Entrare nella vita di Rilke, cioè: scotennare l’angelo.
C’è qualcosa di sigillato nella vita di Rilke, una vita-tabernacolo. All’uomo
‘di mondo’, capace nella persuasione, circonfuso di nobildonne, retto
nell’ambizione, fa spazio il Rilke delle feroci solitudini, dell’austerità
artica, artigiano di un io irto di pinnacoli, di picchi, di stalattiti. La
natura della volpe e quella dell’aquila. Per certi versi, l’oceano epistolare di
Rilke – specie di bulimia grafica – non aggiunge alcun dettaglio alla vita del
poeta: cancella. A volte la scrittura opera – anche quando è ispirata – per
sparizione. Le lettere – lettere-Muzot, lettere-fortezza – servono a Rilke per
celarsi, per calarsi nell’assalto del sé – per incendiarsi.
Qual è, ad ogni buon conto, l’evento autenticamente capitale nella vita di
Rilke, un poeta che capitalizzava la propria esistenza in versi di distillata
sapienza (versi, diremmo, con gli artigli)? Secondo Franco Rella – il più acuto
interprete di Rilke – l’episodio che “ha cambiato per sempre la vita di Rilke” è
stato, nel 1907, l’incontro con la poesia di Cézanne. Quella fu la vera
“svolta”: come Cézanne è stato “un redentore dalla non-realtà, il nulla in cui
sembra siano destinate a finire le cose”, ora “Rilke stesso vuole essere un
redentore, ein Rettendes scrive” (in: R. M. Rilke, Noi siamo le api
dell’invisibile. Lettere da Muzot, De Piante, 2022, p.115). Poesia che redime,
che riscatta da schiavitù di deterioramento e di morte; poesia che sana il
lebbroso che siamo, con i crismi di san Giuliano Ospitaliere. Il compito che
Rilke si prefigge tramite la poesia, come scrive a Caroline Schenk von
Stauffenberg, è quello di “rendere la morte, che mai è stata un’estranea,
nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita complice di ogni
cosa viva”.
Chissà poi se è stato il fatale viaggio in Russia – dove ha conosciuto Lev
Tolstoj e la famiglia Pasternak – o quello in Spagna – dove ha scoperto l’opera
folgorante di El Greco – se è stato l’Egitto, arcano e terribile (visitato tra
il 1910 e il 1911), a ‘segnare’ il poeta; oppure, libero da elementi
‘culturali’, è stato il corpo di Lou, la nascita di Ruth, la vista degli Hôtel
Dieu, a Parigi, ricoveri di resti d’uomo, ospizio dei perduti dove le creature
“vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro
pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto
insensatamente rotto…”. I luoghi rilkiani – Duino, ad esempio – sono
insensatamente vuoti senza la presenza del poeta, che li ha eletti nell’ambone
suo carisma.
Secondo Leone Traverso, Rilke è tra i rarissimi poeti – insieme a Hölderlin,
Leopardi e Emily Dickinson – a “scavare da tanto silenzio improvvisa la loro
voce”. Sono poeti in grado di “un linguaggio inventato, del tutto intimo,
sciolto da ogni vincolo di costume prettamente umano, per riallacciare il filo
interrotto con le forze segrete del mondo”. Così attacca una delle Ultime
poesie (Fussi, 1946):
> “Come il vento serale alle falci sugli omeri dei mietitori,
> va l’angelo mite sul filo innocente dei dolori”.
Ancora l’angelo, mite e tremendo a un tempo – come Rilke.
Più che altro, più investighiamo la vita di Rilke più è lui a invaderci. Potenza
radicale del poeta-redentore. Così, nelle pagine finali, le più intime,
rivolte Al lettore, Marilena Garis, autrice del potente libro biografico Rainer
Maria Rilke. Luce sull’invisibile (Edizioni Ares, 2025), rivela di essere
ritornata a Rilke, alle Elegie duinesi in particolare, “nel giorno delle esequie
di mia madre”. Nel momento dell’abisso assoluto, il poeta, che non lenisce il
dolore, ma lo trasforma, lo approfondisce fino al fiore. Il poeta è sempre lì:
dove una cosa muore e per eccesso di amore un’altra nasce.
