Qualche giorno prima che fosse pubblicato uno dei più importanti romanzi
americani del Novecento, Il grande Gatsby, il 10 aprile 1925, il suo autore,
Francis Scott Fitzgerald, già famoso e intento a sperperare la sua vita e i suoi
guadagni in una sfrenatissima e alcolica mondanità, scrive da Capri una curiosa
lettera alla scrittrice Willa Cather: professandosi uno dei suoi più grandi
ammiratori, Fitzgerald si autodenuncia alla collega per un «caso di apparente
plagio» che gli era saltato agli occhi in una frase leggendo «con immensa
delizia» il suo romanzo, uscito due anni prima, Una signora perduta. Benché
abbia a lungo meditato di cancellarla dal proprio romanzo, Fitzgerald comunica
alla Cather che alla fine ha deciso di mantenere la frase incriminata, e per
provarle che si è trattato solo di una coincidenza e non di un «furto», allega
alla lettera due pagine del primo abbozzo del suo libro in uscita, scritte prima
della pubblicazione di Una signora perduta, cerchiando la frase (Cather, da
parte sua, risponderà al più giovane collega, con una rassicurante e amichevole
lettera che è anche un capolavoro di finezza). Ma chi era questa venerata
scrittrice che metteva in soggezione lo spavaldo Fitzgerald, protagonista dei
«roaring twenties»?
Nata in Virginia nel 1873 da una famiglia di origini irlandesi e alsaziane, e
cresciuta nel Nebraska, Cather è autrice di almeno due capolavori: La mia
Ántonia (1918) e, per l’appunto, Una signora perduta (1923).Ma va ricordato
anche, almeno, il trittico pubblicato dal 1925 al ’27: La casa del
professore, Il mio nemico mortale e La morte viene per l’arcivescovo; e quel
gioiello che è la raccolta di saggi Not Under Forty (tradotto da Adelphi con il
titolo La nipote di Flaubert). Fu amata anche da Truman Capote, che le dedicò il
suo ultimo scritto raccolto in Musica per camaleonti (dove racconta il suo
incontro, lui diciannovenne, in una gelida notte d’inverno a New York, con la
«blue-eyed lady», la donna dagli occhi che «erano l’azzurro pallido di una
prateria all’alba in una giornata limpida»), e dal poeta Wallace Stevens, che la
considerava la più grande di tutti, e dal critico Harold Bloom, per il quale
solo William Faulkner tra i suoi contemporanei le è superiore.
Cantora del tramonto dell’epopea del West e della dura vita dei pionieri
emigrati (boemi, francesi, tedeschi), è stata una discepola di Henry James, ma
lontana dalla scena sociale del suo maestro, che trasportò dai salotti europei
alle sterminate praterie del Nebraska. La potremmo definire una scrittrice del
rimpianto (rimpianto dell’amore perduto, soprattutto, ma anche di un’età
perduta, e dei luoghi, delle stagioni, dell’innocenza perdute), ma in questo
rimpianto non c’è nulla di sentimentale, piuttosto vi si trova la consapevolezza
dolorosa che la vita è sempre perdita secca, e che la sua unica fonte di
felicità può essere trovata nell’elegia di un passato irrimediabilmente andato.
In Italia di lei si sa e si legge ancora troppo poco: tradotta da diverse case
editrici (con un lungo intervallo di oblio tra gli anni Cinquanta e Ottanta, e
una ripresa all’inizio del Duemila, grazie alle ristampe di Adelphi, Giano e
Neri Pozza), ma sempre in maniera occasionale e dispersiva, l’opera di Cather
meriterebbe un’attenzione maggiore, perché i suoi libri sono capaci di regalarci
una bellezza di rara intensità e una esemplare essenzialità stilistica (in un
suo celebre saggio, The Novel Démeublé, lei stessa teorizzò un romanzo sgombrato
da ogni inutile orpello e ripetizione, da ogni eccesso descrittivo o
psicologistico). Pochi scrittori, infatti, riescono come lei a farci percepire
l’effimera e struggente e crudele bellezza della vita. Basta leggere, per
capirlo, i due capolavori già citati, e in particolare La mia Ántonia, un
romanzo che può accompagnarci per una vita intera, essere letto e riletto con un
piacere sempre rinnovato. Lo ripropone adesso la casa editrice Feltrinelli
(nella collana Comete), nella nuova traduzione di Monica Pareschi e con
postfazione di Sara Antonelli, ed è decisamente un’occasione da non perdere, sia
per gli appassionati della scrittrice americana, sia per chi non l’ha mai
letta.
La mia Ántonia è una narrazione memoriale, affidata a Jim Burden, ragazzo orfano
della Virginia e amico d’infanzia che diventa il custode elegiaco della figura
di Ántonia Shimerda. La dimensione memoriale inserisce immediatamente il romanzo
nell’aura della perdita: ciò che leggiamo non è mai «la vita stessa», ma una
rievocazione già trasfigurata, un canto del tempo che scorre. Il cuore pulsante
del romanzo è lei, la boema Ántonia, che incarna la terra, la fatica, la
fertilità, ma anche l’irriducibilità della vita di fronte al desiderio
frustrato. Jim la ama e non la possiede; la contempla perdendola. Cather sceglie
di fare di lei una figura tellurica, in contrapposizione al narratore che è
spettatore colto, cittadino, destinato a un’altra vita. Il libro è, da questo
punto di vista, anche una riflessione sulla condizione dell’emigrazione e
sull’epopea americana vista dalla parte degli sradicati, non dei vincitori. La
struttura del romanzo, che dissolve la trama in senso tradizionale, è episodica,
fatta di quadri, di stagioni, di ritorni.
Nella scrittura di Cather, di una straordinaria sensibilità pittorica, il
paesaggio diventa protagonista, e ogni descrizione di un campo innevato, di una
mietitura o di un tramonto sulle praterie diventa immagine del destino umano.
Cather inventa una prosa che è allo stesso tempo precisa ed evocativa, capace di
essere concreta come un documento e sospesa come un ricordo. E in questo senso
la nuova traduzione di Monica Pareschi restituisce precisione e naturalezza alla
scrittura, ma anche l’elasticità delle frasi, il tono colloquiale, concreto e
insieme lirico (a volte nello stesso giro di frase) della voce narrante.
