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“Il ghigno della vita che lotta”. Vincenzo Montisano o della rinuncia al consolatorio.
Lo ammetto, per chi come me nel tempo ha frequentato prose e versi in odor di dannazione, ergendoli a protesi del proprio animo turbato, allestire scaffali e vetrine con l’ennesimo libro in cui campeggia l’ennesimo volto femminile è pura mortificazione. Abbiamo veramente bisogno di un’ulteriore storia con protagonista femminile, alle prese col suo personale riscatto, su di uno sfondo storico predeterminato? Saluto perciò con un senso di felicità e rivalsa ogni libro che del tanfo del politicamente corretto, o dei trend del momento, non emana neanche un vago sentore. Ed eccolo Inaugura stanotte il secolo del bene, romanzo d’esordio di Vincenzo Montisano edito da Wojtek. È con opere di tale fattura che certi lettori si riscoprono esteticamente bipolari. Come spiegare altrimenti il senso di claustrofobia che si condensa nelle pagine, ma che sfocia in una capillare ossigenazione dei tessuti post lettura? > O quando Marcel Boll mi disse: «Esistono infiniti modi di morire, ragazzo, e > uno soltanto per vivere: il mio». Di giorno delirava d’onnipotenza. A sera > invece si lasciava assassinare dal piatto freddo della cena. Sai Karl, era > così mio padre. Un uomo dalla postura sociale invidiabile, diresti tu. Se ne > stava nella nostra villa di famiglia dentro alla cassa di legno dolce, a mani > giunte. Beato, un ciarlatano in attesa di santificazione. L’abito aveva le > tasche cucite. Le bare devono essere pulite, le tasche dei morti sempre > chiuse. A guardarlo faceva un po’ specie e un po’ ridere. Gonfio di gas > intestinali, livido di rabbia perché la caducità non l’aveva risparmiato. Che > decadenza nelle cose di questo mondo. Ché morendo sfoggiano il meglio di sé. E > infatti un dio minore doveva avergli aperto quel ghigno in bocca. Era il > ghigno della vita che lotta più forte prima di perdere. La smorfia di chi non > s’è reso conto d’essere all’ultimo giro di bevute. Hugo Boll, figlio inquieto di un’aristocrazia decadente, si rivolta contro tutto ciò che abbiamo eretto a presidio della nostra normalità. Una furia iconoclasta che investe famiglia, affetti, società. Una tensione forse scomposta, ma necessaria, che lo porta a inciampare sull’autorità, a covare dissapore, a esercitare il diritto all’ostilità. E come se ciò non bastasse, un’insolita febbre incombe sulla città di ***, un turbamento collettivo che spinge sempre più individui all’auto-mutilazione. Nel dilagante caos che serpeggia tra le vie, un oscuro luogo sembra emanciparsi dall’architettura generale; un coacervo d’incubi, fisiologia elementare e teatralità dell’assurdo. Un romanzo che abdica all’istinto di vita, che reca con sé la rinuncia al consolatorio. Ciò che sentiamo sulla nostra epidermide a lettura conclusa è la perdita dell’interezza. > L’amore è una gabbia d’aspettative. Un attimo prima me la cavavo niente male, > passeggiando per i parchi, acquistando questo o quel capo nelle boutique > d’alta sartoria, e l’attimo dopo rincasavo vittima di uno sconforto > inconsolabile, preda delle batterie di interrogativi che proliferavano sulla > superficie opaca delle cose. E Leda invece patteggiava senza rimorsi con la > commedia umana. Se le chiedevo quale fosse il senso delle sue settimane, lei > rispondeva che svegliarsi la domenica, al mio fianco, senza l’impiccio del > lavoro, la faceva scoppiare di senso; se discutevamo dell’infinito, > candidamente affermava che una spiegazione della vita ne avrebbe di sicuro > ucciso la poesia. Dove trovava l’energia per tenere accesa quella luce sul > viso? Nessuno ci guarda, le dissi quella notte. Nessun dio avrebbe permesso > tanta mediocrità. L’infittirsi delle tenebre potrebbe conferire al libro un’aurea di maledizione impenetrabile, ma come ogni opera d’arte che si rispetti ecco il risvolto estetico della medaglia: il ghigno mutare in riso. Vincenzo Montisano, che già si era fatto notare per la sua novella Logica degli incendi, si conferma voyeur ispirato. L’inquadratura è sì condotta in primo piano, ma più che motore unico dei fatti, l’autore assegna al suo protagonista un ruolo atipico, quello di osservatore-osservato.  