Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta –
endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari – e di uno sguardo
mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti inviò la plaquette che s’era
stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste
letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent’anni: eccelleva nei temi,
restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle, figlio di un
geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri
dell’editoria di allora. Gli rispose, entusiasta, Pier Paolo Pasolini; di lui
scrisse, entusiasta, su “Officina”. Ferretti si rivolgeva al “caro professore”
con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e
tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo
marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz
– “ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente
sperimentali” – Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai,
Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall’università – a
Perugia, “un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite” –,
Ferretti gioca all’uomo in rivolta, carpito di una rivoltante depressione, e gli
chiede “tu frequenti l’ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un
attore”, Pasolini lo blocca, bacchetta il suo “maleodorante romanticismo”, gli
dice di tornare a studiare.
> “Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro
> rompicoglioni, dilettante e presuntuoso”.
Siamo agli inizi del ’57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da
poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà
per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se
ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, “Sul bus 37, Giorgio
Manganelli… con un libro sotto il braccio: Allergia”). Ad ogni modo, il libro è
onorato con il “Premio Viareggio” opera prima; negli anni, s’inabissa
nell’oblio, diventando – per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni
verso l’inattuale – un testo ‘di culto’: all’edizione Marcos y Marcos del 1994
seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello.
Aveva ragione Pasolini – che leggeva il giovane Ferretti “con le lacrime agli
occhi, come in sogno” –: quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di
Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo
stigma dell’“adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua
come un personaggio di Thomas Mann” (così Massimo Raffaeli). L’attacco
di Polemica per un’epopea tascabile, per dire, è bellissimo:
> “Sono un animale ferito.
> Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere
> definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
> Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il
> cuore m’avrebbe solo bagnato”.
Successe, poi, il disastro.
Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un’arte predatoria; Ferretti –
creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre – gli sfuggì. A
metà dicembre del 1957 i due – il maestro e il pupillo – s’incontrano, a Roma.
Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: “Avevo 20 anni e t’ho
fatto diventare un eroe… questa è stata la mia grande colpa”. Pasolini gli
risponde con un autoritratto:
> “io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent’anni, e molto ingenui,
> direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non
> erotico)… Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia
> innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da
> questo punto di vista”.
Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l’armata del Gruppo 63, frequenta
Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel
1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come
“Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla”,
Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra – come
il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 – resta tra le
retrovie dell’epoca.
Nel 1959 Ferretti si era “consegnato”, per l’ennesima volta, a Pasolini; gli
racconta del cugino suicida, “aveva un anno più di me e non era un giovane
bruciato: era disperato”. Il maestro gli risponde, trafelato, tra “il trasloco”
e “il Premio Strega, con le sue mille telefonate”. È una risposta sbrindellata,
da bovina madama ideologia in imperio: “Quello che non capisco – e che ti
minaccia – che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio – è quella voglia a
essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista”. Ferretti lo
malmena: “Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente… sei
diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”.
Da qui in poi, il carteggio – che si legge in un libro violento e
istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo
Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli – segue l’atroce trama di
un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l’angelo che si
tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva
azzannare al collo.
Per un po’, Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su “Il Giorno”;
per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di
Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segno sul muro,
1973), primordiale musa di Pound, e l’antropologa Margaret Murray (Il dio delle
streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo:
chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver
visto Teorema, “è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me)
assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento”. Pasolini replica da
chioccia in estro (“Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto”) e accetta di
fargli da testimone, “disumanamente”. Le date, tuttavia, non collimano: al
fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva
bollato così: “Rimbaud integrato in una società di imbecilli”.
Schifato dall’odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive
nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e
nel novembre del 1974 muore, nel sonno. Qualche mese prima aveva scritto
l’ultima, allucinata lettera-invettiva a “Pierpaolo mio”:
> “Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per
> niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini”.
Era arrivato l’astio, infine, il cupo gemello della pietà.
Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.
*In copertina: Pier Paolo Pasolini nel 1966, ritratto da Richard Avedon
L'articolo “Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini &
Ferretti, l’allievo eretico proviene da Pangea.
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Alla guerra seguì la seduzione del deserto, la sedizione dal mondo.
