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“La morte non è nulla”. Joseph Conrad in forma di kraken
Nel 1919 era riuscito a comprarsi una villa a Oswalds, nei pressi di Canterbury. Da poco, aveva raggiunto una certa sicurezza economica, non con i libri più belli; poco incline ai crismi della vita sociale inglese, soffriva di gotta, il viso irto di rughe e lo sguardo fermo, di chi ha valicato molte vite. Da ragazzo, nelle rare fotografie, piuttosto, ha gli occhi accesi, terrorizzati. Sarà che era rimasto orfano a undici anni e che un’insana fame, l’estro di chi è solo al mondo, lo obbligava agli estremismi. Preferì viaggiare per il globo; nato in una provincia dell’Ucraina russa, cresciuto tra Varsavia e Cracovia, come seconda lingua preferiva il francese, l’inglese lo parlava in modo involuto, lento, da straniero. Sulla terraferma, sempre, gli pareva di affogare.  Fu Hugh Walpole, in ogni caso, a propiziare l’incontro tra Joseph Conrad e T. E. Lawrence. Con Walpole, poligrafo, nato in Nuova Zelanda, affascinato dalla Rivoluzione russa (che aveva seguito sul posto), uno zelante ammiratore, Conrad si sentiva a suo agio. “Tu dici che ho subito l’influenza formativa di Madame Bovary…”, gli scrive, nel 1918, per ribattere, “Flaubert… lo ritenni meraviglioso. Non credo di aver imparato nulla da lui”.  L’incontro accadde in luglio, era il 1920: Conrad era già Conrad, il rivoluzionario della letteratura inglese, Lawrence, per tutti, era “Lawrence d’Arabia”; aveva scritto la prima, affrettata bozza dei Sette pilastri della saggezza e Winston Churchill era pronto a offrirgli un posto di rilievo presso il Colonial Office con il compito di risolvere la questione mediorientale. Lawrence, dal canto suo, mirava solo a disintegrarsi. Amava Conrad, quello sì, “ha reso la nostra prosa finalmente inquietante: ogni suo paragrafo (dacché non scrive frasi, ma paragrafi) si sviluppa a ondate, come il riverbero di una campana, dopo che si è bloccata”. L’incontro fu piacevole, privo di fronzoli, intonato al blu: forse nel mare di Conrad, Lawrence riconosceva il suo deserto. Il 18 agosto del 1922, da Oswalds, Conrad scrive “al mio caro Mr. Lawrence”: gli invia una copia di The Mirror of the Sea, “emendata da assurdi refusi”, con dedica, “A T.E. Lawrence con la massima stima da Conrad”. Nel frattempo, contraffatto con il nome di John Hume Ross, Lawrence si era appena arruolato nella RAF.  Dieci anni prima, piuttosto, Conrad aveva ricevuto gli omaggi di un altro uomo eccezionale, diversamente eccentrico. Nel 1912, durante un viaggio di sei mesi in Inghilterra, ad Ashford, nel Kent, Saint-John Perse incontra Conrad, folgorato, pure lui, da Cuore di tenebra, Nostromo, Lord Jim. Era stata un’amica comune, Agnès Tobin, americana, traduttrice di talento (anche di Petrarca), a introdurre Saint-John Perse a Conrad. Il 26 febbraio del 1921, da Pechino, all’apice di una brillante carriera diplomatica, il poeta, futuro Nobel per la letteratura, invia a Conrad una lettera tanto bella da sembrare fittizia, pura perla destinata ai posteri: “Una cosa misteriosa, che ho io stesso constatato, è che sugli altipiani dell’Asia, nel cuore del deserto, cavallo e cavaliere si girano ancora d’istinto verso Est, là dove giace la tavola invisibile del mare… Negli occhi dei cammellieri incontrati nel deserto del Gobi mi è sembrato qualche volta di sorprendere uno sguardo di uomo di mare”. La lettera è raccolta, tra poche altre a rarissimi interlocutori – Paul Claudel, André Gide, Thomas S. Eliot, un altro strenuo ammiratore di Conrad – nell’agiografico volume delle Œuvres complètesche Saint-John Perse si cura per la Bibliothèque de la Pléiade. Nato nelle Antille francesi, era uomo di mare pure lui, e al mare ha dedicato un poema oceanico, Amers (1957; recentemente tradotto da Nicola Muschitiello per le Edizioni Medhelan come Segni d’amaro approdo, 2024).  