Nonostante la portata degli eventi che propizia e subisce, Hugo continua a manifestarsi come riverbero di se stesso. Un difetto congenito rovista nelle sue volontà, declassandone le azioni da volute a subite. Niente in lui osa cristallizzarsi in fede, un distacco algido che lo pone a debita distanza dalla Storia. E quando il tutto sembra impattare nel vicolo cieco dell’opprimente, ecco il guizzo, il godimento del voyeur che ci viene in soccorso. La fascinazione germoglia dal fonema, si radica poco dietro la pupilla e saetta scialata oltre la corteccia prefrontale. Signori: la grazia dalle cose a dispetto delle cose. > Da qui in poi, Karl, non ci fu ritorno. Avevo spiato da una crepa l’esistenza > denudarsi. Mi dissi no, l’intera faccenda è una pura idiozia. Noi, uomini > pratici, branchie del vecchio continente, che avevamo licenziato i demoni e le > acquasantiere, per cui non c’era stato altro che mangiare e bere, scopare e > dormire, macchinare, consumare e morire, stavamo per essere travolti da un > flagello dalle inesauribili e perverse riserve immaginifiche. Gianluca Pìtari *In copertina: un collage di Max Ernst (1891-1976) L'articolo “Il ghigno della vita che lotta”. Vincenzo Montisano o della rinuncia al consolatorio. proviene da Pangea.
November 28, 2025 / Pangea
Manovre per scavarci la tomba. Kōbō Abe o del deserto della nostra umanità
> «“Ningen Sabaku”, deserto di umanità, è il termine che i giapponesi usano per > indicare Tôkyô. Questa spaventosa e affascinante megalopoli inghiotte ogni > anno molte migliaia di persone che svaniscono nel nulla come ombre».  > > Dall’introduzione di Gian Carlo Calza(Longanesi & C., “La gaia scienza”, > Milano, 1972) Non potrò più né nominarla né pensala impunemente; né, sedendo su una spiaggia o tra le dune di un ipotetico deserto, considerarla inerte – stupido! – e priva di un vago senso di minaccia, latente o sopito. Dopo essere scivolato come in un cratere terrestre dentro alle pagine de La donna di sabbia di Kōbō Abe, la sabbia mi risuonerà negli orecchi per sempre come sinonimo di lavoro, di schiavitù e di morte. D’ora in poi, non dimenticherò più d’annoverarla come il quinto elemento naturale, di rilevanza mitica ai miei occhi, al pari dell’acqua e del fuoco, dell’aria e della terra.  Considerata statica e arida, alla luce di questo romanzo, insignito del Premio Unesco quale “opera rappresentativa” del patrimonio letterario universale, la sabbia diventa agente dalla volontà autonoma, penetrante, umida e corrosiva; un’entità bifronte con cui è meglio non averci niente a che fare. Capace di spingersi fin dentro ai reconditi anfratti dell’animo umano, in grado di impossessarsi della dimensione materiale e immateriale del mondo, essa è in perenne movimento, e si sposta, e muta d’assetto, pur preservandosi, nella sua primitiva e spietata essenza, uguale a sé.  Questo eterno nomadismo la rende cosa assolutamente viva e, allo stesso tempo, ne decreta un carattere ostile verso qualsiasi altra forma di vita che presso di essa tenti di insediarsi. > “La sabbia non si riposa mai. Senza rumore, ma con certezza, invade la > superficie della terra distruggendola a poco a poco… L’immagine della sabbia > che continua a spostarsi dette all’uomo uno choc indicibile e lo eccitò. > Pareva che la sterilità della sabbia non fosse semplicemente dovuta alla > siccità, come viene interpretata in genere, ma alla sua mobilità perenne che > rifiuta la presenza di ogni forma di vita dentro di sé. Quale sollievo se si > pensa al senso opprimente che comporta ogni realtà di questo mondo, che ci > costringe persistentemente a rimanerle aggrappati! Certo, la sabbia non crea > un ambiente adatto per la vita. Ma è davvero assolutamente indispensabile > stabilirsi in un luogo per vivere? Non è forse il desiderio di stabilirsi in > un luogo che dà il via a quella concorrenza obbrobriosa tra gli esseri > viventi? Se uno rifiutasse di stabilirsi in un luogo e si lasciasse andare > insieme ai movimenti della sabbia, non ci sarebbe più la possibilità di > concorrenza.” L’insegnante Junpei Niki, entomologo amatoriale, decide di trascorre le ferie andandosene a caccia di nuove specie di insetti. In particolare, spera di scoprire un inedito esemplare di cicindela che, secondo le sue