Nel ’39, è rogo bellico, vuole arruolarsi nell’esercito – gli è impedito, a
causa di una frattura al bacino, lì dalla giovinezza. Nato a Morges, Svizzera,
nel 1911, Armel Guerne cresce con il padre, direttore di una azienda di pezzi di
ricambio affiliata alla Renault, a Parigi; rifiuta gli studi in economia, si
ribella al giogo familiare. Cacciato di casa, sedicenne, coltiverà la propria
preparazione grazie alla famiglia del migliore amico, Mounir Hafez, futuro
orientalista, esperto in mistica islamica, egiziano d’origine.
Fin da allora la vita di Guerne si svolge in direzione contraria. Studia in
Siria, lavora come insegnante di ginnastica, viaggia in nave prestando servizio
come mozzo. Ritornato in Francia, approfondisce le discipline psicologiche alla
Sorbona; intanto, comincia a tradurre Novalis, primo atto d’amore verso gli
amatissimi poeti tedeschi. L’incontro con Paul Éluard, Georges Bataille e Breton
lo lascia indifferente, “la frivolezza dell’intelletto” – così giudica il ménage
dei club parigini – non lo tocca.
Nell’anno in cui anela alle armi, sceglie l’amore: sposa ‘Pérégrine’ – cioè
Jeanne-Gabrielle Berruet – con cui vive da anni. Armel Guerne è un uomo
‘elementare’, è un uomo che modella l’elemento: che dall’argilla sa trarre il
fuoco, che legge le pietre. È un uomo nudo – concretezza è il sale del suo
carisma. Lo si vede dai testi – Oraux, l’esordio, è del 1934; seguiranno libri
disancorati alle leggi dell’oggi, di dissacrante libertà: Mythologie de
l’homme (1945), Testament de la perdition (1961), Les Jours de
l’Apocalypse (1967), Le Jardin colérique(1977), ad esempio – primevi nel dire,
di primordiale avventatezza, una ventata di nevi.
Si schierò contro Pétain, contro Vichy. A Parigi, con inguaribile spirito
avventuriero – una specie di didattica dell’innocenza –, compie alcuni atti di
sabotaggio contro i tedeschi; l’anno dopo viene ingaggiato da Francis Suttill,
agente segreto britannico, tra i ranghi della resistenza. Armel prende il nome
di “Gaspard”, dedicandosi completamente alla lotta. La rete, tuttavia, viene
smobilitata già nel giugno del ’43: Armel e la moglie vengono arrestati dalla
Gestapo e internati, per quattro mesi, in una cella di massima sicurezza, a
Fresnes. Deportato a Royallieu, Guerne è destinato a Buchenwald in quanto
“affiliato agli inglesi”. Nelle Ardenne francesi, presso la stazione di Amagne,
il poeta riesce rocambolescamente a scappare. Forza con le pinze il filo spinato
che serra i finestrini del convoglio; i tedeschi lo vedono, fanno fuoco. “Mi
gettai nel Sulces, un ruscello poco profondo, blindato dal ghiaccio. L’acqua,
gelida, non superava i trenta centimetri. Mi sdraiai sul greto – gli fui grato –
restai lì quasi un’ora – le SS sparavano, di tanto in tanto – il treno ripartì,
infine”. Il poeta rientra a Parigi travestito da ferroviere, da lì va a Pamplona
poi a Londra. Anche gli inglesi lo tengono in arresto: credono sia una spia –
subisce l’ignominia di essere considerato, per eccesso di candore, un traditore.
L’ambasciata svizzera gli presterà soccorso. “Ho vissuto tutti gli orrori
dell’occupazione: la prigione, la minaccia, il tradimento – infine, è stato
Novalis a salvarmi”, dirà.