Che senso ha una biografia rilkiana? Intendo dire: fino a che punto la vita di
Rilke – che ci appare tanto elusiva, remota, segreta, così poco ‘mondana’ –
penetra nell’opera?
Nessuna vita penetra nell’opera quanto quella di Rilke giacché la sua vita è
poesia. Rilke si è assunto il compito di farsi “puro e cieco strumento”, pura
eco interiore. La poesia lo ha attraversato, superato, trasceso. Ne ha
travalicato la vita. Nessun’altro poeta, meglio di lui, ha cercato di capire,
spiegare, e portare a compimento l’opera della creazione. E dal giorno in cui
comprese che solo la solitudine poteva avvicinarlo intimamente a quella
creazione, la scelse e l’abbracciò senza più voltarsi indietro, perseguendo la
ricerca di un equilibrio spirituale che fu in ultimo conquistato a caro,
carissimo prezzo (e non solo per sé)…
Nel mio libro sono partita da una pagina del Malte, la più celebre opera in
prosa di Rilke, dove il poeta insiste sul fatto che i versi non nascono dai
sentimenti, ma dalle esperienze. Per un solo verso, scrive, si devono vedere
molte città, uomini e cose. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore,
nessuna uguale all’altra. Bisogna aver udito le grida delle partorienti, essere
stati presso i moribondi, aver vegliato i morti nelle camere ardenti… E anche
avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare e avere la grande pazienza
di aspettare che ritornino. Solo quando i ricordi divengono in noi sangue,
sguardo e gesto, solo allora può darsi che in una rarissima ora ne esca la prima
parola di un verso. L’arte diventa così potente perché nasce dalla vita e
dall’esperienza reale: rintracciare nelle parole di un grande poeta le tracce
del suo destino mi pare essere la chiave di lettura più autentica, l’unica che
possa dare vero accesso alla sua arte, che è appunto “sangue, sguardo,
gesto”. Percorrere i passi di Rilke significa entrare in quell’interminato
pellegrinaggio che fu la sua esistenza. Dalla difficile infanzia con le sue
scuole militari, all’incontro con Lou Andreas-Salomé, musa e guida
intellettuale, al suo brevissimo matrimonio con la scultrice Clara Westhoff,
allieva di Rodin, e all’amore “da lontano” per la sua unica figlia, Ruth, fino
al rifugio creativo nel castello di Duino e nella torre di Muzot, sulle Alpi
svizzere, tutto diventa poesia nel suo sguardo.
Camminando dentro le parole, tra il visibile e l’invisibile, Rilke ci ha
lanciato delle sfide: il suo Weltinnenraum, il suo “spazio interiore di mondo” è
una “sottile striscia di terra tra fiume e roccia”, uno spazio sottilissimo,
eppure infinito. Per addentrarsi in quello spazio interiore, bisogna mettersi in
ascolto, cercare di penetrare il suo segreto, sapendo che è appeso al mistero,
allo stesso filo della fede, potremmo dire.
Qual è l’aspetto della biografia di Rilke che ti ha ‘spiazzato’, quello davvero
inatteso?
Vi sono molte pagine della sua vita che mi hanno “spiazzato”. Molte le
corrispondenze baudelairiane che mi hanno attraversato. Ma, sopra a tutto, oggi
mi preme parlare della sua attitudine ad inchinarsi davanti all’intimità e ai
segreti di ogni essere umano. Edmond Jaloux, amico di Rilke e specialista della
sua opera, ci ha trasmesso una lettera che un giorno ricevette da una donna
sconosciuta, e che oggi voglio consegnare per estratti ai lettori:
> “…Stavamo camminando lungo i cancelli del Lussemburgo… Rilke si era avvicinato
> a me, quel giorno, tenendo in mano una splendida rosa… Su quei cancelli,
> trovavamo, quasi ogni giorno, una vecchia donna seduta, che mendicava con
> discrezione. Non chiedeva nulla e i suoi occhi non si alzavano mai sui
> passanti. Ogni volta le lasciavamo una piccola elemosina… Non avevamo mai
> visto i suoi occhi, né udito il suo ringraziamento… Quel giorno… non aveva
> ancora ricevuto niente. Vidi Rilke inchinarsi davanti a lei, con rispetto, non
> un rispetto formale, ma un rispetto alla Rilke, un rispetto totale, di tutta
> l’anima. Inchinandosi, posò la bella rosa sulle ginocchia della vecchia
> mendica. Ella allora alzò i suoi occhi su di lui, lo guardò e con un gesto
> rapido e perfetto, gli prese la mano, la baciò e se ne andò via a piccoli
> passi – senza più mendicare per quel giorno”.