Il romanzo, come molti altri libri di Cather, è anche attraversato da un
erotismo sotterraneo: la forza vitale di Ántonia, la sua corporeità, hanno
un’intensità sensuale che Jim registra e sublima. Per un’autrice che non
dichiarò mai apertamente la propria omosessualità, ma la visse in relazioni
durature e silenziose, questo gioco di allusioni e di traslati diventa cifra
stilistica: il desiderio resta non detto, ma impregna ogni pagina, ed è tanto
più pervasivo. C’è poi il tema del rimpianto, che fa di La mia Ántonia un libro
ancora profondamente moderno. Jim, adulto, rievoca l’adolescenza e sa che nulla
può tornare. L’elegia (che Bloom ha definito «virgiliana») diventa allora una
forma di resistenza etica: dire ciò che è stato per non lasciarlo dissolvere. In
questo senso Cather si mostra lontanissima dal sentimentalismo e vicinissima a
una sorta di stoicismo. Se in Ántonia c’è la forza della vita che resiste alla
perdita, e in Jim la coscienza che tutto è nostalgia, tra i due si apre quello
spazio che è il vero luogo della letteratura: l’impossibile riconciliazione tra
ciò che si vive e ciò che si ricorda.
Fabrizio Coscia
*In copertina: Willa Cather, il suo triciclo, 1910 ca.
L'articolo Rileggiamo Willa Cather, venerabile scrittrice: ha trascinato Henry
James nel West… proviene da Pangea.
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Dostoevskij era ossessionato dal suicidio. Più che dal corpo morto, era
ossessionato dall’anima scassinata, avvizzita. Nel Diario di uno scrittore,
l’immane rubrica pubblicata su “Il cittadino” dal 1873 – in Italia stampa
Bompiani, nell’atavica traduzione di Ettore Lo Gatto – Dostoevskij scrive spesso
di suicidi. Nell’ottobre del 1876, ad esempio, dice di “una povera giovane” che
“si era buttata dalla finestra, dal quarto piano… tenendo nelle mani un’immagine
sacra”. Questo “suicidio umile” sarà il pretesto per uno dei racconti più noti
di Dostoevskij, La mite.
Anche Nathaniel Hawthorne, lo scrittore della Lettera scarlatta, era
ossessionato dal suicidio. Nel suo Diario – cito dalla traduzione di Agostino
Lombardo, Neri Pozza, 1959 – appunta che il 9 luglio del 1845, in un fiume nei
dintorni di Salem, era stato ritrovato il “cadavere d’una fanciulla annegata:
era una certa Miss Hunt, di circa diciannove anni, ragazza colta e raffinata, ma
depressa e infelice”. È una pagina terribile e – dunque – meravigliosa:
Hawthorne, con olimpica pietà, racconta, nel dettaglio, il corpo del
suicida (“Non avevo mai visto o immaginato uno spettacolo di tanto perfetto
orrore. La rigidità era terribile a vedersi. Le sue braccia s’erano irrigidite
nell’atto di lottare; ed erano curve davanti a lei, con le mani ad artiglio”); è
affascinato dalla scena, sensazionale, di cui vuole carpire il principio.
A Hawthorne interessa il carattere della ragazza morta. Dostoevskij, invece,
indaga la ragione del suicidio, una ragione irragionevole. Le ragazze di cui i
due grandi scrittori narrano il suicidio sono simili: “la mite anima che ha
annientato se stessa” di Dostoevskij è analoga alla pia fanciulla descritta con
sinistra minuzia da Hawthorne, “pare che fosse religiosa, e di elevata
moralità”. Dalla diversa capacità di raccontare un suicidio – uno ausculta
l’anima l’altro descrive il corpo, uno tenta la compassione l’altro la
redenzione – potremmo tracciare il confine che separa la latitudine della
letteratura russa da quella statunitense.
Hawthorne muore nel 1864, quando Dostoevskij pubblica Memorie del sottosuolo: li
immagino camminare insieme, lungo la Neva. Entrambi – tra l’altro – avevano una
passione per i matti.
Nel breve scritto sulla giovane suicida che si getta dalla finestra abbracciando
un’icona, Dostoevskij aggiunge un dettaglio decisivo.
> “Semplicemente, era diventato impossibile vivere”.
Questa frase è l’oblò da cui guardare l’oceanica opera di Dostoevskij. Lo
scrittore deve scrivere di quel luogo in cui, semplicemente, è diventato
impossibile vivere. In uno dei racconti più belli di Dostoevskij, Il sogno di un
uomo ridicolo (accolto, nella nuova traduzione di Serena
Prina, nei Racconti editi da Feltrinelli, 2023), pubblicato sul Diario di uno
scrittore nell’aprile del 1877, un uomo, semplicemente, capisce che è
impossibile vivere. “All’improvviso sentii che mi era del tutto indifferente se
il mondo esistesse o se non ci fosse nulla da nessuna parte”. Una notte, così,
l’uomo ridicolo – parente stretto dell’uomo del sottosuolo – decide di
uccidersi. È il tre di novembre, è sera, “una sera cupa, la più cupa che possa
esistere”, sono le undici. L’uomo fissa una stella e compie la sua scelta,
“quella notte stabilii di uccidermi”. D’altronde, tutti lo credono pazzo perché
l’uomo ridicolo riconosce l’insensatezza di tutte le cose: è un profeta del
nulla, un gretto guru del disordine, capace di ledere il sistema di convivenza
sociale. Chi ride di lui si crede potente, ma è un ipocrita perché vive in un
mondo illusorio. I veri pazzi sono quelli che stanno bene a questo mondo.
La faccio breve. L’uomo ridicolo non si ammazza. A salvarlo – inconsapevolmente
– è una bambina di otto anni, “tutta fradicia”, lacera, che “urlava in modo
sconnesso… Mammina! Mammina!”. L’uomo la allontana da sé in malo modo: rientrato
a casa, si accascia in poltrona, si addormenta. Al risveglio dal sonno –
picaresco, “fantastico”, cristico, che evito di raccontare – l’uomo ridicolo è
preso da un incendio religioso. Proclama l’amore universale, sventola il
Vangelo, diventa “una sorta di jurodivyj”, uno “stolto in Cristo”, un
pellegrino, ispirato e poverissimo. In ogni caso, è creduto pazzo.
Morale: l’esperienza del nulla è necessaria per riconoscere Cristo, che
altrimenti resta orpello, il doppiopetto dei vili; il vero cristiano è chi
scampa da una crisi che schiaccia, che pone sulla soglia del suicidio. Fuori dal
cristianesimo, semplicemente, non si può vivere, non ha senso la vita.