Seguiranno, a Parigi, anni di lavoro incessante come traduttore. Guerne
traduce Moby Dick e Shakespeare, Stevenson e Virginia Woolf; traduce – con
l’aiuto di uno iamatologo – Kawabata e alcuni racconti giapponesi d’era
medioevale. Soprattutto, volge in francese i tedeschi: Rilke (Elegie duinesi e
i Sonetti a Orfeo), Hölderlin – per Mercure de France e Flammarion –, Kleist e
Dürrenmatt, Martin Buber e von Balthasar. Traduce per necessità, estraniandosi
dal tempo, operando una sorta di romitorio interiore. Fa poco per divulgare
la propriaopera, lasciata brada. La sua versione del Daodejing, uscita nel 1963,
sorprende Emil Cioran:
> “Credo davvero nell’effetto benefico di questo libro su di te, nella misura in
> cui è contrario ai tuoi più profondi istinti. Tu sei più prossimo alla
> preghiera e alla blasfemia, che all’indifferenza e all’annientamento. Per
> questo è così ammirevole lo spettacolo della tua lotta sul Non-agire!”.
Armel Guerne e Cioran si conoscono nei primi anni Cinquanta. A Cioran piacque
quell’uomo privo di orpelli intellettuali, che durante la Seconda guerra non era
stato viziato dagli obbrobri né dagli onori. Pareva uno spettro sano – un santo
spurio.
L’amicizia si consolidò dal 1960: Guerne acquista un mulino a vento a Tourtrès,
in Lot-et-Garonne; un centinaio di abitanti, tanto vento, solitudine acerrima,
d’acciaio. Invita alcuni amici, rielabora, con incessante amore, per Gallimard,
le Œuvres complètes di Novalis, da estraneo ai culti della cultura francese.
Cioran apprezzava l’ascetismo di quel suo singolare amico. Nei Quaderni – che
sono poi la cartina di tornasole della sua vita; in Italia li stampa Adelphi –
Cioran torna spesso al poeta, con augustea angoscia e falcate di ironia:
> “Armel Guerne mi ha mandato la sua traduzione delle novelle di Stevenson. Ieri
> sera, verso mezzanotte, mentre mi cambiavo d’abito per la passeggiata
> notturna, ho avuto la sensazione di essere il dottor Jekyll che si travestiva
> per andare a fare qualche nefandezza…”
A volte, appunta alcune frasi dall’epistolario con Guerne. Come questo frammento
da una lettera di Guerne del 28 maggio 1969: “L’umanità contemporanea al di
sotto dei trent’anni appartenente alle nazioni cosiddette civilizzate non sa che
cosa sia il sorriso o il riso e ha l’occhio senza sguardo…”.
L’amicizia epistolare tra Cioran e Guerne è testimoniata dalle Lettres de Guerne
à Cioran, 1955-1978 (Éditions Le Capucin, 2001) e da E.M. Cioran-A.
Guerne, Lettres 1961-1978, ed. Vincent Piednoir, L’Herne, 2011 (da cui abbiamo
estratto un paio di lettere di Cioran). Erano nati nello stesso mese, nello
stesso anno, a una settimana di distanza; Armel Guerne morirà nel 1980, era la
fine di settembre, è sepolto a pochi passi dal suo mulino. L’ultima lettera di
Cioran è di due anni prima: il pensatore selvatico parla di febbri, di mali,
dell’incubo di essere in balia dei medici.
> “Sai bene il dramma di avere un corpo, ma ciò che di te ammiro sono i momenti
> in cui non ti tocca alcun problema: il mirabile distacco che annienta la
> morte, ridotta a fare la parte di un insulso intruso. Tuttavia, una frase
> della tua lettera mi ha davvero sbriciolato il cuore: ‘Il tempo si stende
> intorno a me e assume proporzioni inimmaginabili, con tutti quei frammenti
> infiniti’. So cosa intendi e non ho nessun consiglio da darti, nessuna bugia
> per aiutarti. È puro orrore. Per tutta la vita sono stato afflitto da momenti
> di noia e di inedia, impossibili da superare, che mi hanno impedito di
> compiere qualcosa di concreto e di coerente. Devo loro il privilegio di aver
> saputo catturare il delirio degli altri, immaginandoli nel dettaglio,
> soprattutto quando si tratta della percezione del tempo, il più grande nemico
> che l’uomo deve affrontare”.
