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La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura
L’articolo va sotto l’etichetta Attualità. Secondo l’articolo c’è un posto nel mondo, il mio stesso mondo, dove c’è una bambina di 12 anni “così malnutrita che riesce a malapena a parlare.” L’articolo è corredato di foto, la didascalia recita sia della bambina malnutrita. Secondo la madre: “Se qualcuno la tocca o lei prova a muover le braccia o le gambe, grida di dolore.” A questo punto tocca a me, lettore, decidere cosa farmene dell’articolo.  Leggerlo diminuirà le sofferenze della bambina o aumenterà soltanto il mio senso di disaffezione verso la specie umana, qui da me rappresentata? Leggerlo servirà a far entrare i generi alimentari in quel posto del mondo dove per ora non possono entrare poiché, impedendo l’entrata dei generi alimentari si debella la minaccia che gli abitanti di quel posto rappresentano per gli abitanti del posto confinante, a detta del governo confinante è così che si fa, il quale governo, impedendo l’entrata dei generi alimentari, consente ci siano in quel posto “più di 70 mila bambini[…] ricoverati in ospedale per malnutrizione acuta” e che “1,1 milioni non dispongono del fabbisogno nutrizionale giornaliero necessario per sopravvivere”? Mi dico: i giornalisti che hanno scritto l’articolo di certo si augurano che io, leggendolo, faccia poi tutto ciò che è in mio potere per far sapere al governo del mio di posto che non continuerà a restare in carica a lungo se non fa nulla perché i generi alimentari entrino in quel posto lì del mondo, che non lo resterà perché perderà il mio voto e quello di moltissimi altri, e a me dispiace per loro, perché io il governo del mio posto non l’ho mai votato, con me non ha nulla da perdere, d’altronde seppure il governo in carica del mio posto mi fosse stato meno inviso dubito avrebbe avuto comunque il potere di influenzare il governo del paese che sta impedendo l’entrata dei generi alimentari in quel posto nel mondo dove un sacco di 25 chili di farina bianca costa 372 dollari. Per di più dubito che chi sostiene il governo del mio di posto smetta di sostenerlo perché quel posto nel mondo viene affamato. Sono dell’idea, o sono io che li calunnio pensandolo, sia comunque sempre meglio tenersi amico il governo del posto che li affama, siccome tenersi per amici loro, gli affamati, non arrecherebbe nessun beneficio, anzi. “Cari giornalisti”, direi ai giornalisti dell’articolo, “chi meglio di voi può accorgersi che uno più è povero più deve pagare le cose più di quanto le paghino i non poveri. Ai ricchi addirittura si regala. Si fa di tutto per farsi benvolere dai ricchi. Dai poveri invece si vuole stare alla larga. I poveri sono contagiosi. I ricchi purtroppo no.”  Un dottore, nell’articolo, “spiega che la carestia ha causato aborti spontanei e la nascita di bambini pericolosamente sottopeso con gravi malformazioni.” E se non si trattasse di un articolo d’attualità ma di una storia? “C’era una volta un posto dove i bambini nascevano pericolosamente sottopeso e con gravi malformazioni, quando non venivano abortiti prima – e c’era chi diceva fosse meglio così, essere abortiti prima.” Come continuerebbe la storia? Quali dilemmi morali, tuttavia del tutto speculativi, offrirebbe? È nell’articolo o nella storia a esserci un padre che dice: “Mi sento impotente quando i miei figli chiedono il pane e io non ho nulla da dargli. […] A volte mi auguro che possiamo morire assieme in un attacco aereo, per non soffrire la fame e questa continua agonia”?  