La “ragazzina” che salva la vita all’uomo ridicolo – “quanto alla ragazzina,
l’ho rintracciata…”, scrive ‘Dost’, dando al racconto l’impeto di una sequela –
è la suicida rediviva, la mite mitizzata, è Matrëša risorta, la ragazzina
“bionda e lentigginosa”, dal “viso comune ma con qualcosa di molto infantile e
quieto”, che si impicca dopo essere stata violata da Stavrogin, il demonio
attorno a cui ruota la vicenda de I demoni. Secondo Lev Šestov, che sui libri di
Dostoevskij ha fondato il suo implacabile sistema filosofico, Il sogno di un
uomo ridicolo è l’opera quintessenziale dello scrittore russo, quella che
riassume i suoi temi totem.
> “Dostoevskij, come i santi in cerca di salvezza, ascolta senza tregua una voce
> misteriosa che gli sussurra: Osa! Tenta il deserto, la solitudine. Sarai
> bestia o Dio”.
Soltanto l’uomo imbestiato, che percorre l’abisso e l’abiezione, scorge, poco
dopo il demone, Dio.
Secondo Michail Bachtin, invece – così ci spiega Serena Prina – è Bobok il
“microcosmo di tutta l’opera di Dostoevskij”. Il testo – intriso d’ironia nera,
un Edgar Poe allucinato dalla vodka – racconta di “un tale”, scrittore in
disfatta, che un giorno, capitato al cimitero, ascolta i pettegolezzi dei morti.
Il racconto oltraggia i contrasti: i veri saggi sono i pazzi (“colui che
rinchiude un altro in manicomio non dimostra certo la propria condizione di
persona savia”), la vera vita, forse, è la morte, secondo l’enigmatico aforisma
di Euripide (“Chi sa se forse vivere è morire e morire è vivere”). Bobok è
l’intercalare borbottato da uno dei morti, “quasi del tutto decomposto”: parola
insensata, che “significa comunque che anche in lui la vita conserva ancora
un’impercettibile scintilla”. Bobok è la parola ultima, estremo sigillo di vita
sulla soglia della fine, fetida fiamma. Fa parte, Bobok, di quel vocabolario
minimo di neologismi lunari: si installa tra Pallaksch, parola-amuleto di
Friedrich Hölderlin (un insensato che vuol dire sì e no allo stesso tempo,
asserzione che si fonda sulla negazione), e Aphinar, parola-mappa, la meta,
inesistente, a cui Rimbaud chiede di essere destinato, morente, paralizzato, sul
letto ospedaliero di Marsiglia.
Bobok è il richiamo delle Muse-iene, a un passo tra ispirazione e disperanza.
Si legge Dostoevskij, d’altronde, sempre in prossimità di un delirio, di un Dio
a venire, avventato.
*In copertina: un disegno di Victor Hugo
L'articolo “Osa! Sarai bestia o Dio”. Dostoevskij, o dell’impossibile proviene
da Pangea.
Per comprenderne l’indole, dobbiamo partire dalla fine. Alfred De Vigny – che
una celebre fotografia di Nadar mostra a braccia incrociate, il viso
corrucciato, la giacca ad ampie falde: un pipistrello, insomma – morì nel
settembre del 1863. Soffriva, da tempo, di un cancro allo stomaco; passò gli
ultimi anni a curare la moglie, Lydia Jane Bunbury, di origine inglese,
bellissimo, dicono, ricchissima, sprofondata in una nera demenza. L’amore della
sua vita – ovviamente: tormentato, inquieto, destinato a niente – fu però
l’attrice Marie Dorval, tra le più grandi dell’epoca, pervicace nella posa e nel
capriccio. Da anni alieno ai circoli letterari, per il disgusto verso le mode
imperanti, per una disciplina all’arte della sprezzatura, nel buon ritiro di
Maine-Giraud, un maniero in Charente, Alfred De Vigny, il poeta idolatrato da
Marcel Proust – da ragazzo lo considerava, insieme a Baudelaire, “il più grande
poeta del XIX secolo: anche nelle sue poesie meno note, mantiene una calma,
quell’ineffabile bellezza che ci sfuggono” – morì solo. La biografia redatta
dall’Académie française è spietata per rigore: “Indifferente al pubblico, fu il
vuoto intorno alla sua bara, accompagnata soltanto da qualche romantico della
prima ora”.
Fu eletto al seggio 32 – attualmente occupato da Pascal Ory, vi sedette, tra gli
altri, Alain Robbe-Grillet – nel maggio del 1845, dopo essere stato rifiutato
per sette volte. Gli “accademici” non amavano le sregolatezze dei Romantici;
Vigny rifiutò di presentarsi al cospetto di Luigi Filippo I di Francia. Quando
tentò di far eleggere tra i ranghi dell’Accademia Balzac, gli andò male.
Rampollo di una genia di militari, Alfred de Vigny passò la giovinezza in armi.
Pensava di fare carriera, di mettere alla prova la sua ideale audacia; languì
nella palude di guarnigioni mal assemblate. I fasti napoleonici – esemplificati
nello schietto romanzo di Conrad, I duellanti – erano un ricordo. Ottenne i
gradi, si licenziò capitano; in un ritratto, ragazzo, con la divisa della
“Maison du roi”, ha lo sguardo languido, la bellezza scapigliata, ininterrotta.
Alfred de Vigny (1797-1864) fotografato da Nadar
Dicono fosse incapace di “capire la realtà” – il che, per un poeta, non è poi
grave –, crebbe nel mito di Lord Byron, fece parte del circolo di Victor Hugo.
Tradusse – con spigliata grazia, in versi – Shakespeare, i suoi Poèmes antiques
et modernes (usciti, in edizione definitiva, nel 1829 e aggiornata nel 1841) gli
diedero autorevolezza lirica. I critici dicono che i “poèmes philosophiques”
raccolti come Les Destinées nel 1864, la sua opera definitiva, annunciano le
innovazioni di Stéphane Mallarmé (dei Poemi antichi e moderni e de I
destini esiste una traduzione di Lanfranco Binni, edita da Garzanti nel 1991).
Il capolavoro di Alfred de Vigny resta comunque Chatterton: andata in scena al
Théâtre français il 12 febbraio del 1835 (con l’amata Marie Dorval nei panni di
protagonista femminile), la pièce riscosse un successo assoluto; fu applaudita,
tra gli altri, da George Sand e da Sainte-Beuve. Da quel testo, Leoncavallo
trasse un’opera lirica assai meno fortunata, omonima, andata sul palco del
Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel 1896, con scarse repliche.