In pochi scrissero della sua morte; aveva scritto che “i poeti si sporgono dove
gli uomini non vogliono andare”. Sulla rivista “Sud-Ovest”, J.-F. Mézergues
ricordò che il poeta del mulino gli aveva descritto la sua morte: “è un’isola
persa nel mare; su di lei il mattino leva la sua bandiera bianca; in lontananza,
un orlo di fulmini neri”. Disse che “le parole chiave della poesia sono:
profezia, annuncio, presentimento, promessa… termini vuoti nella vita spettrale
che ci è imposta oggi, dove non c’è posto per l’individuo ma soltanto per il
denaro, un falso”.
Qualcuno ha registrato la sua ultima parola, prima di spirare. “No”. Che è poi
un sì alla vita nuova, che è poi uno sparo. Inutile parlare di memoria quando è
stato un cenacolo, di ricordo quando ce ne siamo abbeverati.
***
Lettere di Emil Cioran ad Armel Guerne
Mio caro Guerne,
se l’insoddisfazione fosse un carisma della santità, sarei santo da tempo. La
mia è davvero una forma di santità! Passo la vita al telefono, altrimenti nelle
biblioteche, alla ricerca di un libro che mi riconcili con me stesso e con le
cose del mondo. Quando non spreco tempo in conversazioni, lo perdo leggendo:
leggo, leggo, inutilmente, per non pensare, per non vedere fino a che punto sono
infossato nel nonsenso.
L’altro giorno mi è stato chiesto di scrivere un articolo per una rivista. Ho
risposto: più avanti. Mi è stato chiesto un titolo per annunciare la futura
collaborazione. Non riesco a trovare nulla di cui scrivere, ho risposto. Nel
frattempo, continuerò a scrivere un testo sulla rabbia.
Il mio dramma è semplice: tutti i miei antenati hanno vissuto nelle montagne, a
contatto con l’elemento, io vivo da trent’anni in una metropoli. Mi fermo, per
paura di compatirmi (cosa che in effetti non smetto di fare).
I miei migliori auguri,
E.M. Cioran
Parigi, 30 novembre 1963
*
Mio caro Guerne…
La questione del lavoro ha messo da parte quella del freddo – che mi
intimidisce. Sulle alture dove abiti l’aria non deve essere docile. Come potrei
affrontarla quando spendo i miei giorni in una stanza surriscaldata, dove
prospera la mia anemia?
Confesso di non saper immaginare la vita che conduci lì, ora, in questo periodo
dell’anno. Come trascorri le lunghe sere che cominciano tanto presto?
Questa mattina, contemplando gli alberi del Luxembourg (mi arrangio con ciò che
ho sottomano), mi dicevo che la sola stagione assolutamente poetica è l’inverno,
perché non c’è traccia di concessione all’umano. Sogno che il paesaggio intorno
al Moulin sia meravigliosamente desolato come lo immagino. L’idea che da qualche
parte rintocchi una risata mi fa venire voglia di vomitare. Per rassicurarmi che
la serenità regna nei tuoi campi, raccontami di raffiche di vento, terre cupe e
cieli tersi… Ti ho mai detto che il solo paesaggio a cui non ho nulla da
obiettare è quello delle brughiere descritte dalle sorelle Brontë? È senza
dubbio per uno strano fenomeno di contaminazione che vedo in questo istante il
tuo mulino nel bel mezzo dello Yorkshire.
A voi la mia amicizia e i miei migliori auguri
E.M.
23 dicembre 1963
*
Mio caro Guerne,
le “sacrosante” vacanze, come giustamente le chiami, sono infine arrivate. È un
rito o una prova che non si può eludere. Tentare di fuggire e scansarle è
un’impresa di tale originalità che pochi ne sarebbero capaci. Presto arriveremo
a dire che l’uomo più che un animale mortale è una bestia da vacanza.