Queste testimonianze, necessarie per capire le intense passioni che Conrad sapeva suscitare – scrittore altrimenti schivo, nella stiva di un’ispirazione eclatante –, non sono raccolte nell’Epistolario (1885-1924) edito da Giometti & Antonello (2021), che riproduce l’edizione curata da Alessandro Serpieri per Bompiani nel 1966 (il libro, dunque, è anche un omaggio a quel grande anglista). Conrad resta, sempre, un espatriato, uno ormeggiato tra le nebbie: inutile cercare tra le sue lettere le vertigini di Rainer Maria Rilke, gli orpelli di Pasternak, gli innamoramenti di Albert Camus. Nato Korzeniowski, frugale come chi sa la fame, propenso al crollo, alieno al clima intellettuale dell’epoca, Conrad procede per coltellate verbali (“La morte non è nulla – ed io sono abituato alla sua rapidità. Ma quando la vita ti deruba d’un uomo su cui hai riposto la tua fiducia per vent’anni, il torto sembra troppo mostruoso per essere dimenticato”, scrive, il 5 dicembre 1897, a Edward Garnett, che per primo riconobbe il suo talento letterario), sconvolto, spesso, dalla necessità di scrivere e vendere racconti con estenuata continuità.  Nelle prime lettere – qui è da Calcutta, il 19 dicembre del 1885 – Conrad è fieramente reazionario, si scaglia contro il “progresso sociale” propugnato da “furfanti senza scrupoli e pochi lunatici, sinceri ma pericolosi” a discapito dell’“idiota gregge umano”:  > “Io vivo soprattutto nel passato e nel futuro. Il presente ha poche attrattive > per me… Separazione fra Stato e Chiesa, Riforma Agraria, Fratellanza > Universale non sono che le pietre miliari sulla strada della rovina”.  Si adatterà alla temperie tribunizia anglofona, con una perpetua attrazione verso i ribelli: “ogni estremista è rispettabile”, scrive il 7 ottobre del 1907, sull’onda del romanzo anarcoide, L’agente segreto.  In una lettera a Garnett, il 20 gennaio del 1900, Conrad si lancia in un ricordo del padre, Apollonius N. Korzeniowski, di plateale potenza:  > “Uomo di grande sensibilità, di temperamento esaltato e sognatore, con una > terribile dote di ironia e di umor tetro… Il suo aspetto era nobile, la sua > conversazione molto affascinante, la sua faccia triste quando era serio”.  Patriota, ribelle, giornalista sprezzante, personalità eccentrica, ipnotica, cupa, letterato genialoide (ma “drammi, poesie, prose furono bruciati dopo la sua morte secondo il suo ultimo desiderio”), Apollonius è il modello del Kurtz di Cuore di tenebra, dove sono coinvolti tutti i tormenti e le nostalgie di Conrad.  Secondo Alessandro Serpieri le lettere di Conrad sono “un’occasione unica per seguirlo nel suo difficile cammino di uomo e di artista, per sorprenderlo”. In verità, Conrad è refrattario a raccontarsi, si difende da ogni assalto, in una celata di cristallo: avendo vissuto, non ha confessioni da sperperare, è come il suo Marlow, a poppa, con le gambe incrociate, che “rassomiglia a un idolo” e attende di salpare verso “uno dei luoghi tenebrosi della terra”. L’anima, in certi uomini, è come un kraken incardinato negli abissi: non è materia per chiacchiere o lussurie epistolari.  L'articolo “La morte non è nulla”. Joseph Conrad in forma di kraken proviene da Pangea.