Alfred de Vigny era ossessionato dalla figura di Thomas Chatterton, l’acerbo,
geniale poeta di Bristol, suicidatosi a poco meno di diciotto anni, nel 1770, a
Londra. Gli pareva, più di ogni altro, prima di tutti, l’emblema del poeta,
eternamente giovane, che si schianta contro l’indifferenza della società
letteraria e “va fino in fondo”. Il poeta che si immola per la poesia, con
disperazione messianica. Thomas Chatterton, amato da Coleridge e da Keats,
sbandierato, via via, come un simbolo, più citato che letto (la sua storia e la
sua opera sono state recepite per la prima volta in Italia di recente, in: T.
Chatterton, Nell’aura del fulmine, Feltrinelli, 2025), sarebbe piaciuto a
Borges: quindicenne, si era corazzato con un alter ego, il monaco Thomas Rowley,
vissuto nel XV secolo, che scriveva odi in un inglese antico di inedito conio,
fitto di indecifrabili invenzioni. L’eterno fanciullo della poesia inglese,
ridotto in miseria, malcompreso (da Horace Walpole, soprattutto, l’autore
del Castello di Otranto, doge dei circoli letterari londinesi del tempo), fu il
primo a scatenarsi contro le viete formalità della cultura – scriveva versi
audaci fino al rebus, pieni di abissi, di ferina ingenuità, che delizieranno
Dylan Thomas.
Già in Stello – romanzo nottambulo del 1832 – Alfred de Vigny si era appellato a
Thomas Chatterton come a uno spettro amico; con Chatterton ideò il più vigoroso
manifesto del romanticismo francese. In particolare, sono le pagine poste a
introdurre la pièce, Dernière nuit de travail, a costituire una sorta di manuale
dell’indole romantica di allora. Alfred de Vigny fa di Chatterton il poeta per
antonomasia, l’ispirato assoluto, che non si piega di fronte alla necessità del
mondo, non scende a compromessi, ed è trattato dagli uomini come uno strano, un
estraneo, un folle. Il testo – qui tradotto, in calce – evita i rischi della
secca retorica perché Vigny è sorretto da un’intuizione sagace: Chatterton non è
colpevole di suicidio, è la società ad averlo costretto a uccidersi. Il poeta è
come lo scorpione rinchiuso per gioco dai bambini in un cerchio di fuoco;
vedendosi perduto, l’artropode rivolge contro di sé il velenoso aculeo e muore,
mentre gli altri, intorno, ridono. L’idea del suicidato dalla società sarà
ripresa con furia da Antonin Artaud parlando di Vincent Van Gogh, un altro
artista messianico. Ci sono artisti la cui scelta si staglia come un’opera con
esiti spesso sfrenati, inattesi.
Di fronte alla morte di un ragazzo – eternata da quadri che ne hanno fatto una
specie di figurina pronta alla lacrima e al solido applauso – bisogna tumularsi
nel silenzio – anzi, nella preghiera. Più che altro, Alfred de Vigny ha
profetizzato la figura del maledetto: a lui Paul Verlaine si riferisce quando,
nel 1884, licenzia il saggio sui Poètes maudits. Thomas Chatterton ha
stigmatizzato i poeti, costringendoli alla sequela estrema, “li condanna
all’eterno esempio di una morte in miseria, abbandono, speranza mutilata”. Tutti
gli altri – chi stringe accordi con il tempo, ‘a fin di bene’, per sopravvivere
– è, in fondo, reo di tradimento, un vile.
A suo modo, Alfred de Vigny si allineò al duro addestramento di Chatterton.
Voltò le spalle alla città, rifiutò di pubblicare, continuando a molare e ad
approfondire l’opera. Vedeva Chatterton ogni giorno, nei brevi boschi che
circondavano la sua villa – era mutato in volpe, diceva.
***
Ultima notte di lavoro. Per Thomas Chatterton
La causa: il perpetuo martirio e la perpetua immolazione del Poeta. La causa: il
diritto che egli ha di vivere. La causa: il pane che gli viene sottratto. La
causa: la morte che è costretto a infliggersi.
Da dove tutto questo? Dal fatto che lodiamo il genio, ma uccidiamo i geniali. Li
uccidiamo negando loro la vita. Potremmo pensare, vista la scarsa importanza con
cui viene trattato, che il Poeta sia cosa comune. Una nazione dovrebbe essere
orgogliosa se avrà due Poeti in dieci secoli. Ci sono Stati che non ne hanno mai
avuto uno. Eppure: perché così tante stelle si estinguono appena cominciano a
brillare?
Perché ignorate cosa sia un Poeta.
Continuerete ancora a non vedere? Per quanto?
Tre tipi umani, che non dobbiamo confondere, agiscono nella società tramite il
pensiero, muovendosi in regioni separate.
L’uomo esperto negli affari della vita, apprezzato dal mondo, si incontra ad
ogni passo. A tutti adatto, a tutto si adatta. Ha una flessibilità e una
disinvoltura che rasentano il prodigio. La sua mente è libera, sempre fresca,
pronta a ogni risposta. Privo di autentiche emozioni, restituisce buone parole a
seconda delle occasioni. Scrive di economia come di letteratura. Pratica l’arte
come la critica, assume per l’una toni alla moda per l’altra la dissertazione
sentenziosa. Sa combinare le parole per creare l’effimero della passione, della
malinconia, dell’erudizione, dell’entusiasmo. È posseduto da fredde
inclinazioni, che intuisce più che comprendere; le respira da lontano, come i
vaghi odori di fiori sconosciuti. Crea il linguaggio dei ‘generi’ come si
forgiano le maschere per i volti. Può scrivere commedie e orazioni funebri,
romanzi e fiabe, epistole e tragedie, poesie e discorsi politici. È l’uomo di
lettere, da sempre amato e compreso, sempre in auge, bene in vista, mai
inviso. Quest’uomo non ha bisogno della nostra pietà.
Sopra di lui, c’è un uomo dalla natura più forte e raffinata. Una profonda e
grave convinzione fonda le sue opere, che riversa su una terra cruda, spesso
ingrata. Ha meditato in solitudine la propria filosofia, la vede al colpo
d’occhio, squadernata, la tiene in mano come una catena: sa che il primo anello
condurrà all’ultimo, sa come ogni anello si colleghi agli altri. La sua memoria
è ricca, quasi infallibile, il giudizio sano, è uno studioso completo, calmo. Il
suo genio è attenzione al massimo grado, buon senso nella più piena espressione.