supposizioni, sopravvive negli habitat sabbiosi e di poter così iscrivere il proprio nome, a futura memoria, negli elenchi delle enciclopedie specializzate. Approda perciò in uno sperduto villaggio di campagna, in un’ampia zona desertica del Giappone. Al calar del sole, su una delle centinaia di dune che assolvono al compito di omologare visivamente il paesaggio circostante, l’uomo viene avvicinato da un vecchio che, malgrado un primo approccio brusco e diffidente, gli offre poi ospitalità notturna presso una delle case del villaggio. Ingannato dall’apparente buona fede del vecchio, l’uomo (definito genericamente “uomo” per l’intero arco del romanzo e quindi, privato dell’identità nominale, già relegato in qualche misura allo status di persona scomparsa) si lascia guidare presso la dimora promessa.  La casa è costruita sul «basso ventre» di una buca enorme, scavata per decine di metri nella sabbia. A sporgersi dal bordo, della casa in basso s’intravedono soltanto il tetto e il porticato pencolante. Nient’altro. Il vecchio lo invita allora a calarsi tramite una scaletta di corda, prontamente allestita, e, nonostante le perplessità iniziali che nutre, l’uomo decide di dargli ascolto. Cosa mai potrà succedermi, sembra pensare lui mentre affonda volontariamente nella buca, sono Junpei Niki, nato il 7 marzo 1927, ho una compagna, amici e colleghi, ho regolare contratto di lavoro con l’istituto scolastico, faccio parte di cerchie rispettabili e di una più ampia, e anch’essa assai rispettabile, società civile; sono oggetto di tutele da parte del sistema sanitario nazionale e protetto dai codici giuridici di molti tribunali, ai quali posso fare appello in caso di controversie o, dio non voglia, di atti di violenza.  Ma non appena mette piede sul fondo della buca, il vecchio ritira su la scaletta. Con essa non svanisce soltanto la possibilità fisica di tornare al conforme mondo di fuori, ma scompaiono le ferree convinzioni su cui quel mondo si ergeva, tanto inamovibile e sicuro. È l’innesco dell’incubo. > “Alla vista della donna, l’uomo rimase senza fiato dimentico del dolore negli > occhi. La donna era completamente nuda. Nella visione offuscata dalle lacrime > la donna sembrava galleggiare nell’aria come ombra. Supina sul pavimento di > giunco intrecciato, era distesa con l’intero corpo completamente nudo, salvo > il viso, una mano leggermente appoggiata sul basso ventre, gonfio sotto la > vita ben tornita. Le parti che rimanevano abitualmente nascoste erano esposte, > mentre il viso, la parte che nessuno ha paura di mostrare agli altri, era > accuratamente nascosto sotto un asciugamano. Comprensibilmente, era per > difendere dalla sabbia gli occhi e l’apparato respiratorio, ma il contrasto > parve far risaltare la nudità del corpo. Per di più, tutta la superficie del > corpo era ricoperta da un velo finissimo di sabbia dai granuli minuscoli. La > sabbia celava i particolari del corpo mettendo però in rilievo le curve > tipicamente femminili; tutto sembrava una statua argentata di sabbia.” Nella casa in fondo alla buca, abita una donna anonima, tanto remissiva nel privato quanto assoggettata alle logiche sistemiche perverse del villaggio che sopravvive anche grazie al suo faticoso e insensato lavoro di spalare la sabbia, in cambio della razione giornaliera d’acqua e di cibo. La donna accoglie l’uomo con sospetto. Rifà il letto, in silenzio. Prepara l’acqua calda in bollitori infestati di sabbia, in silenzio. Il suo mutismo è un’omissione volontaria della verità. Non sa quanto, se e come aprirsi con il nuovo venuto. E tra i due s’insinua una tensione prima verbale, fatta di continue richieste da parte dell’uomo – perché, come mai, che succede – che la donna, evasiva, lascia inesaudite. Poi questa stessa tensione si gonfia e si ramifica in una necessaria attrazione sessuale – magnifica qui l’associazione di Kōbō Abe tra la copula e una fredda redazione d’incartamenti, di atti notarili e di certificati, immagine che desublima l’attività “scandalosa” a mero scambio di liquidi corporei, burocratizzato e su cui, conclusa la transazione, apporre un timbro di visura. I due esseri umani, come ologrammi, appaiono a un tempo naufraghi e reduci, esiliati e proscritti da un mondo tentacolare che non ne contempla