August 28, 2025 / Pangea
“Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini & Ferretti, l’allievo eretico
Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta – endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari – e di uno sguardo mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti inviò la plaquette che s’era stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent’anni: eccelleva nei temi, restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle, figlio di un geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri dell’editoria di allora. Gli rispose, entusiasta, Pier Paolo Pasolini; di lui scrisse, entusiasta, su “Officina”. Ferretti si rivolgeva al “caro professore” con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz – “ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente sperimentali” – Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai, Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall’università – a Perugia, “un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite” –, Ferretti gioca all’uomo in rivolta, carpito di una rivoltante depressione, e gli chiede “tu frequenti l’ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un attore”, Pasolini lo blocca, bacchetta il suo “maleodorante romanticismo”, gli dice di tornare a studiare.  > “Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro > rompicoglioni, dilettante e presuntuoso”.  Siamo agli inizi del ’57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, “Sul bus 37, Giorgio Manganelli… con un libro sotto il braccio: Allergia”). Ad ogni modo, il libro è onorato con il “Premio Viareggio” opera prima; negli anni, s’inabissa nell’oblio, diventando – per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni verso l’inattuale – un testo ‘di culto’: all’edizione Marcos y Marcos del 1994 seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello. Aveva ragione Pasolini – che leggeva il giovane Ferretti “con le lacrime agli occhi, come in sogno” –: quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo stigma dell’“adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua come un personaggio di Thomas Mann” (così Massimo Raffaeli). L’attacco di Polemica per un’epopea tascabile, per dire, è bellissimo:  > “Sono un animale ferito. > Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere > definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda. > Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il > cuore m’avrebbe solo bagnato”. Successe, poi, il disastro.  Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un’arte predatoria; Ferretti – creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre – gli sfuggì. A metà dicembre del 1957 i due – il maestro e il pupillo – s’incontrano, a Roma. Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: “Avevo 20 anni e t’ho fatto diventare un eroe… questa è stata la mia grande colpa”. Pasolini gli risponde con un autoritratto:  > “io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent’anni, e molto ingenui, > direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non > erotico)… Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia > innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da > questo punto di vista”. Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l’armata del Gruppo 63, frequenta Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel 1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come “Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla”, Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra – come il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 – resta tra le retrovie dell’epoca. Nel 1959 Ferretti si era “consegnato”, per l’ennesima volta, a Pasolini; gli racconta del cugino suicida, “aveva un anno più di me e non era un giovane bruciato: era disperato”. Il maestro gli risponde, trafelato, tra “il trasloco” e “il Premio Strega, con le sue mille telefonate”. È una risposta sbrindellata, da bovina madama ideologia in imperio: “Quello che non capisco – e che ti minaccia – che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio – è quella voglia a essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista”. Ferretti lo malmena: “Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente… sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”.  Da qui in poi, il carteggio – che si legge in un libro violento e istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli – segue l’atroce trama di un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l’angelo che si tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva azzannare al collo.  Per un po’, Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su “Il Giorno”; per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segno sul muro, 1973), primordiale musa di Pound, e l’antropologa Margaret Murray (Il dio delle streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo: chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver visto Teorema, “è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me) assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento”. Pasolini replica da chioccia in estro (“Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto”) e accetta di fargli da testimone, “disumanamente”. Le date, tuttavia, non collimano: al fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva bollato così: “Rimbaud integrato in una società di imbecilli”.  Schifato dall’odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e nel novembre del 1974 muore, nel sonno. Qualche mese prima aveva scritto l’ultima, allucinata lettera-invettiva a “Pierpaolo mio”:  > “Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per > niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini”.  Era arrivato l’astio, infine, il cupo gemello della pietà.  Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.  *In copertina: Pier Paolo Pasolini nel 1966, ritratto da Richard Avedon L'articolo “Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini & Ferretti, l’allievo eretico proviene da Pangea.