Il linguaggio è coerente, limpido, franco, grandioso nel portamento, vigoroso
nei tratti. Soprattutto, gli occorrono ordine e chiarezza. L’ardore della lotta
perpetua infiamma la sua vita e i suoi scritti. Il suo cuore racchiude grandi
rivolte e l’ira superba, che lo rode in segreto. Sa seminare a grande profondità
e attendere che l’opera germogli: è spaventoso quando è immobile, in veglia. È
padrone di se stesso e di molte anime, che conduce a Nord e a Sud, a suo
piacere; tiene in mano un polo, e l’opinione che la gente ha di lui lo obbliga a
custodire la propria vita, a mantenere desto il suo amor proprio. È il
vero, grande scrittore.
Non è infelice; ha ciò che desidera; sarà sempre in lotta, ma quando concederà
tregua ai nemici, riceverà degni omaggi. Vincitore o vinto, sarà sempre
incoronato. Non ha bisogno della vostra pietà.
Ma c’è un altro tipo, dalla natura passionale più pura e più rara. La sua opera
proviene da Dio e giunge al mondo a intervalli rari. È un peso per gli altri,
perché appartiene completamente alla stirpe degli ispirati. L’emozione, in lui,
è così intima e profonda che vi si è immerso fin dall’infanzia. L’immaginazione
lo possiede sopra ogni cosa. Al minimo urto, si sbriciola; al minimo respiro,
volta verso mondi sconosciuti. Da allora in poi, smette i rapporti con la
creatura umana. La sua sensibilità è troppo vivida; ferisce fino al sangue; i
suoi eccessivi entusiasmi lo traviano; le sue simpatie sono troppo veraci;
compatisce chi soffre infinitamente meno di lui, muore dei dolori degli altri.
Le resistenze della società umana, il suo disgusto, lo gettano in un profondo
sconforto, in una nera indignazione, in una desolazione insormontabile, perché
tutto comprende, e troppo profondamente. In questo modo, tace, si ripiega su se
stesso, recluso nella sua prigione. Lì si forma qualcosa di simile a un vulcano.
Il fuoco cova lento, la lava è armoniosa. Ma quando esploderà? Si direbbe che
assista come uno straniero a ciò che accade dentro di lui. Cammina come un
malato, non sa dove andare, vaga per giorni. Non ha bisogno di fare nulla,
perché accada la sua arte. Non deve fare nulla, perché gli accordi del mondo si
formano comunque nella sua anima: il roco rumore del lavoro regolare irrompe, li
interrompe. Lui è il poeta. Appena si mostra, è mutilato – tutte le lacrime,
tutta la nostra pietà sia per lui!
La lingua che ha scelto è compresa da un infimo numero di uomini ed è a loro che
egli grida: “Ascoltatemi, fatemi vivere a mio modo!”. Ma molti sono inebriati
dalle proprie opere, altri lo sdegnano perché in quel perenne bambino vogliono
la perfezione dell’uomo maturo; i più sono distratti, indifferenti; tutti sono
impotenti nel bene.
E lui grida ai Poteri: “Ascoltatemi, fate che non muoia!”. Ma i Poteri
proteggono soltanto gli interessi positivi, sono estranei al genio, che li
offende.
Se ne ha la forza, diventerà un soldato, trascorrendo la vita sotto le armi; una
vita attiva, rozza, che ucciderà il suo essere morale. Altrimenti, se ha
costanza, si condannerà alle fatiche del numero, al calcolo che uccide le
illusioni. Se il suo cuore non si impenna con violenza, può piegarsi, molare i
pensieri, smettere il canto. Si farà, allora, uomo di lettere; oppure, se la
filosofia lo sorregge e incoraggia, diventare un grande scrittore; ma a lungo
andare il giudizio soffocherà la visione, schiacciando il poema che aveva in
petto.
In ogni caso, ucciderà una parte di sé, ma per questi suicidi a metà, per queste
immense irragionate rassegnazioni è necessaria una forza rara, nera. Se questa
forza non gli è data, quale strada gli resta da intraprendere? Quella di Thomas
Chatterton: il suicidio radicale.
Dunque, è un criminale! Un criminale davanti a Dio e agli uomini, dacché il
suicidio è un crimine, religioso e sociale. Chi può negarlo? Il dovere e la
ragione lo confermano. Si tratta soltanto di capire se la disperazione non sia
qualcosa di più forte di dovere e ragione. […] La vera disperazione è un potere
che divora, irresistibile, famelico, al di là della ragione, che comincia
annichilendo il pensiero. La disperazione non è un’idea, è una bestia che
tortura, che stringe, schiaccia e lacera il cuore di un uomo, fino a farlo
impazzire.
Ma è lui, il poeta, il vero colpevole o lo è la società, che lo disarma, che lo
bracca senza fine?
C’è un gioco terribile comune ai bambini del Midi. Essi costruiscono un cerchio
con i carboni ardenti; in mezzo, mettono uno scorpione, catturato con le pinze.
All’inizio, lo scorpione resta immobile. Quando il fuoco comincia a bruciarlo,
si agita. I bimbi ridono. La creatura cerca di evadere dalle fiamme, facendosi
strada tra i carboni ardenti; ma il dolore è troppo e si ritira. E ridono. Lo
scorpione cerca un passaggio impossibile, uno spiraglio. Poi ritorna al centro,
in una più oscura quiete. Infine, rivolge il dardo avvelenato contro se stesso e
muore, sul colpo. E ridono – e ridono più forte di prima. È lo scorpione il
colpevole? I bambini sono innocenti e buoni?
Quando un uomo muore nello stesso modo, è davvero un suicida? No. È la società a
gettarlo nel fuoco.
I bei versi, dobbiamo dirlo, sono merce che non piace alla gente comune. La
moltitudine mira a moltiplicare il proprio stipendio; nelle nazioni più nobili,
la massa ama ciò che amano tutti. Soltanto dopo una lenta istruzione e un
continuo addestramento può apprezzare la bellezza; nel frattempo, schiaccia il
talento nascente, il genio sorgivo, senza udire le grida della sua angoscia.
Ho voluto mostrare l’uomo spirituale soffocato dalla società materialista, dove
l’avido calcolo sfrutta senza pietà l’intelligenza e il lavoro. Non voglio
giustificare gli atti disperati degli sventurati ma protestare contro
l’indifferenza che costringe costoro a compierli.
Il Poeta è tutto per me; Chatterton è il nome di un uomo – ho omesso i fatti
esatti della sua esistenza per trarre dal suo destino l’emblema eterno di una
nobile miseria.
