Ci fu un tempo – non troppo lontano, eppure, pleistocenico all’oggi – in cui il
poeta era la creatura critica. Si poneva come punto di contraddizione, come
scandalo – era l’immorale e l’immolato. Tale era il significato, ai suoi occhi,
della parola politica: imporsi dal lato dell’assoluta debolezza. Irrompere a
difesa. Irritare con la corona di spine delle cause perse.
Di Nicolas Born, in Italia, non c’è quasi nulla. Grazie a Giovanni Nadiani e
alle edizioni Mobydick di Faenza, uscì, nel 2012, una selezione di
testi, Nessuno per sé, tutti per nessuno; Gio Batta Bucciol, nel 2019, ha
dedicato al poeta tedesco un servizio su “Poesia” (n. 347, “Tra bagliori e
abbagli”). Eppure, a dire di chi sa, Nicolas Born è stato tra i più importanti
poeti di Germania negli anni Sessanta e Settanta. Tra l’altro, uno dei più
venduti e dei più presenti nel cosiddetto ‘dibattito pubblico’. Das Auge des
Entdeckers, la raccolta edita nel 1972, fu un cambio di passo nella poesia del
tempo: Nicolas Born – che in verità si chiamava Klaus, era nato a Duisburg
l’ultimo giorno del 1937, il padre, poliziotto, aveva combattuto sul fronte
russo, a Stalingrado – si ribellava ai messia delle folle che annientano la
singolarità dell’individuo; odiava gli ideologi del progresso, “il mondo della
macchina”; quando lo invitavano in tivù si scagliava contro “il folle sistema
della nostra realtà”. In prima battuta, il libro vendette ottomila copie;
quell’anno, Born conobbe Peter Handke. “Qui fa freddo ed è meraviglioso perché
nulla può nascondersi. I fiammiferi ardono sul ghiaccio: vorrei comprarmi dei
pattini e noi dovremmo parlare, parlare, lontano dal chiasso letterario”, gli
scrisse, tra l’altro, a ridosso del suo compleanno.
A Martin Grzimek – scrittore ancora oggi sugli scudi – il poeta dettagliò in
qualche modo la sua ferrea poetica:
> “Non dirla rassegnazione, scetticismo, piuttosto – se non è anche questo un
> inganno. La letteratura in cui credo è quella dell’insicurezza universale, la
> veglia sulla catastrofe. La letteratura deve scuotere questo clima di false
> certezze, la fiducia in se stessi di chi governa sulla crisi di milioni. Alla
> scrittura questo è legittimo, allo scrittore non si può chiedere di più:
> anch’egli va ascritto tra i patetici, tra i miserabili”.
Era il marzo del 1978 – sarebbe morto poco dopo, nel dicembre del 1979, Nicolas
Born, di un tumore ai polmoni, fulminante. Aveva da poco pubblicato l’ultimo
libro, un romanzo, Die Fälschung: il protagonista è un giornalista inviato in
Libano a raccontare una ‘realtà’ di cui non riconosce più i contorni. È una
sorta di epica dell’atrofia della scrittura, genia di fraintesi. Il libro fu
tradotto in un film, L’inganno (1981), con Bruno Ganz nel ruolo centrale.
La stessa violenta lotta contro il reale, contro l’insensatezza, a stordire
l’assurdo, permea i versi di Born. Autodidatta, cominciò a lavorare in una
tipografia, scriveva nei ritagli di tempo. Fu Ernst Meister, il poeta dalla
scrittura enigmatica, a riconoscere per primo in Nicolas Born le stimmate del
talento. Così, Born, nel 1963, riuscì a partecipare agli importanti
“Literarisches Colloquium” a Berlino: diventò amico di Günter Grass e di Uwe
Johnson, lo scrittore de I giorni e gli anni. Si diede, con un certo successo,
al romanzo: Die erdabgewandte Seite der Geschichte fu tradotto in diverse
lingue. Una borsa di studio, nel 1970, gli consentì di perfezionare le proprie
ricerche all’Università dell’Iowa: conobbe, tra i tanti, Charles Bukowski e
Allen Ginsberg. Preferiva un linguaggio ‘oggettivo’, finché l’oggetto, tuttavia,
finisce per liquefarsi tra le sue mani: in quel liquame di immagini, di tumide
asserzioni, il lettore si aggira a piedi nudi, il lettore deve bagnarsi.
Riuscì a comprarsi una casa nel Wendland, in Bassa Sassonia, tra i boschi:
scrisse per bambini, scrisse per la radio, diventò un autore imprescindibile,
così si diceva un tempo. Un segno lo marchiò come il forcipe dell’angelo: il 3
settembre del 1976 la casa nel bosco va a fuoco, inceneriti la biblioteca e i
manoscritti di Born. Al poeta Jürgen Theobaldy, poco dopo, scrisse “Vorrei
prendere le distanze da così tante cose – è ingiusto che si debbano ‘conoscere’
– che tutto allora divenga linguaggio”.
Venticinque anni dopo la sua morte, Katharina Born, la figlia più piccola, ha
ripubblicato i suoi versi, con diversi inediti. È stata una sorta di rinascita,
culminata con un paio di premi postumi e il riconoscimento dell’alto, grigio
magistero di Born. Katharina era nata nel 1973, dalla seconda moglie di Born: il
poeta aveva tre figlie.
In una poesia epigrafica, Michael Krüger – la cui opera, in Italia, giace tra
Einaudi, La Nave di Teseo, Mondadori e Donzelli – ricorda la sua amicizia con
Nicolas Born:
> “Parlavamo di
> ciò che non era
> di ciò che non sarà.