Quindi: tra un’ora parto per la Loira Atlantica, per far visita ad alcuni amici
che hanno una bella casa con giardino. Ci resterò per circa dieci giorni, poi
andrò con Simone a Dieppe, dove ci hanno prestato un appartamento. Insomma,
vacanze da parassita. Invidio il fatto che dovrai tradurre Novalis. Vieni pagato
cifre irrisorie, ma questo è il regime incredibile in cui siamo costretti. Cosa
aspetti? Unisciti a una falange anarchica del movimento studentesco! Una
bandiera nera affissa in cima al tuo Moulin mi farebbe felice, per non parlare
del boom turistico che tale spettacolo comporterebbe…
Nella tua ultima lettera mi scrivi che in fondo pensiamo sempre di essere più
giovani di quanto siamo. Questo è vero come regola generale: non lo è per me,
che continuo a vedere da venti o trent’anni le stesse persone. Dico vedere e
non rivedere perché a malapena le riconosco. Questa macabra sfilata mi ha
provocato un vero e proprio “complesso” da invecchiamento: anche se a tratti mi
sento ancora giovane, non lo sono, non lo sarò più, e non posso dimenticare la
mia età perché i fantasmi che mi fanno visita mi costringono a ricordarmela, a
pensarci di continuo. A volte mi sembro come una vecchia civetta che non osa
guardarsi allo specchio. Come è deplorevole tutto questo!
Tutta la mia amicizia,
E.M. Cioran
Parigi, 5 agosto 1968
***
Freddo
La luce è troppo dura per questo tempo,
ha gli aculei ed è dolce la sua crudeltà:
troppo scaltro il lucore, troppo nudo
troppo sottile nel filo e liscio nella grana
e il cielo è troppo blu, di un azzurro grezzo
per un sole tanto alto, radioso e felice.
Nuda come l’acciaio, bianca come un’arma
illuminata e illuminante, non sappiamo
se il suo invisibile canto trapassi le ombre
se monta o se cala, se è avanguardia o resa;
ma quando il vero novembre crolla su di noi
questa musica ci rende radiosi e leggeri
lascia una magia, un lento profumo d’estate
che ci ripara dai venti umidi, dai giorni grigi.
*
Il vivo peso della parola
Puoi scrivere – e scrivi;
puoi tacere – e taci.
Ma è sapere il silenzio
l’unica, la grande chiave:
devi perforare i simboli
e divorare le immagini
udire per non intendere
soffrire fino alla morte –
lascia che il vivo peso
della parola ti frantumi.
*
L’albero e il muro
Un albero non è mai dritto:
è al debutto. S’impenna
potente, fin dal fondo delle radici
verso quel punto nel cielo che lo attende,
quell’ambone nel cielo che esiste solo per lui.
Il muro è dritto, eretto dalla base
non nasce che da se stesso. È pur sempre
l’erede diretto di Babele.
L’albero tace: quando muore
la sua preghiera resta impressa
in noi e il suo nome è la luce.
*
Ouverture
Sotto il velo di un aprile che impreca e ride
più verde che vivo, turbato dall’insonnia dei sognatori
il giorno minaccia il giorno che viene: non reca
annunci perché le sentinelle hanno munto la notte.
Un uccello piange. Per paura o per istinto d’amore?
L’erba si piega. È l’angoscia o il peso della pioggia?
Un rischio si apre in ogni istante che passa
e il pericolo è come una corona altera
che mostra il cranio, si inebria di gioielli
ed è quasi un miracolo perché illumina il giorno.
*
Il temporale
Drago che governi su nebbia e nibbi
monarca oscuro e onnipossente
dei frantumi che ti offriamo:
principe del torpore e dell’ira crestata
salute! Ti eleggiamo maestro dei nostri
istanti perché vogliamo essere come te.
Ciò che temiamo è il momento che si biforca
che lascia essudare tutto, il momento
in cui ci alziamo nudi, senza vesti né maschere
in piedi, nella nostra singolarità.
*
Il giardino in collera
Nel crudo oscuro giardino in collera
della carne e del sangue, sui neri meridiani
di questa anatomia strappata dalla mente
e rubata all’anima a cui è annodata
grazie a cui spirava la vita
prima di spirare, come sappiamo:
cosa fa il viandante? cosa può il giardiniere?
La lettera è morta: ci resta il grido
l’urlo dell’essere, un’onomatopea
e l’appello scheggiato di un gesto senza
speranza. Gli uomini delle grotte, rispetto a noi
possedevano il genio della grazia e della conversazione.
Armel Guerne
L'articolo “Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento,
l’amico di Cioran proviene da Pangea.