Oggi i tuoi compatrioti, caro Chatterton, ti chiamano ‘ragazzo meraviglia’… Eri
infelice – tanto mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne! Perdonami
di aver eretto a simbolo il nome mortale che indossavi su questa terra, per fare
del bene nel tuo nome.
Tra il 29 e il 30 giugno 1834
Alfred de Vigny
*In copertina: Egon Schiele, Bildnis Paris von Gütersloh, 1918
L'articolo Il poeta, “il suicidato dalla società”. Un testo di Alfred de Vigny
proviene da Pangea.
Nel 1904, per “La Nuova Rassegna” di Firenze, Ettore Allodoli scrive un ispirato
profilo di Thomas Chatterton. Con l’acribia del critico, Allodoli tenta di
scindere il mito dall’uomo, la leggenda dall’opera. Impresa, per lo più,
vana. Thomas Chatterton, il poeta morto per scelta neppure diciottenne, aveva
finito per incarnare l’idolo del genio ribelle alle coercizioni della società,
l’artista incompreso, umiliato. Era una specie di Werther, rinnovava i caratteri
del puer virgiliano – parola che redime i mondi –, è stato il ragazzino giunto a
sconvolgere la scena lirica del proprio tempo, dominata da poeti ipocriti, da
piumati, spumeggianti lacchè.
Icona triste, notturna, già totalmente ‘romantica’, dalla giovinezza
lunare, Thomas Chatterton rischiò di essere il Rimbaud della poesia inglese – la
morte fu per lui una sorta di infernale Harar. Non ci riuscì perché l’epoca –
per usare una formula di Antonin Artaud – aveva scelto di suicidarlo. Così, il
giovane Allodoli – aveva poco più di vent’anni: amico di Giovanni Papini, sarà
Accademico d’Italia, critico infaticabile e biografo, tra i tanti, di
Michelangelo, Savonarola e Giovanni dalle Bande Nere – riporta il ragazzo al suo
vero, pionieristico ruolo: il precursore di Keats, Shelley e Byron, nei toni
poetici e nella postura del vivere (dissennata: per eccesso di vitalismo come
d’intimismo). Ce lo descrive “ambizioso e orgoglioso” fino alla mania –
“l’orgoglio gli ottenebrò la mente e lo fece sviare nei suoi ragionamenti e
nelle sue riflessioni” –, grave di “generosa baldanza” e “indipendenza di idee”.
Anche il critico, tuttavia, non può non impuntarsi nel mito, dalle oscurità
elisabettiane:
> “ritiratosi dalla vita brillante presso un fabbricante di manifatture in
> Brookstreet nelle vicinanze di Londra, visse alquanto in silenzio finché un
> giorno, dopo avere orgogliosamente rifiutato un pranzo che il padrone di casa
> gli offriva, la fame, le delusioni e la disperazione lo costrinsero ad
> uccidersi. Quasi nessuno parlò della sua morte e il suo corpo fu sepolto nella
> fossa comune”.
Alla dissipazione del corpo seguì la resurrezione del corpus: ci si accorse –
troppo tardi – di essere al cospetto di un talento selvatico, dall’opera
esondante, un Niagara, capace di passare, con aggressivo agio, dal poema
cavalleresco alla scena ‘da camera’, dall’idillio alla satira, violenta. Non so
se la solitudine ricercata, la sovrabbondante ira, la frustrazione abbiano
favorito o stravolto l’opera di Chatterton: ancora oggi egli è l’autentico
rivoluzionario della poesia inglese, ignifugo alle mode critiche e alle
stagionali rivalutazioni. Se William Blake, per dire – per effetto, è ovvio, di
una agghiacciante singolarità – è diventato un idolo, Chatterton resta nel volgo
dei vampiri, a ruminare tra le ombre: per sempre insoddisfatto, non ci dà pace,
ci dà di morso.
Luigi Berti – tra i rari che abbiano tentato di tradurre Chatterton nella nostra
lingua – credette di trovarsi al cospetto di un genio ingenuo, di un rebus, in
fondo (“Chatterton ci ha lasciato due volumi di versi e certi critici vi hanno
veduto anche un’evasione immaginativa di rara potenza, altri ancora uno stato
morboso che lo spingeva a crearsi un mondo d’immagini e di musica in cui la
morte era regina”, in: I preromantici inglesi, Guanda, 1964); scrisse che se
fosse vissuto di più, chissà, “sarebbe stato tra i più forti poeti preromantici
e forse anche tra i maggiori del suo tempo”. Al tempo di Allodoli – che costella
il suo saggio di qualche traduzione, qua e là –, i ragazzi mandavano a memoria
le poesie di Chatterton rimpinguandosi della sua leggenda: il poeta incompreso,
il poeta ribelle, l’uomo che ha scelto di vivere poeticamente, fino alla
tragedia. La frase con cui Allodoli chiude il saggio – “pensando al diciottenne
poeta, noi ci sentiamo turbati come dinanzi a qualcosa di straordinario” –
dichiara il destro di una poetica: il poeta è sempre fuori dall’ordinario, non
si lascia intimidire dalle norme stantie della storia dell’arte; il poeta è il
perturbante.
Henry Wallis, The Death of Chatterton, 1856
Fresca, d’altronde, era l’impressione di Chatterton, l’opera lirica di
Leoncavallo andata in scena al Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel marzo del
1896. Il libretto era tratto dalla drammaturgia del 1835 di Alfred de Vigny, tra
le sue più grandi. L’introduzione dello scrittore – Dernière nuit de travail –,
di fatto, fa di Chatterton un monito e un mito ‘universale’.
> “La mia causa è il perpetuo martirio del poeta, la sua perpetua immolazione –
> La mia causa: il diritto che egli viva – La mia causa: il pane che non gli
> diamo – La mia causa: la morte che è costretto a darsi”.
A De Vigny non importava l’opera di Chatterton, poeta solare pur nella sua
disperazione, ma l’epopea del “criminale davanti a Dio e davanti agli uomini,
dacché il suicidio è un crimine religioso e sociale”. Ne fa il sovrano
dell’angoscia, il prototipo del suicidato dalla società – “Quando un uomo muore
in questo modo possiamo parlare di suicidio? È la società che lo ha gettato
negli inferi” –, l’erma di un sopruso che tutto mette in discussione:
> “Il Poeta era tutto per me; Chatterton non era che un nome; ho deliberatamente
> messo da parte gli esatti fatti della sua vita per prelevare da quel destino
> ciò che lo rendeva un esempio per sempre deplorevole di una nobile miseria. I
> tuoi compatrioti ti dissero bimbo meraviglioso! Giusto o meno che fosse, eri
> infelice; ne sono certo, e mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne!