> Ah, la triste ricchezza
> dei suoi canti, grida così acute.
> C’erano ragni anche allora:
> ora tessono una tela
> in cui sto soffocando”.
Che immagine ambigua e robusta. A volte, l’amicizia è una ragnatela: si scopre
di essere sotto veleno dopo tanto tempo, quando il ragno è ormai assente. A
volte, è il poeta a tessere una tela per intrappolarsi, ragno a se stesso.
***
Dentro il poema
Non puoi vivere
sfidando la realtà
della realtà non si vive
ma puoi sopravvivere all’assedio
e riprenderti tutto
e attraversare la vita
tramite rapida virtù di immagini
tu eri questo
tu eri vita che pullula
popolo che ansima sotto le lapidi
con sospiro continentale
da te agli antenati
mutilata intromissione
terra e acqua restano
il cielo resta
tu resisti
tu, l’impreparato a tutto
piccoli soli imperlano la tua democrazia e
l’eletto alla vita e alla morte
tu e le tue molte belle voci
tu la moltitudine
tu la pelle la pelle e in fondo
nient’altro che la pelle
tu il pioniere della vita
l’impresario delle bianche apparizioni
tu sei un essere spaziale che fluttua
tu l’autore dei flussi della storia
puoi stampare il tempo come un libro
tu pesi setacci ami mentre macerie di dittafoni
rombano nel vento
l’irragionevolezza è alla sua gemma
tu sei il fiore dell’irragionevolezza
tu sei giorno e notte ogni giorno e notte
tu sei l’omicida
apolide nel suo stesso sangue
sei il padre e il figlio
sei l’indiano a processo
sei i colori e le razze
sei la vedova e l’orfano
sei la rivolta dei prigionieri
sei l’ululato increscioso
coltelli spiritati e colpi sparati
sei il magnifico corridore della maratona del sogno
acquazzone di segni nella capitale democratica
sei il devastatore di tutte le catene
sei la formula magica delle segrete delle luce
l’insegna
l’avanguardia dei refettori
sei l’umano e
l’animale che odora di morte
sei solo e sei tutto
sei la tua morte e il grande desiderio
sei il progetto che infuria e
sei la tua morte
*
Per Pasolini
In sogno, Pasolini mi si avvicina
nel ruolo del protagonista.
Splende, lampeggia blu come una macchina
un attore in tutto –
Pasolini salta tra vaste pozzanghere, può essere
basso, laido, oscuro, asociale
ma è Pasolini ed è sempre altro a se stesso.
Poi si ferma sulla soglia delle palazzine
saluta dalle impalcature.
Indica una piramide di vecchie auto:
L’intero borgo
è il suo amante
e con la macchina da presa scopre paesi
che non può più vedere attraverso gli occhiali scuri.
Le mia immagini mugolano dice
dovrei fare film muti;
non sento una parola da anni.
Si strofina su di me e questo
mi piace.
Poi cade in una buca del cantiere.
Un auto arde.
Pioggia rimbalza sul mare.
Nel cinema, l’acquazzone è bianco – ancora.
olas
*
L’apparizione di un uomo nella folla
Benedetto essere soli
nel gulag dei pensieri, senza testimoni
senza l’occhio del pioniere che scorge il primato
senza l’orecchio disciplinato della folla.
Che valore ha un fatto che non si può spartire?
Che cos’è l’universo senza il tuo tremare
il tuo tremore sul palco davanti a file di sedie vuote?
La folla marcia sulla terra
e nessuno muore nella folla
sul dorso di ragnatele ronzanti
finché non accade la grande contraddizione:
l’apparizione di un uomo nella folla
*
Martedì, orrore
I dormienti
binari del tram, pavimentati
di asfalto, aspettano i vecchi tempi
come il ritorno della scrittura a mano
Inattesa pioggia, è pomeriggio
un po’ di luce fa nido sui volti
vergati in grigio, nei campi
tenebrosi canali, alberi pigmei
Colletti bagnati, bagnate le labbra
un vecchio guidato da una bimba con le trecce bagnate
Silos di cemento sopra binari morti
stormi di uccelli come stendardi
una commessa saluta dal vetro
I sobborghi si infiammano verso le sei
e io penso alla scoperta dell’“isola della mente”
Una gru, promontori di crudo cemento
guardo un mondo che ascende
che sa cosa significhi sopravvivere
*
La ballerina
Piuttosto piccola sullo schermo
signore e signori –
la ballerina
balla meravigliosamente anche per noi profani
favolose fiabe
di morte e di mutamento
a teatro
So che qualcuno dice
chi è quella?
dovrebbe ballare
dovrebbe muovere le gambe
con coerenza
in modo da non essere soltanto bella
ma disciplinata
con la sapienza sulla spalle
una danzatrice e un’artista
ben recinta nel suo ruolo
I miei amici hanno ragione
quanto conforta
esprimere il proprio talento
con totale dedizione
guardate la ballerina
osservate quei meditabondi gesti
la risonanza malinconica
in minore
la posa divina
guardate la ballerina sullo schermo
che interpreta il mondo
meglio del notiziario
*
Desideri
I fatti non sono che torbide torture.
Non sarebbe bello avere tre desideri
soltanto, ma che si avverino tutti?
Vorrei una vita senza pause
mentre i muri vengono presi a fucilati
rispetto a una vita percorsa in rapina
dai tesorieri.
Vorrei scrivere lettere in cui
esisto in parte.
Vorrei un libro in cui tutti abbiano accesso
e da cui possa uscire senza troppi drammi.
Non vorrei mai dimenticarmi che è più bello
amarti che essere amato.
Nicolas Born
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