la morte, e li alimenta, soltanto per ragioni d’opportunismo. Il vecchio, infatti, cala nella buca una pala per «il nuovo arrivato». Quella pala è il contrassegno che suggerisce all’uomo d’integrarsi bonariamente, senza scalpitare; è l’utensile attraverso cui siglare un accordo di lavoro che lo renderà utile agli occhi della comunità del villaggio e perciò degno d’essere mantenuto in vita. La cosa appare all’uomo del tutto assurda ed è qui, ai primi vagiti della sua disperazione, che inizia a franare il muro tra la realtà finzionale e la realtà del lettore, che patisce la deriva del protagonista in queste infinite onde – di sabbia. La sprezzante, delicata e ultra-nichilista metafora intessuta dall’autore ha come obiettivo, mai dichiarato, di accorciare le distanze tra i due piani, di far sì che quella sabbia onnipresente possa strisciare fuori dalle pagine e mettersi lentamente a consumare, a logorare e infine a sgretolare le certezze, i pilastri santi e intoccabili su cui un individuo strutturato del nostro tempo crede di fondarsi.       > “Nessuna notizia indispensabile. Una torre di illusioni costruita con mattoni > inesistenti, messi su da mani disordinate. Se, tuttavia, le notizie fossero > state tutte indispensabili, la realtà sarebbe stata come un oggetto di vetro > soffiato, così fragile da non poterlo toccare con le mani. In fin dei conti, > la vita quotidiana è piena zeppa di cose illusorie. Per questo, tutti, > consapevoli del non senso delle proprie azioni, fissano il centro del compasso > nella propria casa.” Chissà com’è il mondo quando non ci siamo. Le cose distanti si ammantano di un fascino inaudito, allattando desideri e fantasmagorie, e quelle vicine, facili da afferrare o di cui si è già in possesso, vengono ricacciate nella vasta cesta della noia e declassate d’ufficio tra i fumi dell’abiura. È così che all’uomo, di fronte alla tanto agognata possibilità di fuggire concretamente dalla buca, si spegne in gola, tra le irritazioni causate dalla sabbia ingerita, anche l’ultimo desiderio.  > “Guardando in su verso l’orlo della buca, messo in rilievo dal chiaro della > luna, l’uomo pensò che quel sentimento bruciante si chiamava forse gelosia. > Geloso delle vie cittadine, dei treni che trasportavano i lavoratori, dei > semafori agl’incroci delle vie, della pubblicità sui pali della corrente, > delle carogne dei gatti, delle farmacie dove vendevano anche le sigarette, > geloso di tutto ciò che esprimeva la densità della vita sulla terra. Come la > sabbia aveva intaccato le pareti interne di legno e i pilastri, la gelosia > l’aveva trafitto lasciandogli un buco nel corpo, rendendolo vulnerabile come > una pentola vuota messa sul fornello. […] Benché si trovasse tuttora in fondo > alla buca, l’uomo si sentiva ormai come in cima a una torre altissima. Forse > il mondo era stato capovolto e le sue vette e le sue valli erano state > rovesciate.” La donna di sabbia è una violenta e dolorosa presa di coscienza dell’infamante condizione umana, dibattuta tra il giogo della fame e quello del lavoro. Uno spettacolo di marionette in cui si intuiscono chiaramente sia i fili di controllo sia le dita del burattinaio. E l’aspetto più desolante è che tutto, all’interno e all’esterno della narrazione, risulta strettamente normale, normato.  Uomini e donne che, oggi ancor più che nel 1962 (anno della prima edizione giapponese), vengono filati su un telaio dalle trame geometriche, ripetitive e conformiste. Colui che fu insegnante e ossequioso contribuente all’erario, è adesso, per sempre e soltanto, un uomo che aderisce, suo malgrado, all’utero di terra a cui non sapeva di appartenere. Qui, non c’è un viaggio di ritorno. Qui, non esiste caverna platonica che regga.  Ogni azione porta al seppellimento della precedente fino a che non si avrà più nemmeno voglia di muovere un muscolo. Dentro o fuori la buca, fa lo stesso. Misurati sulla bilancia gli esisti della propria esistenza, è semmai il fuori a risultare posticcio e inflazionato. Presso quale illusoria idolatria decideremo di sacrificare interamente i nostri giorni? Con quali scuse, per esserci lasciati traviare dalla nostra natura, ci accosteremo all’estremo respiro? Con quante e quali convinzioni, giuste o sbagliate, ma necessariamente indotte dall’esterno, moriremo infine? Da dèi invincibili e onnipotenti, a umilissimi insetti che in sé non sono capaci di covare altro che il germe di un servilismo degno del più belante ovile.  