> Perdonami se ho preso come un simbolo il nome che hai portato su questa terra,
> e in tuo nome aver tentato il bene”.
Il cadavere di Chatterton, pari a un burattino, si prestò a essere manovrato da
molti, travestito dai tanti. Il suicidio tramutò l’esistenza di un irregolare in
quella di un reietto dell’assoluto. Caso singolare in cui una vita, malridotta,
ha vampirizzato l’opera.
In realtà, scevra dalla gigantografia leggendaria, la burrascosa esistenza di
Thomas Chatterton si muove attorno ad alcuni, miliari, elementi. Nato a Bristol
il 20 novembre del 1752 – quasi un secolo dopo, il 20 ottobre del 1854, nasce,
pure lui in provincia, quell’altro “ragazzo meraviglia”, Arthur Rimbaud: nella
genuflessione del genetliaco, lievemente obliquo, c’è anche la sostanziale
differenza di statura lirica, ma non di carisma – Chatterton subisce, da subito,
lo stigma della perdita. Il padre, che si chiamava come il figlio – biblica
surplace, la saggezza del sangue – muore pochi mesi prima della sua nascita, in
agosto: musico mediocre, poeta per dire, per diletto praticava l’occultismo.
Thomas cresce con la madre, insegnante di cucito e di ‘ornato’: di suo, acuisce
un’indole alla solitudine, alla lettura disordinata. Da bambino, faticava ad
apprendere l’alfabeto, lo consideravano alla stregua di un idiota. La scuola –
frequentata a Bristol – lo infastidisce, come, in generale, le gerarchie
dell’ordine costituito e i fatui giochi dei suoi compagni. Mitizza, invece, i
meandri della chiesa di St Mary Redcliffe, in cui è sagrestano lo zio, per
tradizione legata al lignaggio dei Chatterton. Orfano di padre, Thomas
Chatterton trova una parentela tra affini nei cavalieri medioevali, nei vescovi
capaci nell’elargire le pene e nello sguainare la spada. Ama insinuarsi in un
altro modo: predilige l’epoca della Guerra delle Rose e quella di Enrico VIII,
s’inventa un XV secolo a suo uso, comincia a scovare vecchie pergamene negli
archivi di famiglia e in quelli della parrocchia, balocca con la lingua. La sua
precocità è inquietante: a otto anni l’idiota si rivela un lettore formidabile;
a undici si ritiene poeta compiuto. È l’era in cui vanno di moda i ‘notturni’ e
l’esotismo di un Medioevo ricostruito in vitro, con sapienza letteraria:
spopolano i canti di Ossian di James Macpherson – stampati dagli anni settanta
del Settecento, in Italia hanno un traduttore d’elezione in Melchiorre Cesarotti
– e le Reliques Of Ancient English Poetry di Thomas Percy; la caccia al
manoscritto perduto è lo sport più in voga tra i letterati del tempo.
All’accademismo, Thomas Chatterton preferisce l’energumena genuinità
dell’ispirazione; l’invenzione di Thomas Rowley, immaginario monaco vissuto nel
XV secolo, nei dintorni di Bristol, è la testimonianza di un talento senza
freni.
Abile nella mistificazione, nell’arte di produrre poemi in un middle english di
propria foggia, sagace nel gioco dei labirinti verbali, Thomas Chatterton
comincia a vendere i testi di Rowley, suo medioevale alter ego, come li avesse
tratti da un manoscritto fortunosamente ritrovato. Per un po’, nessuno sa
sbugiardarlo e il falso gli rende – ancora nel 1778, il poeta ‘laureato’ Thomas
Warton inserisce i poemi di Rowley nella sua History of English Poetry, tra John
Gower e Geoffrey Chaucer. Per contrasto, la stoffa di Chatterton – portata
all’esuberanza come all’esuberante depressione – non sopportava le falsità del
proprio tempo.
Talento burrascoso e inarginabile, il ragazzo sbarca, sedicenne, a Londra, certo
di poter sopravvivere del proprio talento. Le poesie gli rendono poco; in genere
– privo di appoggi e di sostanze – una specie di sovrumana indifferenza gli fa
da aura. Sono, in ogni caso, anni di prodigiosa scrittura: Chatterton tocca
tutti gli angoli della sensibilità lirica – dalla satira allo ieratico poema
medioevale, dall’imitazione alla poesia d’amore, dall’invettiva all’improvviso,
dalla pièce teatrale al ‘pezzo’ cosmico –, è famelico di fama. A differenza dei
poeti del suo tempo, vive ciò che scrive, incarna il proprio verbo, crede alla
parola con fanciullesca ingenuità – è questo, in lui, a spaventare, ad atterrire
chi lo incrocia, riconoscendo, nello spavaldo ragazzo, il marchio feroce del
prescelto. Il rapporto con Horace Walpole è emblematico. Chatterton inviò
all’autore del Castello di Otranto– che, nella finzione narrativa, è presentato
come un manoscritto stampato a Napoli nel XVI secolo – una silloge di testi di
Rowley. Walpole, dapprincipio, ne è entusiasta e propone una pubblicazione di
quei testi; poi, scoperto l’inganno, si nega a Chatterton, rifiutando di
restituirgli le poesie. Sembra – per sinistre preveggenze – la sorte subita dal
manoscritto dei Canti Orfici di Dino Campana, perduti, per incuranza, da Ardengo
Soffici. Sembra, cioè, che nelle retrovie di una grande opera ci sia sempre uno
smarrimento, un’irriconoscenza – foss’anche dell’autore, incapace di ‘fare i
conti’ con il proprio talento, di metterlo a profitto –, una perdita.
Per un carattere scheggiato come quello di Chatterton, la sconfitta è
irricevibile, irredimibile. Per un po’, il ragazzo tenta di conquistare il
Sindaco di Londra, William Beckford, che distrattamente lo stima; poi cerca di
concupire qualche possibile mecenate. I testi più languidi lasciano spazio alle
poesie corrosive; benché pubblichi, qua e là, sui giornali dell’epoca, il poeta,
letteralmente, fa la fame. Poco prima di morire, chiede a un amico, chirurgo, di
farlo assumere come suo assistente su un cargo che viaggia verso l’Africa –
anche in questo caso, la prossimità con le scelte di Rimbaud sfiora la vita
apocrifa.