Il personaggio del padre mi catturerebbe o, da raffinato lettore quale sono diventato, lo troverei troppo piatto, prevedibile, retoricamente debole? A dei giornalisti un padre in tale situazione cosa può mai raccontare, se non la versione più pietistica di sé stesso? Però bisognerebbe indagarlo. L’articolo del padre dice la sua famiglia conti nove persone. Ora, non saranno tutti figli ma la media dei figli, nell’articolo, è di quattro o cinque. Bene, così come ho sentito dire che in quel posto non si viene affamati ma che vi si debella l’obesità, non vedo perché non se ne possa dire che non si stanno uccidendo persone ma impartendo loro i rudimenti della pianificazione familiare.  Come si comporta il personaggio del padre con moglie e figli quando il governo del paese confinante non si impegna così a fondo per distruggere gli abitanti di quel posto dove abita anche lui, il padre? Cosa fa nella vita quando non è sotto diretta minaccia di invasione e distruzione? Approfondiamo il personaggio, rendiamolo credibile, esigiamone la doverosa parte di miserabilità comune a ogni vivente. La bimba nella foto – ritorno alla foto di corredo all’articolo – mostra una sua foto da uno smartphone, è la foto di quando non era denutrita ma una bella bambina dalle guance floride. Quindi adesso devo spegnere tutto, rimuovere l’articolo – è quello che faccio tutti i giorni, come vuoi che sia possibile sopravvivere sapendo di un milione e centomila persone studiatamente affamate, in quel posto lì, ignorando selettivamente gli altri posti dove pure agli abitanti gliene vengono fatte passare di ogni? – e calarsi nella scena, da sviluppare ulteriormente: c’è una bambina che grida di dolore se la tocchi, che ha le costole sporgenti e i capelli che cadono. Dall’articolo: “I capelli le stanno cadendo. Le costole le sporgono.” Bisogna immaginarsela mentre con le mani ossute accende lo schermo dello smartphone per rivedersi com’era prima della fame. In uno specchio magico e crudele.  Aveva bei capelli mossi, la sua vanità di bambina, e le guance paffute. Mia figlia ogni mattino si guarda allo specchio per controllare quanto le sono cresciuti i capelli. Sono la sua vanità da bambina. O tu lettore – mi dico – fai attenzione, altrimenti potrebbe insinuarsi il dubbio io stia intendendo che posso capire la sofferenza della bambina giusto perché una bambina ce l’ho anche io, quasi dispensando chi una bambina non ce l’ha dal poterla capire altrettanto, anzi quasi spingendolo a dire: Chi tante e chi nessuna, di bambine, e nel caso del personaggio del padre: ha tanti figli, averne qualcuno in meno alla fin fine per lui potrebbe rivelarsi addirittura un sollievo. Preciso perciò che avere una bambina mi aiuta a capire la vanità della bambina della foto, non certo la sua sofferenza, che non comprendo affatto, che non voglio comprendere, sempre per quella ragione del dover sopravvivere rimuovendo la consapevolezza sui fatti di cui sopra. Ho famiglia, io, oh, sono disumanizzato per giusta causa. La bambina, la scena è questa, soffre tanto per il suo essere uno scheletro dolorante ma è lo star perdendo i capelli a procurarle una sofferenza di ordine superiore, indimenticabile.  Non devo dimenticare chi ha scritto l’articolo, che lo ha scritto dopo averne scritti altri e che altri ancora ne scriverà. Lui, loro, come me, non potranno restare a lungo in compagnia della bambina. No, proprio no, bisogna rimuoverla. Bisogna andare avanti, quanto più non si può andare avanti tanto più si deve andare avanti il più velocemente possibile.  La bambina vive con sette familiari in quel posto nel mio stesso mondo, così riporta l’articolo di attualità. Saranno i sette familiari a restare con lei, ricordandosi di lei, assieme a lei. Io, lettore, devo solo illudermi chiedendomi: quando di anni ne avrà ventidue, poi trentadue, poi quarantadue, la donna che sarà come penserà alla bambina che sarà stata, al suo corpo in fiamme, ai suoi capelli diradati, al suo volto afflitto che a dodici anni già ne dimostrava molti di più?  A cinquantadue anni o sessantadue, specchiandosi, quella donna si dirà: “Ecco, questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto quando ne avevo dodici.”  