Gentilissima Maria Borio,
mirabile è la sua poesia, ogni parola è un oltre. Distanza che avvicina, sapendo
che è impossibile afferrarla. Quindi sono andato con questo animo alla casa
editrice che ha pubblicato Prisma (Zacinto Edizioni, 2022), per acquistare il
libro, nonostante nessuno si muova più in questo modo, e per tali ragioni.
Attualmente non c’è bisogno, tutto è a portata di mano, tutto ti arriva a casa,
anche se lontano da noi. I palazzi, le persone, si torna a distruggerli, ma qui
si può dire che siamo nella comodità, nel digitale, nel servizio, dunque io che
ci faccio in giro per Milano?, animato da buone intenzioni, sfidando pioggia,
umidità della giornata, il quartiere che non conosco, il campanello dell’editore
non funzionante, chissà poi per quale motivo. Ma non importa, mentre mi lamento
del così poco, del gratuito che mi arriva, chiedendomi addirittura perché non è
di più.
Invece la sua poesia lo è, e non creda che parli a seguito di emozione
superficiale, ho solo entusiasmo per ciò che è complesso, e compiuto in
anticipo. Complessità della forma e maturità di pensiero, di direzione,
finanche, e aggiungerei di senso, di racconto. Mettiamola così! Infatti ho
l’impressione che si voglia raccontare qualcosa qui, dentro questi versi,
trattandosi di una traccia che inizia e s’interrompe, non scompare, sebbene
resti fragile alle spalle, nel tempo, ma ancora profonda, se ne distingue il
segno, ripeto, a tratti inafferrabile, solo a tratti, mi viene da ribadire, ma è
per prendere tempo, io credo, prima di recuperare il fiato, stando in surplace
come i ciclisti delle gare di velodromo… Ecco, ora è visibile, è sotto i nostri
occhi, nel profilo del libro, o plaquette che si voglia chiamare. Volume sottile
ma tanto più raffinato nella sua veste, nella sua forma agile, priva di peso, o
peso di farfalla, molto piacevole da tenere in mano, per via della leggerezza e
della facilità di sfogliarlo, di possederlo. Che sia questo? Voler essere ciò
che non è possibile in vita, di rimando ad altro, paradosso della poesia, si
potrebbe dire, eppure raggiunto nella forma editoriale, perfettamente
identificato con le parole, coi versi, e, allo stesso tempo, sempre al limite di
questo, per incommensurabile parola…
> […] Fissa il blu mentre rotea
> e i salti multi-dinamici, immagina le cellule e i pixel
> come le strategie dei video giochi riproducono le paure […]
Diventare parole, parole di senso, del significato che si offre fuori, ai nostri
occhi, nell’oggetto che abbiamo davanti a noi e corrisponde alle parole
stampate, nelle parole che siamo e non siamo, nel trasceso, persino nella
domanda, di essere pienamente in quella, sfidando la tradizione, la litania, la
sequela, quell’intensa vertigine e ripetizione che si coglie, concrezioni di
senso come stalattiti-stalagmiti che si ergono nelle grotte primordiali, tese a
unire lo spazio, quasi a dirci chi siamo, che relazione siamo, per fermare il
tempo. Sorpresa della forma che, per ciò che si configura, è il linguaggio, e
deve ancora venire (se ha creato il futuro, cosa ci verrà in sorte?).
Mi fermo, sostituisco alla mia mancanza i suoi versi. Ad esempio all’inizio, il
bell’inizio, l’attacco, radicale, monologante, imprevisto per la novità della
voce, del ritmo, nel sentimento diretto, riconoscibile alla coppia
occhio-esperienza, verità-mistero, amore-conoscenza, affermarsi-non essere. Il
titolo è L’orecchio sulla mano.
Sto per parlare:
la corrente che ci tiene in vita è identica
alla cosa più semplice –
senza pensare riconosci sempre
la luce che buca il ciliegio? –
anche se non lo hai mai visto, non serve.
Stai per parlare:
per, la parola più facile, può trasformarsi
in molto divertimento –
vorresti essere giovane o indefinibile? Digita
LOL al posto di TVB
Lost of love per Ti voglio bene quando
il mondo era più piccolo
e ora in sovradimensione… ma LOL vuol dire sempre
luce che rompe le cose? […]
Ecco, il suono sta per parlare. Cosa?