Gli ultimi giorni della vita di Thomas Chatterton sono pura immersione
nell’amnio di una notte oscura del cuore. Nel cimitero della chiesa di St
Pancras, annebbiato dai pensieri, il poeta cade in un sepolcro vuoto, in attesa
della tomba; ne esce indenne, tra gli stornelli dell’amico che lo accompagna,
“Ho visto risorgere un genio”. La risposta di Chatterton ha il crisma della
nottola: “Da tempo, ormai, sono in combutta con le tombe”. Morì il 24 agosto del
1770, neppure diciottenne, nella scarna soffitta in cui abitava, in Brook
Street. Inghiottì arsenico, fece a pezzi i pochi quaderni che aveva con sé.
La sua morte passò praticamente inavvertita dai letterati dell’epoca; il suo
corpo fu gettato in una fosse comune, nel cimitero annesso alla parrocchia di St
Andrew a Holborn, presso la Shoe Lane Workhouse. Alcuni credono che lo zio abbia
disseppellito e recuperato il corpo di Chatterton, insediandolo nell’amata
chiesa di St Mary Redcliffe, dove un cenotafio ne fa memoria. Pochi giorni dopo
la sua morte, un certo Thomas Fry approdò a Londra con l’intento di scoprire chi
fosse l’autore – o lo scopritore – delle poesie ascritte a Thomas Rowley: voleva
fargli da mecenate.
Non si contano gli omaggi lirici e biografici destinati a Chatterton. Uno dei
più riusciti, tra i recenti, è il romanzo storico di Peter Ackroyd, Chatterton:
finalista al Booker Prize nel 1987, fu tradotto in Italia due anni dopo, nel
1989, come Il ragazzo meraviglioso (Chatterton). In copertina, come è ovvio,
spicca The Death of Chatterton, capolavoro del pittore preraffaellita Henry
Wallis. Il ragazzo, di cerea, incredula bellezza, apollinea, è sdraiato sul
letto, morto; ha i capelli rossa e al suo fianco, in un forziere, semiaperto, i
fogli con le sue poesie, a pezzi – quasi che le mani potessero imitare un rogo.
Il ragazzo ha i pantaloni blu; la finestra, spalancata sulla quinta londinese;
una pianta, umile, eroica, sul davanzale, insegna – chissà – che la morte
feconda la vita. Per il quadro, compiuto nel 1856 e che moltiplicò la fama
postuma di Chatterton, aveva posato un giovane George Meredith, l’autore
de L’egoista. Nella cerchia dei Preraffaelliti, Thomas Chatterton figurava come
uno degli eroi; Dante Gabriel Rossetti lo omaggiò con un sonetto dall’attacco
esagerato: “con la virilità di Shakespeare nel cuore selvaggio di un
ragazzo”. Fu William Wordsworth, tuttavia, molto tempo prima, a coniare per
Thomas Chatterton un’indelebile definizione: the marvellous Boy. La poesia
– Resolution and Independence, 1807 – parla di quell’“anima insonne che perì del
proprio orgoglio” e lega, in un dittico efficace, il poeta della gioia
(gladness) con quello della mania (madness), il sole e la sua eclissi, la luce e
la sua irredimibile ombra.
Da qui, è pressoché impossibile inseguire lo spettro di Chatterton nell’opera
dei più potenti poeti inglesi di ogni tempo. Coleridge scrive una Monody of the
Death of Chatterton che lo accompagna per tutta la vita: la prima versione è del
1790, nell’ultima, del 1834, il poeta della Ballata del vecchio marinaio si
rivolge al Poor Chatterton, “Il tuo destino mi riempie di dolore/ chi avrebbe
potuto amarti prima della fine?… ho gettato una corona di oscuri fiori/ sulla
tua tomba informe”. John Keats dedica Endymion “alla memoria di Thomas
Chatterton”; intorno al suo “triste destino” aveva già scritto un sonetto – To
Chatterton, appunto – di azzurra tenerezza: “La tua gemma per il gelo è
crollata./ Ma questo è il passato: ora sei tra le stelle/ nei più alti cieli,
alle sfere canti/ soavi inni, nulla ti turba/ dell’ingrato mondo, delle umane
paure”. Keats associava Chatterton “all’autunno”, lo riteneva “il più puro
scrittore in Lingua Inglese” (così a John Hamilton Reynolds, 21 settembre 1819).
In risposta, Percy Bysshe Shelley cita “la solenne agonia” di Chatterton
in Adonais, “An Elegy on the Death of John Keats”. Entrambi, introdotti alla
vita lirica dall’astro di Chatterton, morirono troppo giovani: la fatalità, al
calor bianco, pare insinuare una poetica.
La poesia ‘in memoria’ di Thomas Chatterton – sorta di amuleto per accedere
nell’empireo dei poeti – divenne un genere, una sorta di formula teurgica. Lo
praticò, tra i tanti, anche da Dylan Thomas, legato a Chatterton dal duro
lignaggio dei pionieri del verbo. O Chatterton, poesia del 1938, ha modi da musa
ubriaca: “O Chatterton e altri su in soffitta/ Congiunti in uno stesso lume a
gas/ A usare lysoformio per narcotico;/ Bevete alle tette della terra;/ Bevuta
liscia la vita/ È un veleno migliore che in bottiglia/ Nella saliva fermenta un
veleno migliore/ Di quello che uno caverebbe/ Dalle budella d’un serpente” (la
traduzione è di Ariodante Marianni). Serge Gainsbourg, invece, cantò la morte
di Chatterton nel 1967: “Chatterton suicida/ Annibale suicida/ Demostene
suicida/ Nietzsche/ in delirio/ Quanto a me/ non va poi meglio”.
Ogni letteratura ha bisogno, per trovare nuova nascita, nuova foggia
linguistica, di un capro espiatorio, di un agnello sacrificale. Il ragazzo di
belle speranze che s’incaglia nella sfortuna. Il pioniere che si perde nel
deserto, a un passo dalla terra promessa, appena intuita – la cui novità risiede
nell’annuncio, spericolato, incomprensibile. Thomas Chatterton è stato
l’agnus della poesia inglese moderna. È stato sconfitto, è vero – ma questa
sconfitta, ora, ci sovrasta.
*Si pubblica, in parte, l’introduzione al volume: Thomas Chatterton, “Nell’aura
del fulmine. Poesie scelte”, Feltrinelli, 2025, a cura di Davide Brullo
In copertina: Nicola Samorì, Arco della sete, 2020
L'articolo “Turbati, come dinanzi a qualcosa di straordinario”. Storia & versi
di Thomas Chatterton, il poeta maledetto proviene da Pangea.