May 24, 2025 / Pangea
“Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento, l’amico di Cioran
Alla guerra seguì la seduzione del deserto, la sedizione dal mondo.  Nel ’39, è rogo bellico, vuole arruolarsi nell’esercito – gli è impedito, a causa di una frattura al bacino, lì dalla giovinezza. Nato a Morges, Svizzera, nel 1911, Armel Guerne cresce con il padre, direttore di una azienda di pezzi di ricambio affiliata alla Renault, a Parigi; rifiuta gli studi in economia, si ribella al giogo familiare. Cacciato di casa, sedicenne, coltiverà la propria preparazione grazie alla famiglia del migliore amico, Mounir Hafez, futuro orientalista, esperto in mistica islamica, egiziano d’origine. Fin da allora la vita di Guerne si svolge in direzione contraria. Studia in Siria, lavora come insegnante di ginnastica, viaggia in nave prestando servizio come mozzo. Ritornato in Francia, approfondisce le discipline psicologiche alla Sorbona; intanto, comincia a tradurre Novalis, primo atto d’amore verso gli amatissimi poeti tedeschi. L’incontro con Paul Éluard, Georges Bataille e Breton lo lascia indifferente, “la frivolezza dell’intelletto” – così giudica il ménage dei club parigini – non lo tocca.  Nell’anno in cui anela alle armi, sceglie l’amore: sposa ‘Pérégrine’ – cioè Jeanne-Gabrielle Berruet – con cui vive da anni. Armel Guerne è un uomo ‘elementare’, è un uomo che modella l’elemento: che dall’argilla sa trarre il fuoco, che legge le pietre. È un uomo nudo – concretezza è il sale del suo carisma. Lo si vede dai testi – Oraux, l’esordio, è del 1934; seguiranno libri disancorati alle leggi dell’oggi, di dissacrante libertà: Mythologie de l’homme (1945), Testament de la perdition (1961), Les Jours de l’Apocalypse (1967), Le Jardin colérique(1977), ad esempio – primevi nel dire, di primordiale avventatezza, una ventata di nevi.  Si schierò contro Pétain, contro Vichy. A Parigi, con inguaribile spirito avventuriero – una specie di didattica dell’innocenza –, compie alcuni atti di sabotaggio contro i tedeschi; l’anno dopo viene ingaggiato da Francis Suttill, agente segreto britannico, tra i ranghi della resistenza. Armel prende il nome di “Gaspard”, dedicandosi completamente alla lotta. La rete, tuttavia, viene smobilitata già nel giugno del ’43: Armel e la moglie vengono arrestati dalla Gestapo e internati, per quattro mesi, in una cella di massima sicurezza, a Fresnes. Deportato a Royallieu, Guerne è destinato a Buchenwald in quanto “affiliato agli inglesi”. Nelle Ardenne francesi, presso la stazione di Amagne, il poeta riesce rocambolescamente a scappare. Forza con le pinze il filo spinato che serra i finestrini del convoglio; i tedeschi lo vedono, fanno fuoco. “Mi gettai nel Sulces, un ruscello poco profondo, blindato dal ghiaccio. L’acqua, gelida, non superava i trenta centimetri. Mi sdraiai sul greto – gli fui grato – restai lì quasi un’ora – le SS sparavano, di tanto in tanto – il treno ripartì, infine”. Il poeta rientra a Parigi travestito da ferroviere, da lì va a Pamplona poi a Londra. Anche gli inglesi lo tengono in arresto: credono sia una spia – subisce l’ignominia di essere considerato, per eccesso di candore, un traditore. L’ambasciata svizzera gli presterà soccorso. “Ho vissuto tutti gli orrori dell’occupazione: la prigione, la minaccia, il tradimento – infine, è stato Novalis a salvarmi”, dirà.  