La storia allora potrebbe cominciare così, non spaventando i lettori aprendosi su un posto gremito di aborti e malformazioni, come la cloaca del Golgotha su cui si apre il romanzo Barabba di Lagerkvist, ma con una donna di sessantadue anni che guardandosi allo specchio pronuncia per sé stessa e per tutti coloro che la leggeranno la frase enigmatica: “Ecco, questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto da bambina.”  Chi legge vorrà sapere: come, lo stesso volto? Cos’è, una storia fantastica, paradossale? E continueranno a leggere, sorretti dal sollievo iniziale: quale che sia stata la vita attraversata da quella donna almeno si ha certezza che abbia vissuto fin lì, che sia sopravvissuta. L’Ismaele melvilliano rappresenta sempre l’infantile speranza di sopravvivere per raccontarla. Che la bambina sopravviverà, che invecchierà, l’articolo e i giornalisti che l’hanno scritto non possono garantircelo. Io lettore non posso sapere se la bambina che viveva fino a pochi giorni fa nel posto della fame sia ancora viva ora che sto pensando a lei. Una storia, per essere una storia, dovrebbe tornarci su molto spesso, dovrebbe a continuare parlarci della bambina per più pagine, fino a un compimento o a una svolta o a qualcosa che gli assomigli. Una storia garantirebbe alla bambina il rifugio di una memoria collettiva molto più di un articolo di giornale, ma un articolo di giornale è tutto ciò che abbiamo. I giornalisti non possono continuare a scrivere della bambina, nessun giornale gli pagherebbe la storia della bambina dal costato sporgente che perdeva i capelli per la fame, e neppure io.  Io lettore non posso che immaginarla per la durata di un’altra piccola scena futura, immaginarmela mentre a dodici anni guardando la sua foto di poco tempo prima, del tempo prima della fame, dice a sé stessa: “Ecco il volto che avrò tra cinquant’anni, quando sarò sopravvissuta a tutto questo, chiedendomi che senso avrà avuto essere sopravvissuta a tutto questo.” antonio coda *In copertina: Fernand Khnopff, Ritratto di bambina, 1895 L'articolo La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura proviene da Pangea.
June 3, 2025 / Pangea
Contro i coccodrilli. Ovvero: ecco perché Mario Vargas Llosa è ancora vivo
Mi sono ripromesso che non leggerò nulla di scritto su Vargas Llosa giusto perché è morto, nessun articoletto salmodiante tenuto in caldo in attesa della salma apposita e sfornato per vendere qualche copia in più al mattino, come con Martin Amis, Paul Auster, e tutti gli altri eccetera all’indietro e in avanti. Non leggerò nessun aneddoto autobiografico pubblicato per dare l’impressione che loro, gli aneddotici, siano ancora vivi e lui, Vargas Llosa no, mentre anche così sarà vero il contrario, o meglio: l’opera letteraria di Vargas Llosa resterà più viva di chiunque pretenderà di essere nella condizione di poterla ricordare: è la letteratura che ci ricorda, che ci mette nella condizione di ricordarci semmai di noi stessi; quando avviene il viceversa non è letteratura, non lo è mai stata.  Non leggerò nulla su Vargas Llosa in morte di Vargas Llosa se prima non leggerò qualcos’altro di Vargas Llosa stesso. Di suo proprio di recente ho letto L’orgia perpetua ripubblicato di recente dalla Settecolori, l’avevo recuperato nel circuito dell’usato nella precedente edizione con la stessa traduzione, invece sono passati almeno un paio di decenni dal mio essere uscito frastornato dal romanzo che ha aveva separato la mia strada da lettore dalla sua di scrittore: La casa verde, che secondo me in italiano è stata tradotta non come merita, detto da chi non conosce affatto la lingua originale, ma se La casa verde è il capolavoro che è, e che non ho dubbio che sia, non può essere il romanzo che ho letto io nella resa di Enrico Cicogna – così come sono convinto che Meridiano di sangue di Cormac McCarthy non è quello che leggo nella resa di Raul Montanari. Un capolavoro tante volte lo è proprio per come lo resta nonostante le traduzioni che ce la mettono tutta perché non si noti quanto lo sia.   