E vorrei aggiungere: felice della sua grande, insolita, ricchezza.
Credo che questa testimonianza del periodo parigino di Rilke possa illuminarci
su quello che fu il suo sguardo sul mondo e sul profondo rispetto che sempre
portò al prossimo, agli ultimi e alle loro sofferenze. Una particolare
delicatezza nell’ascoltare e nel confortare gli altri, che raggiunge i vertici
nell’epistolario, un’oceanica opera d’arte: il monumentale archivio della Rilke
Gesellschaft conta, ad oggi, circa 13mila lettere. Epistolografo d’eccezione,
nelle lettere il poeta non esita a donarsi completamente e ad abbracciare intime
questioni con acuta chiaroveggenza. Risponde instancabilmente, e con vera
partecipazione, a quanti gli si rivolgono. Non li conosce neppure, eppure si
prodiga per quegli sconosciuti senza risparmiarsi. E lo fa con profonda umanità,
che affascina e consola.
Nel complesso, come possiamo descrivere il ‘carattere’ di Rilke?
Silenzioso, mite, solitario, mistico; quando occorreva, determinato, volitivo,
mondano. Chi lo conobbe non esitò a definirlo un personaggio magico.
> “Nessuno lo sentiva arrivare”, racconta Stefan Zweig, “sedeva in silenzio e in
> ascolto, alzando involontariamente le sopracciglia appena qualcosa sembrava
> interessarlo. Discuteva con la semplice naturalezza con cui una mamma racconta
> una fiaba al suo bambino, con la stessa affettuosa tenerezza”.
Nella conversazione, non gli interessava soffermarsi sui luoghi comuni della
vita quotidiana, entrava subito nei dettagli delle cose più alte, dove i suoi
occhi vedevano tracce e presagi dell’invisibile. Sono tuttavia pochi quelli che
hanno davvero conosciuto la sua vita, il suo mondo interiore, la sua più
recondita officina. Era come avvolto da un ferreo riserbo, circonfuso di un’aura
mistica. Su quell’aura si è soffermato a più riprese Edmond Jaloux, arrivando a
definirlo visionario e medianico.
Temo che Rilke sfugga a chiunque voglia afferrarlo: la sua poesia è “luce
sull’invisibile”, come ho inteso sottotitolare il libro; un “tramite” tra mondi
e regni: visibile e invisibile, vita e morte. Rilke si è spinto nel cuore della
parola per divenire pura eco interiore, per arrivare alla voce dell’angelo, al
regno delle ombre, alla grande unità, alla risonanza del silenzio. Ce l’ha
spiegato bene Marina Cvetaeva quando lo ha definito “una topografia dell’anima”
e ha aggiunto “Rilke è necessario al nostro tempo come un prete sul campo di
battaglia”, una necessità quantomai attuale…
Anomalie: il ‘recluso dell’arte’, in verità, era circondato da amici, mecenati,
nobildonne, svariate amanti… Come conciliare questo paradosso?
Forse non è un paradosso. O meglio: vi sono molte questioni aperte su Rilke. Con
lui bisogna accettare di abitare il mistero e amare le domande “simili a stanze
chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera”. Rilke seminava
attorno a sé verità rivelate, talvolta difficilmente decifrabili. Uomini e donne
erano attratti dai suoi modi e dalle sue parole, da quella sua speciale empatia.
Ciò che lo rendeva affascinante era senza dubbio quel singolare incontro tra
terreno e angelico, la sua capacità di vedere oltre la superfice delle cose.