Seguiranno, a Parigi, anni di lavoro incessante come traduttore. Guerne traduce Moby Dick e Shakespeare, Stevenson e Virginia Woolf; traduce – con l’aiuto di uno iamatologo – Kawabata e alcuni racconti giapponesi d’era medioevale. Soprattutto, volge in francese i tedeschi: Rilke (Elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo), Hölderlin – per Mercure de France e Flammarion –, Kleist e Dürrenmatt, Martin Buber e von Balthasar. Traduce per necessità, estraniandosi dal tempo, operando una sorta di romitorio interiore. Fa poco per divulgare la propriaopera, lasciata brada. La sua versione del Daodejing, uscita nel 1963, sorprende Emil Cioran: > “Credo davvero nell’effetto benefico di questo libro su di te, nella misura in > cui è contrario ai tuoi più profondi istinti. Tu sei più prossimo alla > preghiera e alla blasfemia, che all’indifferenza e all’annientamento. Per > questo è così ammirevole lo spettacolo della tua lotta sul Non-agire!”. Armel Guerne e Cioran si conoscono nei primi anni Cinquanta. A Cioran piacque quell’uomo privo di orpelli intellettuali, che durante la Seconda guerra non era stato viziato dagli obbrobri né dagli onori. Pareva uno spettro sano – un santo spurio.  L’amicizia si consolidò dal 1960: Guerne acquista un mulino a vento a Tourtrès, in Lot-et-Garonne; un centinaio di abitanti, tanto vento, solitudine acerrima, d’acciaio. Invita alcuni amici, rielabora, con incessante amore, per Gallimard, le Œuvres complètes di Novalis, da estraneo ai culti della cultura francese. Cioran apprezzava l’ascetismo di quel suo singolare amico. Nei Quaderni – che sono poi la cartina di tornasole della sua vita; in Italia li stampa Adelphi – Cioran torna spesso al poeta, con augustea angoscia e falcate di ironia: > “Armel Guerne mi ha mandato la sua traduzione delle novelle di Stevenson. Ieri > sera, verso mezzanotte, mentre mi cambiavo d’abito per la passeggiata > notturna, ho avuto la sensazione di essere il dottor Jekyll che si travestiva > per andare a fare qualche nefandezza…” A volte, appunta alcune frasi dall’epistolario con Guerne. Come questo frammento da una lettera di Guerne del 28 maggio 1969: “L’umanità contemporanea al di sotto dei trent’anni appartenente alle nazioni cosiddette civilizzate non sa che cosa sia il sorriso o il riso e ha l’occhio senza sguardo…”.  L’amicizia epistolare tra Cioran e Guerne è testimoniata dalle Lettres de Guerne à Cioran, 1955-1978 (Éditions Le Capucin, 2001) e da E.M. Cioran-A. Guerne, Lettres 1961-1978, ed. Vincent Piednoir, L’Herne, 2011 (da cui abbiamo estratto un paio di lettere di Cioran). Erano nati nello stesso mese, nello stesso anno, a una settimana di distanza; Armel Guerne morirà nel 1980, era la fine di settembre, è sepolto a pochi passi dal suo mulino. L’ultima lettera di Cioran è di due anni prima: il pensatore selvatico parla di febbri, di mali, dell’incubo di essere in balia dei medici.  > “Sai bene il dramma di avere un corpo, ma ciò che di te ammiro sono i momenti > in cui non ti tocca alcun problema: il mirabile distacco che annienta la > morte, ridotta a fare la parte di un insulso intruso. Tuttavia, una frase > della tua lettera mi ha davvero sbriciolato il cuore: ‘Il tempo si stende > intorno a me e assume proporzioni inimmaginabili, con tutti quei frammenti > infiniti’. So cosa intendi e non ho nessun consiglio da darti, nessuna bugia > per aiutarti. È puro orrore. Per tutta la vita sono stato afflitto da momenti > di noia e di inedia, impossibili da superare, che mi hanno impedito di > compiere qualcosa di concreto e di coerente. Devo loro il privilegio di aver > saputo catturare il delirio degli altri, immaginandoli nel dettaglio, > soprattutto quando si tratta della percezione del tempo, il più grande nemico > che l’uomo deve affrontare”.   In pochi scrissero della sua morte; aveva scritto che “i poeti si sporgono dove gli uomini non vogliono andare”. Sulla rivista “Sud-Ovest”, J.