Meridiano di sangue me lo sogno tradotto dalla Balmelli che ha tradotto Suttree. Pure vero che La città e i cani, primo romanzo di Vargas Llosa, primo sia nel senso che è il primo scritto da lui sia che è il primo dei suoi che abbia letto, che mi conquistò totalmente e che sancì la mia ammirazione inconfutabile, io l’ho comunque letto nella traduzione del da me vituperato Enrico Cicogna. La casa verde è romanzo sorprendentemente e formalmente più ardito, però, de La città e i cani.  Così come le è stato chiesto di ritradurre Cent’anni di solitudine, di Marquez, a Ilde Carmignani non potrebbero chiedere una nuova traduzione di La casa verde? La traduzione precedente di Cent’anni di solitudine, tra l’altro, lo scopro adesso che ho controllato, era di Enrico Cicogna.  Speriamo che essere morto a Vargas Llosa valga almeno la consolazione di essere ri-tradotto perché possa risorgere come merita in italiano. In lingua originale, che è l’autentico piano dell’esistenza di uno scrittore che è riuscito a diventarlo, certo non occorre nulla del genere. Lì Vargas Llosa è diventato immediatamente immortale, cioè come tutti i grandi lo sarà finché qualcuno felice d’imparare a leggere-leggere a giro lo si troverà ancora.  Nella morte di uno scrittore io non ci trovo nulla di interessante, nulla di pertinente, tutto di necrofilo oltre che di ipocrita e opportunistico. Le prime pagine di giornale potevano aprirle, per esempio, con l’annunciata pubblicazione del prossimo romanzo di Thomas Pynchon: l’uscita di Shadow Ticket scagionerà il prossimo 7 ottobre dall’essere solo un infausto anniversario israelo-palestinese, oltre che mondiale, così come lo sono diventati il 24 febbraio in Ucraina, l’11 settembre negli Stati Uniti, il primo settembre in Polonia.  Giovandomi ripetendo: finché a scuotere le popolazioni informate non sarà l’annuncio di un nuovo romanzo di Aldo Busi o di Peter Handke o di J. M. Coetzee o di Helena Janeczek o di Herta Müller, per dire, ma il mero pettegolezzo della morte sempre da mettere in conto di Questo Scrittore o Quella Scrittrice, saranno più alte le probabilità di un nuovo 5 marzo 1933 in Germania che quelle di un nuovo 16 giugno 1904 a Dublino.        …Intanto aspetto mi arrivi via posta la copia ordinata della Lettera d’amore a Giacomo Leopardi, di Antonio Moresco: le rondini in copertina non importa non facciamo primavera, purché facciano letteratura. antonio coda L'articolo Contro i coccodrilli. Ovvero: ecco perché Mario Vargas Llosa è ancora vivo proviene da Pangea.
April 17, 2025 / Pangea
IrpiMedia sotto attacco: essere pesci piccoli nel web senza regole
Per indebolire un giornale online basta renderlo invisibile. Il DDoS è uno strumento economico per raggiungere l’obiettivo. Per difendersi servono reti di relazioni e peso specifico. E qui sta parte del problema Per quasi due settimane, dal 5 al 18 luglio, IrpiMedia non è stata raggiungibile ai suoi lettori a causa di un attacco informatico. In gergo si parla di DDoS, distributed denial of service, ovvero di quella tecnica che prevede l’impiego di una complessa rete composta da migliaia di computer o server, impegnati a collegarsi contemporaneamente a un unico sito Internet in modo da mandarlo in crash e renderlo inaccessibile a chiunque. È quanto accaduto proprio a noi, che siamo stati bersaglio di una quantità sproporzionata di connessioni per settimane, arrivata a picchi di 26 milioni di tentativi di accesso in 24 ore, rispetto alle decine di migliaia alle quali siamo abituati. In parole povere, qualcuno ha deciso di spendere tempo e soldi per impedirci di restare online e, conseguentemente, per impedire a voi di leggerci. Leggi la storia completa
August 1, 2024 / Pillole di Graffio