamente, fin dagli albori, in un’estensione vocale di oltre
cinque ottave. Giuni indossò la propria maschera mediatica, come dovuto al
mondo, nell’inessenziale, nell’affettato ed estensivo che le era richiesto,
fintantoché non ebbe piena esperienza della cifra scoscesa della sua esistenza:
che prese forma intera, toccante, negli ultimi anni della sua vita. Dio la
raggiunse svelandole il nesso, il pertugio, donandole la sua metanoia,
conversione del cuore, che rese fulgido e serrato il suo cammino: intagliato nel
limite di un malanno del corpo con cui Dio se la portò vicinissima, e poi la
chiamò a sé.
Senza fanatismi, senza mistificanti delirî, perché sia chiaro che vivere sani e
lieti è un bene incomparabile, che nulla deve al patire o al morire; ma quello
stato metanico, così puro e spoglio, di via nitida, segnata, come afferma
Olivier Clément, “si precisa necessariamente in memoria della morte, nel senso
forte di una anamnesi. ‘Ricordiamoci a ogni istante, se possibile, della morte’
scrive Esichio di Batos, e commenta: ‘Questo ricordo ha per effetto l’esclusione
di ogni vana preoccupazione, la custodia dello spirito e la preghiera
costante’[27] […] La memoria della morte non riguarda la morte biologica in sé,
ma lo stato spirituale che la morte simboleggia e sigilla”[28].
Tutta l’ultima produzione artistica di Giuni Russo è di un misticismo
sottilissimo, lucente. In una sua canzone-poesia c’è un presagio del
limite-soglia così fulgido, e un senso del limite-carenza così limpido, da
regalare istanti di somma beatitudine, e la benedizione delle lacrime:
Io nulla
Primizia del mio tempo
Orlo del velo che copre la presenza
Dal vivo occhio mi penetra
Un raggio di pura luce
Fai cantare alla mia lingua
Melodie sconosciute
Dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea
Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla
Sciàmano pensieri di pura luce
La via dell’assoluto rischiara
Primizia del mio tempo alla presenza
Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla, io nulla
Oso fiorir
Sciàmano pensieri di pura luce
La via dell’assoluto rischiara
Primizia del mio tempo
Alla tua presenza
Io nulla, io nulla, io nulla
Fai cantare alla mia lingua
Melodie sconosciute
Che nascono nel cuore
La notte se ne va
Primizia del mio tempo
Alla tua presenza
Io nulla, io nulla, io nulla
Davanti a te
Io nulla
Se l’ego ferito, l’ego rapace, l’ego senza limite e misura, in ogni sua follia
esaudito senza restrizione, è l’instancabile, inconscio servo del male; se è,
come appare, presupposto di ogni attrito e conflitto; ebbene, nella
personalissima sensibilità di chi scrive – a prescindere da qualsivoglia
dottrina o devozione, nella nuda umanità quotidiana, nell’intimità con sé
stessi, al cospetto del proprio Dio, di fronte alla sfida di amare profondamente
e interamente l’altro – Io nulla è l’unico canto, l’unica verità che, in
quest’epoca oscura, ci possa ancora salvare.
Isabella Bignozzi
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[1] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona,
prefazione di Jacques Rousse, Edizioni San Paolo 1990, pp. 222-223
[2] Pavel Aleksandrovič Florenskij, Iconostasi. Saggio sull’icona. Traduzione e
cura di Giuseppina Giuliano, Edizioni Medusa 2008, pp. 55-56
[3] ibidem, p. 52
[4] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Giulio Einaudi
editore 2009, p. 5
[5] ibidem, p. 169
[6] ibidem, p. 85
[7] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave. A cura di Serena Vitale,
Adelphi Edizioni 2017, p. 43
[8] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 55
[9] Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 45
[10] Serena Vitale, Cuscini, codici, crisalidi. Saggio introduttivo a Osip
Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, op. cit., p. 13-29
[11] Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, op. cit., p. 155
[12] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., pp. 38-41
[13] S. Massimo, Ambiguorum Liber, PG 91, 1148C., rip. in Pavel Nikolaevič
Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op. cit., p. 41
[14] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., p. 39
[15] ibidem, p. 231
[16] S. Massimo, Mystagogia 23, PG 91, 701C
[17] Pavel Nikolaevič Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, op.
cit., p. 41
[18] Pasquale Ferraro, Canti della divina liturgia e settimana sante. Rito
bizantino. Testo greco a fronte, Milella 2012
[19] Simone Weil ed Edith Stein, Infelicità e sofferenza, prefazione di Gustave
Thibon, Edizioni Borla 2002
[20] Jean-Pierre da Caussade, L’abbandono alla provvidenza divina, traduzione di
Melisenda Calasso, Adelphi Edizioni 1989
[21] I° Ed. in “Paragone” XIV, n° 164, agosto 1963; ora in Cristina Campo, Gli
imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi
Edizioni 1987, p. 45
[22] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 152
[23] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 114
[24] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 219
[25] Cristina Campo, La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell,
Adelphi 1991
[26] Cristina Campo, Gli imperdonabili, op. cit., p. 119
[27] A Théodule, CLV, Philokalia greca, éd. Astîr, t. I., p.165
[28] Olivier Clément, Jacques Serr, La preghiera del cuore, Àncora Editrice
1998, postfazione di Pavel Endokimov
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Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.
Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la
seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo
nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il
memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza –
ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La
Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita
–, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la
poesia resterà.
A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che
brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per
sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e
senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.
Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono
con cui si dice padre.
*
È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in
radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove.
Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il
cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak
preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in
questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti
complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà
la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come
da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa
dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii
vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per
terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”,
Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi,
archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa
l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli
interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa,
per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un
taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno
mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione
naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato –
Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza:
> “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho
> messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia
> sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di
> Darwin. È un umorista preterintenzionale”.
Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il
più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad
Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967).
In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per
Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.
*
In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi,
le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le
nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage,
il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia
fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte
le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e
innocente, canta e uccide.
Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava
Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera
nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo
felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.
Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla
“notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla
Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di
Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di
sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore:
compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in
battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche
più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro
vanto.
*
Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali
di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del
linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.
Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso
Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in
Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i
sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e
l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato,
come un fazzoletto.
*
Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”,
un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era
sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza
abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a
volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo
Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano
nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.
A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia.
“Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al
novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la
supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case
editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà.
Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di
partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono
decimati.
*
Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena
Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può
circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al
trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è
il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.
Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso
al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la
patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi
negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan
firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia
sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero
stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica
di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a
Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di
catastrofico successo.
Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole
violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla
Achmatova quando le capitava di incontrarla”.
*
Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di
eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni
Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo
atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho
rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un
caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in
Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito
d’addio”.
Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico
attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena,
recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio
il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in
uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo,
verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe
binario morto, gambe Orient Express!
Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo
soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento.
Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.
Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un
libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero
mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il
burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la
ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico
per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la
scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto
al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo
stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che
spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E
poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una
Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che
sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano
immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le
ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa
regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita
quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso,
e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.
Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia
Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto
dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare
la posta.
*
Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura
armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la
parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare
rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra-
Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.
Lapidare, lapidazione di labbra.
*
Eccolo, lui:
> “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli
> occhi.
> Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è
> pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino
> della donna maritata.
>
> Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi
> come una cosa ovvia”.
Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia,
Mandel’štam.
I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del
merlo e della rupe cincia.
L'articolo “Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam
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