-F. Mézergues ricordò che il poeta del mulino gli aveva descritto la sua morte: “è un’isola persa nel mare; su di lei il mattino leva la sua bandiera bianca; in lontananza, un orlo di fulmini neri”. Disse che “le parole chiave della poesia sono: profezia, annuncio, presentimento, promessa… termini vuoti nella vita spettrale che ci è imposta oggi, dove non c’è posto per l’individuo ma soltanto per il denaro, un falso”.  Qualcuno ha registrato la sua ultima parola, prima di spirare. “No”. Che è poi un sì alla vita nuova, che è poi uno sparo. Inutile parlare di memoria quando è stato un cenacolo, di ricordo quando ce ne siamo abbeverati.  *** Lettere di Emil Cioran ad Armel Guerne Mio caro Guerne, se l’insoddisfazione fosse un carisma della santità, sarei santo da tempo. La mia è davvero una forma di santità! Passo la vita al telefono, altrimenti nelle biblioteche, alla ricerca di un libro che mi riconcili con me stesso e con le cose del mondo. Quando non spreco tempo in conversazioni, lo perdo leggendo: leggo, leggo, inutilmente, per non pensare, per non vedere fino a che punto sono infossato nel nonsenso.  L’altro giorno mi è stato chiesto di scrivere un articolo per una rivista. Ho risposto: più avanti. Mi è stato chiesto un titolo per annunciare la futura collaborazione. Non riesco a trovare nulla di cui scrivere, ho risposto. Nel frattempo, continuerò a scrivere un testo sulla rabbia.  Il mio dramma è semplice: tutti i miei antenati hanno vissuto nelle montagne, a contatto con l’elemento, io vivo da trent’anni in una metropoli. Mi fermo, per paura di compatirmi (cosa che in effetti non smetto di fare).  I miei migliori auguri, E.M. Cioran Parigi, 30 novembre 1963 * Mio caro Guerne… La questione del lavoro ha messo da parte quella del freddo – che mi intimidisce. Sulle alture dove abiti l’aria non deve essere docile. Come potrei affrontarla quando spendo i miei giorni in una stanza surriscaldata, dove prospera la mia anemia? Confesso di non saper immaginare la vita che conduci lì, ora, in questo periodo dell’anno. Come trascorri le lunghe sere che cominciano tanto presto?  Questa mattina, contemplando gli alberi del Luxembourg (mi arrangio con ciò che ho sottomano), mi dicevo che la sola stagione assolutamente poetica è l’inverno, perché non c’è traccia di concessione all’umano. Sogno che il paesaggio intorno al Moulin sia meravigliosamente desolato come lo immagino. L’idea che da qualche parte rintocchi una risata mi fa venire voglia di vomitare. Per rassicurarmi che la serenità regna nei tuoi campi, raccontami di raffiche di vento, terre cupe e cieli tersi… Ti ho mai detto che il solo paesaggio a cui non ho nulla da obiettare è quello delle brughiere descritte dalle sorelle Brontë? È senza dubbio per uno strano fenomeno di contaminazione che vedo in questo istante il tuo mulino nel bel mezzo dello Yorkshire.  A voi la mia amicizia e i miei migliori auguri E.M. 23 dicembre 1963 * Mio caro Guerne, le “sacrosante” vacanze, come giustamente le chiami, sono infine arrivate. È un rito o una prova che non si può eludere. Tentare di fuggire e scansarle è un’impresa di tale originalità che pochi ne sarebbero capaci. Presto arriveremo a dire che l’uomo più che un animale mortale è una bestia da vacanza.  