Claire Goll scrive che era impossibile resistergli e in effetti il corteo di
donne che lo accompagnò in vita e non l’abbandonò neppure dopo la morte
(attraverso monografie e libri di ricordi) è vasto: Lou Salomé, la moglie Clara
Westhoff, la principessa Marie von Thurn und Taxis, Magda von Hattingberg, Lou
Albert-Lasard, Baladine Klossowska, Nanny Wunderly-Volkart, Marina Cvetaeva,
Nimet Eloui-Bey…Ogni donna era invero una stella nella “costellazione” della sua
anima e della sua poesia, come cerco di spiegare nel libro, percorrendo i grandi
incontri della sua vita.
Qual è la figura ‘chiave’ che ha agito più di altre nella vita di Rilke?
Lou Salomé fu la persona che più di ogni altra segnò il cammino esistenziale e
artistico di Rilke. Fu per lui un grande amore, e non solo: la grande amica,
amante, musa, confidente, maestra. Di certo, Lou fu (anche) una figura materna
per Rilke, permise la sua vera rinascita, la rottura rispetto all’ambiente
provinciale praghese, ai sentimentalismi e alla devozione esasperata di sua
madre Phia. Dopo l’incontro con Lou, la sua nuova vita fu segnata dal
cambiamento del nome di nascita René nel più sobrio e virile Rainer, che reca
un’impronta germanica e richiama la purezza (Reinheit). Lou gli offrì materiali
filosofici ed estetici, lo iniziò alla lettura di Nietzsche (che rimarrà sempre
un riferimento ineliminabile nel pensiero rilkiano), lo mise al passo con
l’intellighenzia europea. Fondamentali i due viaggi che Rilke fece con Lou in
Russia. Qui ebbe inizio la sua vera opera, la sua ricerca di assoluto e
spiritualità, di cui alle Storie del buon Dio e al Libro d’ore e oltre, fino
alle Elegie
Duinesi. Il loro legame durò per tutta la vita, come testimonia il
loro Epistolario 1897-1926, uno scambio durato quasi trent’anni, di circa
duecento lettere, dal primo incontro del 12 maggio 1897 all’ultima lettera del
13 dicembre 1926, anno della morte di Rilke, e ancora oltre, se si considerano
le memorie di Lou e il libro Rainer Maria Rilke. Un incontro, che lei gli dedicò
dopo la sua morte. La loro corrispondenza avvicina in modo profondo alla vita e
all’opera di Rilke e consente di accedere all’intimità più autentica del suo
destino esistenziale e poetico: Rilke vi esprime le sue incertezze, le sue
difficoltà; Lou, che aveva intrapreso lo studio della psicanalisi con Sigmund
Freud, riesce ogni volta a “curare” le sue ferite, riportando le misteriose vie
dell’arte nel percorso della vita.
Come è possibile amare nell’abbandono, senza ‘consumare’ l’amore?
Nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke scrive che “Amare è: illuminare con
olio inesauribile. Divenire amati è passare. Amare è durare.” Si tratta di una
nota in margine al manoscritto, che si conclude con la celebre parabola del
figliol prodigo. Qui, Rilke ribalta completamente la parabola evangelica per
affrontare il tema del “grande compito dell’amore”, un amore che nulla chiede in
cambio e si espande all’infinito; un amore slegato dalle maglie del possesso e
inteso come direzione, come forma di libertà.
Nella concezione rilkiana dell’amore senza possesso (besitzlose Liebe, anche
identificato come “amore intransitivo” dalla critica), questa è l’unica forma
d’amore che non “consuma” il suo oggetto. Si tratta dell’amore cantato dai
trovatori medievali “che nulla temevano più dell’essere esauditi” e soprattutto
delle celebri “amanti colme di forza”, a più riprese evocate nel Malte. Per
qualche tempo Rilke accarezzò l’idea – poi accantonata anche se continuamente
ripresa nell’opera e nell’epistolario – di scrivere un libro sui profili
biografici delle grandi amanti capaci di quell’amore assoluto: Saffo, Eloisa,
Gaspara Stampa, Louise Labé, Bettina von Arnim, Eleonora Duse, Mariana
Alcoforado e altre figure di donne che, nella solitudine, compirono la suprema
metamorfosi, elevandosi da un amore ristretto (ad un determinato oggetto) verso
la pura contemplazione dell’amore. Poco tempo prima di morire, Rilke confidò a
Edmond Jaloux di aver scritto il Malte “per delucidare il proprio pensiero e
vedere limpido dentro se stesso”. Il Malte è un punto limite nella sua vicenda
creativa (dopo la sua conclusione, nel 1910, comincia infatti un lungo tempus
tacendi che durerà oltre un decennio), e la sua estrema voce è quella del
figliol prodigo, colui che si prefisse di “non amare mai, per non porre nessuno
nella situazione terribile di essere amato”.