P.S. Questo libro è sconsigliato ai convinti sostenitori della propria univoca postura nel mondo, ai patrocinatori delle campagne per l’installazione di nuove piante sulle scrivanie al fine di abbellire le forche impiegatizie dette uffici, agli zelanti conferenzieri della logica usuraia del lavoro che dà il pane ed esige la vita, ai trombettieri del «bisogna immaginare Sisifo felice», puah!, ai carcerieri inconsapevoli di quelle gabbie, mentali e non, che mai risultano dorate abbastanza e che pure elargiscono soddisfazioni a iosa, mascherando la prigionia con l’autoaffermazione, la schiavitù con la libertà; e, va da sé, scoraggio dalla lettura gli entomologi principianti.  A ciascuno la propria pala, che di sabbia, e di buche in cui rintanarsi, ne è pieno il mondo. Le manovre per scavarci la tomba sono iniziate da un pezzo. Siamo in ritardo. Non demordiamo!  Vincenzo Montisano L'articolo Manovre per scavarci la tomba. Kōbō Abe o del deserto della nostra umanità proviene da Pangea.
October 28, 2025 / Pangea
Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un libro devastante
Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap, dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è niente da fare: la sfida la vinci o la perdi. Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale, col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere “pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente corpo.  > “Di aguzzini e torturatori noi, in fondo, è come se ne avessimo bisogno. Non > appena questi vengono meno, dileguandosi per forza di cose nel nostro passato, > siamo pronti a sostituirli, a prendere il loro posto; assumiamo il loro ruolo, > contro di noi. Continuiamo a ferirci, negandoci ogni diritto a una tregua, > continuiamo a far del male a noi stessi, come se il virus con cui ci hanno > infettati non potesse smettere di operare, richiedendo per sua natura una > continua proliferazione, una mutazione inarrestabile. Il virus che sopravvive > perché debellarlo sembrerebbe impossibile. E così, incrementando la nostra > dipendenza, ci trasforma in molestatori e carnefici di noi stessi; non > dobbiamo permettere che la familiare dose di mutilazione e castigo e > sabotaggio vada perduta, e in mancanza di fonti esterne, dobbiamo > somministrarcela da soli.” Quella sera, nella tana dell’orso, nell’aria sulle teste della platea si condensa un sottile stato di elettricità. I volti dei partecipanti, molti dei quali hanno già affrontato il calvario della lettura, sono contratti, come anneriti da un velo. Si avverte ciascuno mettere mano agli scaffali più oscuri dell’anima e scavare, in segreto, nell’intimità delle proprie angosce chiedendosi: cosa avrei fatto, se fosse successo a me? La risposta è una mano fredda sulla fronte, gelida come il cadavere del buonsenso che quella domanda ha appena ucciso.  L’incontro ha un carico emotivo a tratti insostenibile. Alcuni dettagli che Mota decide di condividere da sotto la visiera del suo berretto, pescati direttamente dalla sua esperienza, deflagrano come mine antiuomo all’interno della sala, dando un peso specifico a un terrore che poteva vantare, fino a quel momento, una certa dose di incorporeità. L’aberrante condotta del nonno. La disperazione furibonda del padre. L’istantaneo omicidio di un’intera famiglia, il giorno in cui, a molti anni distanza, Mota decide di confessare la verità dei fatti. Squarciando il velo. Gettando la maschera. Le conseguenze sulla platea sono evidenti. > “Mi sto inoltrando verso il dormitorio in un’ombra più estesa e più fitta. A > chi vuoi dirlo?, bisbiglia la voce piena di sangue, con quelle innumerevoli e > minuscole gocce di sangue sulle corde vocali. Non voglio dirlo a nessuno, > perché non c’è niente di sbagliato, forse lui ha davvero rischiato di morire > ma io non ho fatto nulla di male. Non vuoi dirlo a nessuno? Neanche a te > stesso? No. E allora lui ha vinto. > > Davvero? Domani farò colazione. E sì che racconterò tutto, ma solamente a > Martin e a Vanessa. Domani, quando ci sveglieremo, faremo