Quindi: tra un’ora parto per la Loira Atlantica, per far visita ad alcuni amici che hanno una bella casa con giardino. Ci resterò per circa dieci giorni, poi andrò con Simone a Dieppe, dove ci hanno prestato un appartamento. Insomma, vacanze da parassita. Invidio il fatto che dovrai tradurre Novalis. Vieni pagato cifre irrisorie, ma questo è il regime incredibile in cui siamo costretti. Cosa aspetti? Unisciti a una falange anarchica del movimento studentesco! Una bandiera nera affissa in cima al tuo Moulin mi farebbe felice, per non parlare del boom turistico che tale spettacolo comporterebbe…  Nella tua ultima lettera mi scrivi che in fondo pensiamo sempre di essere più giovani di quanto siamo. Questo è vero come regola generale: non lo è per me, che continuo a vedere da venti o trent’anni le stesse persone. Dico vedere e non rivedere perché a malapena le riconosco. Questa macabra sfilata mi ha provocato un vero e proprio “complesso” da invecchiamento: anche se a tratti mi sento ancora giovane, non lo sono, non lo sarò più, e non posso dimenticare la mia età perché i fantasmi che mi fanno visita mi costringono a ricordarmela, a pensarci di continuo. A volte mi sembro come una vecchia civetta che non osa guardarsi allo specchio. Come è deplorevole tutto questo! Tutta la mia amicizia, E.M. Cioran Parigi, 5 agosto 1968 *** Freddo  La luce è troppo dura per questo tempo, ha gli aculei ed è dolce la sua crudeltà: troppo scaltro il lucore, troppo nudo troppo sottile nel filo e liscio nella grana e il cielo è troppo blu, di un azzurro grezzo per un sole tanto alto, radioso e felice. Nuda come l’acciaio, bianca come un’arma illuminata e illuminante, non sappiamo se il suo invisibile canto trapassi le ombre se monta o se cala, se è avanguardia o resa; ma quando il vero novembre crolla su di noi questa musica ci rende radiosi e leggeri lascia una magia, un lento profumo d’estate che ci ripara dai venti umidi, dai giorni grigi.  * Il vivo peso della parola Puoi scrivere – e scrivi; puoi tacere – e taci.  Ma è sapere il silenzio l’unica, la grande chiave: devi perforare i simboli e divorare le immagini udire per non intendere soffrire fino alla morte –  lascia che il vivo peso della parola ti frantumi.  * L’albero e il muro Un albero non è mai dritto: è al debutto. S’impenna potente, fin dal fondo delle radici verso quel punto nel cielo che lo attende, quell’ambone nel cielo che esiste solo per lui. Il muro è dritto, eretto dalla base non nasce che da se stesso. È pur sempre l’erede diretto di Babele.  L’albero tace: quando muore la sua preghiera resta impressa  in noi e il suo nome è la luce.  * Ouverture  Sotto il velo di un aprile che impreca e ride più verde che vivo, turbato dall’insonnia dei sognatori il giorno minaccia il giorno che viene: non reca annunci perché le sentinelle hanno munto la notte. Un uccello piange. Per paura o per istinto d’amore? L’erba si piega. È l’angoscia o il peso della pioggia? Un rischio si apre in ogni istante che passa e il pericolo è come una corona altera che mostra il cranio, si inebria di gioielli ed è quasi un miracolo perché illumina il giorno.  * Il temporale Drago che governi su nebbia e nibbi monarca oscuro e onnipossente dei frantumi che ti offriamo: principe del torpore e dell’ira crestata salute! Ti eleggiamo maestro dei nostri istanti perché vogliamo essere come te.  Ciò che temiamo è il momento che si biforca che lascia essudare tutto, il momento in cui ci alziamo nudi, senza vesti né maschere in piedi, nella nostra singolarità.  * Il giardino in collera Nel crudo oscuro giardino in collera della carne e del sangue, sui neri meridiani di questa anatomia strappata dalla mente e rubata all’anima a cui è annodata grazie a cui spirava la vita prima di spirare, come sappiamo: cosa fa il viandante? cosa può il giardiniere? La lettera è morta: ci resta il grido l’urlo dell’essere, un’onomatopea e l’appello scheggiato di un gesto senza speranza. Gli uomini delle grotte, rispetto a noi possedevano il genio della grazia e della conversazione. Armel Guerne L'articolo “Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento, l’amico di Cioran proviene da Pangea.
May 22, 2025 / Pangea