La questione è complessa e va trattata con molta cautela, distinguendo i piani
Malte/Rilke. Bisogna ricordare che iQuaderni nascono quando la prima –
fondamentale – esperienza parigina si è da poco conclusa: nell’immensa
solitudine di una città allucinata, il poeta sperimenta la miseria, l’angoscia e
il male di vivere. Dopo la rottura con Lou Salomé, Rilke si è sposato con la
scultrice Clara Westhoff, è diventato padre di una bambina, Ruth; si è
trasferito a Parigi per lavorare alla monografia di Auguste Rodin. Nel frattempo
ha completato l’ultima parte del Libro d’ore e del Libro delle immagini,
le Nuove Poesie e il Malte. Una mole impotente di lavoro. Ma a Parigi tramonta
definitivamente il tentativo di una vita familiare e si profila un lungo cammino
di stenti fondato sull’arte, una dolorosa contraddizione che lo strappava dalla
sua famiglia e dalla sua casa, dove non riusciva a stare, e lo straziava, lo
costringeva alla solitudine.
Perché l’idea di essere amato provoca in lui angoscia? Forse è un problema che
affonda le sue radici nell’infanzia, nel complesso rapporto con la madre. Forse
nel trauma della scuola militare scelta dal padre. Rilke è persona generosa, sa
donare se stesso, tutti quelli che lo hanno conosciuto lo confermano. E se non
bastasse, sarebbe sufficiente rivolgersi all’epistolario, alle sue lettere
prodighe di attenzioni, consigli e consolazione per il prossimo. Lettere
infinite… Ma non riesce ad abbandonarsi, ad essere amato; nel ritmo di donare e
ricevere non riesce a mettere radici, nemmeno con sua figlia. Forse questo è il
destino di chi sente il fardello – e l’ebbrezza – di una missione per tutta la
vita. Nel suo caso, una missione da poeta, quale puro e cieco strumento di un
verbo assoluto; ma anche come uomo che, prima del verso, deve farsi sangue,
sguardo, gesto. Come ho voluto ricordare nell’episodio della rosa alla mendica,
la poesia nasce quando il gesto si è consumato, mentre la vita scorre, nel ritmo
alternato del movimento e della permanenza. In questo, Rilke ha avuto per tutta
la vita una necessità soprannaturale di ‘affrettarsi’ al capitolo successivo
della sua trasformazione-metamorfosi (concetto chiave nell’opera), senza potersi
fermare, né “adagiare” mai, su ciò che era già stato fatto, detto, consumato.
Rilke sa scrivere come pochi altri verità fondamentali sugli uomini e sulla
vita, ma non riesce a vivere e amare nel reale. L’amore quotidiano, quello della
“vita dei giorni”, e a maggior ragione quello in seno a una famiglia, richiede
una costante permanenza, un eterno indugiare sui capitoli da scrivere, leggere,
rileggere e correggere infinitamente, con abnegazione e resilienza nella
ripetizione dell’amore e dell’attenzione per l’altro, e questo è difficile, se
non impossibile, per chi, come Rilke, abbraccia una vita fondata sul movimento
perenne dell’essere. In tutta la sua complessità, la questione rimane aperta e
il lettore potrà attraversarla in vari punti del mio libro, sia sotto il profilo
esegetico dell’opera, sia sotto quello biografico.
Cosa significa, in fondo, un libro all’apparenza così sigillato come “Elegie
duinesi”?
