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Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un libro devastante
Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap, dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è niente da fare: la sfida la vinci o la perdi. Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale, col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere “pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente corpo.  > “Di aguzzini e torturatori noi, in fondo, è come se ne avessimo bisogno. Non > appena questi vengono meno, dileguandosi per forza di cose nel nostro passato, > siamo pronti a sostituirli, a prendere il loro posto; assumiamo il loro ruolo, > contro di noi. Continuiamo a ferirci, negandoci ogni diritto a una tregua, > continuiamo a far del male a noi stessi, come se il virus con cui ci hanno > infettati non potesse smettere di operare, richiedendo per sua natura una > continua proliferazione, una mutazione inarrestabile. Il virus che sopravvive > perché debellarlo sembrerebbe impossibile. E così, incrementando la nostra > dipendenza, ci trasforma in molestatori e carnefici di noi stessi; non > dobbiamo permettere che la familiare dose di mutilazione e castigo e > sabotaggio vada perduta, e in mancanza di fonti esterne, dobbiamo > somministrarcela da soli.” Quella sera, nella tana dell’orso, nell’aria sulle teste della platea si condensa un sottile stato di elettricità. I volti dei partecipanti, molti dei quali hanno già affrontato il calvario della lettura, sono contratti, come anneriti da un velo. Si avverte ciascuno mettere mano agli scaffali più oscuri dell’anima e scavare, in segreto, nell’intimità delle proprie angosce chiedendosi: cosa avrei fatto, se fosse successo a me? La risposta è una mano fredda sulla fronte, gelida come il cadavere del buonsenso che quella domanda ha appena ucciso.  L’incontro ha un carico emotivo a tratti insostenibile. Alcuni dettagli che Mota decide di condividere da sotto la visiera del suo berretto, pescati direttamente dalla sua esperienza, deflagrano come mine antiuomo all’interno della sala, dando un peso specifico a un terrore che poteva vantare, fino a quel momento, una certa dose di incorporeità. L’aberrante condotta del nonno. La disperazione furibonda del padre. L’istantaneo omicidio di un’intera famiglia, il giorno in cui, a molti anni distanza, Mota decide di confessare la verità dei fatti. Squarciando il velo. Gettando la maschera. Le conseguenze sulla platea sono evidenti. > “Mi sto inoltrando verso il dormitorio in un’ombra più estesa e più fitta. A > chi vuoi dirlo?, bisbiglia la voce piena di sangue, con quelle innumerevoli e > minuscole gocce di sangue sulle corde vocali. Non voglio dirlo a nessuno, > perché non c’è niente di sbagliato, forse lui ha davvero rischiato di morire > ma io non ho fatto nulla di male. Non vuoi dirlo a nessuno? Neanche a te > stesso? No. E allora lui ha vinto. > > Davvero? Domani farò colazione. E sì che racconterò tutto, ma solamente a > Martin e a Vanessa. Domani, quando ci sveglieremo, faremo colazione. Con i > biscotti e il latte freddo, in modo che i biscotti inzuppati solo per un > attimo non diventino molli e restino comunque croccanti e piacevoli da > mordere, e non vadano a formare quella poltiglia sul fondo della tazza.” Di rado capita, specie nel nostro anemico panorama letterario, di trovarsi di fronte a un’opera che obblighi a un tour nell’abiezione prima dell’uscita, che sia in grado di far sanguinare il lettore anziché leccargli l’ego; un’opera il cui tema risulti tanto scomodo, scivoloso, inospitale, e solitamente relegato a semi-taciuti o presto insabbiati scandali ecclesiastici, da poter essere ritenuto respingente. Anzi, si potrebbe affermare che l’abuso minorile sia una di quelle dispute in cui è meglio non immischiarsi (non giova agli affari) o su cui soprassedere, facendo finta di niente.  La Luce Inversa rifiuta categoricamente di volgere altrove lo sguardo, di schierarsi a favore di un glissato troppo spesso in voga nei corridoi delle sedi istituzionali. I suoi contenuti non risparmiano niente al lettore. I dettagli anatomici. Le pratiche di adescamento e stupro. Le secrezioni. Le cantine maleodoranti. La necrosi dei rapporti di forza relazionali su cui un individuo può, in condizioni, per così dire, sane, fondare la propria identità. Nessuna edulcorazione. Nessuna salvezza.  Vanessa, Siddiq e Martin sono gli incolpevoli protagonisti delle storie di violenza infantile che raccontano e nella così detta “camera a luce inversa” partecipano all’esperimento terapeutico di regressione della dott.ssa Hollis. Con uno stile lirico ad alto contenuto immaginifico (si odono gli echi dei Canti di Maldoror, di Lautréamont), Mota ci costringe a guardare laddove è più buio. Laddove in eterno muore ogni possibile redenzione. Pur non rinunciando al montaggio e a un certo gusto dickiano per la science–fiction, la lingua si dispiega sulle pagine, alta, agile e ricca, dilatandosi, dagli abusi al mare, dalla “casa tra le nuvole” alle remote galassie interstellari, come gas da inalare d’un fiato, fino in fondo, fino a imparare, anche noi, per interposta persona, la tecnica maestra per scarnificare le pareti organiche dei nostri inferni privati. > “ […] gli disse che tutto questo era capitato anche a lui molto tempo prima e > che un altro vecchio ormai morto aveva fatto con lui le stesse cose che adesso > lui stava facendo con il bambino che erano le cose più normali che potessero > accadere tra due come loro due così legati e analoghi e necessari e obbligati > lì a esserci l’uno per l’altro che tutto si ripeteva allo stesso modo da > generazioni che era una specie di insegnamento e di trasmissione e non > bisognava averne paura e allora il bambino disse va bene nonno e smise di > singhiozzare e più tardi disse al vecchio che aveva freddo ma proprio attorno > allo zero assoluto il vecchio continuava a cantilenare delle cose più normali > che potessero accadere e poi di colpo il vecchio cambiò modalità strisciò > sulle ginocchia ripercorrendo il materasso in direzione del muro trafficando > con la cintura dei pantaloni al centro del contagio di luce sospesa si slacciò > i pantaloni e poi slacciò la bocca del bambino spingendo con un dito sul mento > e con l’altro sul labbro superiore mentre con una spalla appoggiata al muro > […]” Per quanto abbiamo disimparato a sentirci coinvolti negli orrori e nei genocidi che, nel silenzio complice dell’Occidente, il nostro tempo pubblicamente sbandiera, se esiste un modo di “superare” la lettura de La luce inversa è quello di prendere sulle nostre spalle un pezzo di abominio. Farci carico di un brandello di questo dolore e smettere di sentirci intoccabili davanti all’altare del trauma. Consideralo un neo comunitario. Quando usciamo dalla tana dell’orso, dopo due lunghe ore di indagini del baratro, restiamo per un attimo fermi, sotto a un cielo che nel frattempo si è fatto scuro. Il libro, sul ring della lotta per la sopravvivenza dell’individuo, vince la sfida per knock-out. Chissà se, come consorzio umano, riusciremo a vincere mai, almeno ai punti.     Vincenzo Montisano *In copertina: Anselm Kiefer, Schnee, 1995-2012 L'articolo Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un libro devastante proviene da Pangea.
June 17, 2025 / Pangea