colazione. Con i > biscotti e il latte freddo, in modo che i biscotti inzuppati solo per un > attimo non diventino molli e restino comunque croccanti e piacevoli da > mordere, e non vadano a formare quella poltiglia sul fondo della tazza.” Di rado capita, specie nel nostro anemico panorama letterario, di trovarsi di fronte a un’opera che obblighi a un tour nell’abiezione prima dell’uscita, che sia in grado di far sanguinare il lettore anziché leccargli l’ego; un’opera il cui tema risulti tanto scomodo, scivoloso, inospitale, e solitamente relegato a semi-taciuti o presto insabbiati scandali ecclesiastici, da poter essere ritenuto respingente. Anzi, si potrebbe affermare che l’abuso minorile sia una di quelle dispute in cui è meglio non immischiarsi (non giova agli affari) o su cui soprassedere, facendo finta di niente.  La Luce Inversa rifiuta categoricamente di volgere altrove lo sguardo, di schierarsi a favore di un glissato troppo spesso in voga nei corridoi delle sedi istituzionali. I suoi contenuti non risparmiano niente al lettore. I dettagli anatomici. Le pratiche di adescamento e stupro. Le secrezioni. Le cantine maleodoranti. La necrosi dei rapporti di forza relazionali su cui un individuo può, in condizioni, per così dire, sane, fondare la propria identità. Nessuna edulcorazione. Nessuna salvezza.  Vanessa, Siddiq e Martin sono gli incolpevoli protagonisti delle storie di violenza infantile che raccontano e nella così detta “camera a luce inversa” partecipano all’esperimento terapeutico di regressione della dott.ssa Hollis. Con uno stile lirico ad alto contenuto immaginifico (si odono gli echi dei Canti di Maldoror, di Lautréamont), Mota ci costringe a guardare laddove è più buio. Laddove in eterno muore ogni possibile redenzione. Pur non rinunciando al montaggio e a un certo gusto dickiano per la science–fiction, la lingua si dispiega sulle pagine, alta, agile e ricca, dilatandosi, dagli abusi al mare, dalla “casa tra le nuvole” alle remote galassie interstellari, come gas da inalare d’un fiato, fino in fondo, fino a imparare, anche noi, per interposta persona, la tecnica maestra per scarnificare le pareti organiche dei nostri inferni privati. > “ […] gli disse che tutto questo era capitato anche a lui molto tempo prima e > che un altro vecchio ormai morto aveva fatto con lui le stesse cose che adesso > lui stava facendo con il bambino che erano le cose più normali che potessero > accadere tra due come loro due così legati e analoghi e necessari e obbligati > lì a esserci l’uno per l’altro che tutto si ripeteva allo stesso modo da > generazioni che era una specie di insegnamento e di trasmissione e non > bisognava averne paura e allora il bambino disse va bene nonno e smise di > singhiozzare e più tardi disse al vecchio che aveva freddo ma proprio attorno > allo zero assoluto il vecchio continuava a cantilenare delle cose più normali > che potessero accadere e poi di colpo il vecchio cambiò modalità strisciò > sulle ginocchia ripercorrendo il materasso in direzione del muro trafficando > con la cintura dei pantaloni al centro del contagio di luce sospesa si slacciò > i pantaloni e poi slacciò la bocca del bambino spingendo con un dito sul mento > e con l’altro sul labbro superiore mentre con una spalla appoggiata al muro > […]” Per quanto abbiamo disimparato a sentirci coinvolti negli orrori e nei genocidi che, nel silenzio complice dell’Occidente, il nostro tempo pubblicamente sbandiera, se esiste un modo di “superare” la lettura de La luce inversa è quello di prendere sulle nostre spalle un pezzo di abominio. Farci carico di un brandello di questo dolore e smettere di sentirci intoccabili davanti all’altare del trauma. Consideralo un neo comunitario. Quando usciamo dalla tana dell’orso, dopo due lunghe ore di indagini del baratro, restiamo per un attimo fermi, sotto a un cielo che nel frattempo si è fatto scuro. Il libro, sul ring della lotta per la sopravvivenza dell’individuo, vince la sfida per knock-out. Chissà se, come consorzio umano, riusciremo a vincere mai, almeno ai punti.     Vincenzo Montisano *In copertina: Anselm Kiefer, Schnee, 1995-2012 L'articolo Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un libro devastante proviene da Pangea.
June 17, 2025 / Pangea