Il mio incontro con le Elegie duinesi è stata una rivelazione sulla via di
Damasco. Lo spiego al lettore nelle ultime pagine del mio libro. Le Elegie sono
un compendio-talismano da tenere a portata di mano. Da leggere, rileggere,
meditare nelle varie stagioni della vita. Esse stanno in rapporto alla vita e
alla morte come il Talmud sta al rapporto tra l’uomo e la parola di Dio. Sono
uno strumento che ha bisogno dell’uomo tanto quanto l’uomo ha bisogno dello
strumento: richiedono un paziente lavoro di lettura e interiorizzazione per
restituire i loro doni, come ho cercato di spiegare nel capitolo dedicato a
questo capolavoro, che per Rilke fu un vero e proprio “uragano nello spirito”.
Ritaglia un mazzo di versi rilkiani che hanno inciso nella tua vita – e perché?
Devo nuovamente tornare sul mistero e alle ultime pagine del mio libro, per
ritagliare due frammenti della Prima e della Decima Elegia. Vorrei che questi
versi arrivassero nelle mani di quanti si trovano ad affrontare una dolorosa
perdita, con l’auspicio che possano scendere come un balsamo nei loro cuori,
come è successo a me.
Certo è strano non abitare più sulla terra,
non più seguir costumi appena appresi,
alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non dar significanza di futuro umano;
quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo, come un balocco rotto.
Strano non desiderare quel che desideravi. Strano
quel che era collegato da rapporto
vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser morti;
quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco
un po’ d’eternità. […]
Ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di sì grandi misteri – quante volte da lutto
sboccia un progresso beato – potremmo mai essere,
noi, senza i morti? […]
Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un
simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei noccioli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi, che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante,
di quando cosa ch’è felice, cade.
Tra tutti gli aggettivi che poteva usare per osservare la morte, Rilke sceglie i
più semplici: strano e faticoso. Strano, scrive, non abitare più sulla terra,
strano abbandonare il proprio nome come un balocco rotto… Ed è faticoso essere
morti “quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità.”
La morte guarda all’interno e fuori di sé, verso chi muore e chi ancora vive:
“potremmo mai essere, noi, senza i morti”? In questa domanda vi è un chiaro
invito ad accogliere – nell’ascolto del silenzio – la voce di chi è scomparso:
dal lutto può nascere un “progresso beato”, ovvero una nuova consapevolezza del
rapporto tra la vita e la morte: l’essenza delle Elegie Duinesi.
Gli ultimi versi – e con essi l’opera intera – sono raccolti intorno
all’immagine di una caduta, che non segna tuttavia una morte, una fine, quanto
una metamorfosi, un rinnovamento, secondo il moto discendente dei frutti maturi
e della pioggia che cade su terra scura a primavera. In questa celebrazione
della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, la felicità non è
dunque elevazione, non è ricerca di una trascendenza irraggiungibile, ma caduta,
inchino verso la terra, umile adesione al ciclo della natura, eterna
trasformazione.
Sulla caduta e sulla metamorfosi rilkiana, e sul perno della grande ricchezza
della povertà e della morte, ci vorrebbe un convegno a più moduli, esegetici e
biografici, per poterne parlare degnamente.
Cosa ci resta ancora da scoprire della moltitudine Rilke?
Ancora molto. È notizia del dicembre 2022 che l’archivio letterario di Marbach
in Germania ha acquisito l’archivio familiare Rilke di Gernsbach, finora in
possesso degli eredi di Rilke. Si tratta di una collezione monumentale di
manoscritti, lettere, libri, riviste, disegni e fotografie. La nuova collezione
contiene circa 10mila pagine di bozze e appunti. Comprende anche circa 2.500
lettere scritte da Rilke e circa altre 6.300 lettere scritte a lui. Tra i
corrispondenti figurano vari nomi noti nella biografia rilkiana e anche la
moglie Clara Westhoff e la figlia Ruth. Sandra Richter, direttrice dell’archivio
letterario di Marbach, ha sottolineato che i documenti acquisiti sono un
«patrimonio travolgente»: l’immagine che abbiamo di Rilke potrebbero
cambiare. L’elaborazione della nuova montagna di documentazione richiederà
tempo, ma di certo sarà foriera di nuove gemme e scoperte… A quasi cent’anni
dalla morte, Rilke continua a parlarci.
L'articolo “L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke proviene da
Pangea.