Sì, un prisma di voce, e tu sei sempre giovane,
mentre il tratto della penna scioglie il sudore lentamente
in fiori liquidi – che cosa perfora la luce? […]
È squillante il tono, riverbera, s’irradia, mi viene da dire, ma è l’immagine
che si vuol veicolare (veicolare va bene?) in parola che accompagna, che fa
risaltare il modello, che è come se si potesse ancora dire l’amore, quando
questo non è più. Allora cos’è? Senz’altro non è il farceladi oggi, sentirsi
condizionati da questa febbre che ci pervade, non ci fa mai stare nelle cose,
nei sentimenti, nell’esperienza. E sfugge, sfugge!, corre avanti. Malattia del
pensiero, dei nervi, dell’agitazione nel programmarsi compulsivo, nella paura
del fallimento. L’amore continua ad essere nelle sigle del gergo digitale, la
poesia non ne sa fare a meno, non può farne a meno, è una confessione di
adesione alla realtà, al discontinuo. Eppure c’è ancora la realtà e l’amore per
essa, mi pare di capire, sta sulla superficie ed è nel profondo, come il mare. È
il paradosso del poeta! Il bello è che non è nemmeno quello che desideravamo,
nemmeno quello che ci aspettavamo. Questa la sua forma, la sua apparizione, in
sintesi, mirabile sintesi! Altrimenti come si fa a scriverne?, intendo scriverne
meglio, toccando le corde del limite, del linguaggio estremo, simile a corde
dure e spesse di un contrabasso, che vibrano fino a far male le dita quando non
le contieni.
Stupisce che alla morte non ci si pensa, almeno non molto, forse perché prima
bisogna vivere, prima viene il dato di realtà, che sembra incredibile possa
esistere ancora, visto gli assalti che ha ricevuto, e il tono visionario che
mantiene. Frutto dei tanti film che ci hanno formato, hanno plasmato il nostro
vissuto, il nostro inconscio. Ma attenzione, c’è in gioco la verità, e ci
rivela. “Dove siamo autentici?”, si dice a pagina 27, nella poesia
intitolata Nella quarta dimensione, di cui riporto l’incipit, che ha alla fine
della prima strofa una domanda fondamentale.
> Primo tipo di figura – spirale. Secondo tipo – cerchio.
> Aumentando la frequenza – rombo. Quarto tipo – parallelepipedo
> in bidimensione, tridimensione… chiudi gli occhi e sei nella quarta.
> Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso? […]
Mai libro fu più compatto nel suo genere, nella sua materia. Libro materico e di
pensiero, allora. Ne è valsa la pena comprarlo, leggerlo, penso io, soprattutto
per la identità che manifesta fra autore e forma grafica, compresi carta, corpo
della parola, immagine di copertina, e rimandi, rimandi: illustrazioni, note,
citazioni… Bisognerebbe studiare i rapporti, le analogie, fra caratteristiche
fisiche del poeta e sue poesie (di lui), oppure i luoghi frequentati dal poeta e
i suoi versi, ci dev’essere senz’altro un legame. E insisto, mi pare di trovare
un punto che adesso è chiaro. Qui è saldo. Riferendomi a quanto detto poc’anzi
sul rapporto, in particolare il territorio nativo o acquisito che influenza il
poeta, in qualche modo descrive un’appartenenza, giacché il tema di Prisma è la
relazione, gli scarti che essa impone al viverla, e dove la preferenza sembra
essere la staticità, o il tono contemplativo, nel vario mondo dinamico che ci
attraversa e ci chiede nuovi adattamenti, spesso dolorosi, nonché risposte. A
questo proposito le suggerisco (è pubblicata su internet: “Sinestesie” on line,
n.45, gennaio ‘25) l’interessante lettura che lo studioso Epifanio Ajello fa del
libro Isola di Alfonso Gatto, nella lontana edizione del 1932, comparando
ispirazione a segno tipografico della stampa. Nel suo libro, Maria Borio, si
trova una rilevanza, come le ho detto, ed è un abisso di energia verbale a cui
assistiamo, in reazione al vuoto vissuto, in contrasto originario con paure,
incoerenze, ostacoli, delusioni, limiti.
È una parola temprata la sua, ispirata, disposta a tutto pur di infiammarsi o
incrinare la superficie di ghiaccio che ancora siamo. La risposta – il profilo
intenso, drammatico – le sta accanto, è nella sua terra, nel suo cuore.
> […] Ogni carica opposta può essere letale: il vento in sé
> trascinava la montagna, un ululato dal pozzo etrusco
> prolungato e nero… […]
Vincenzo Gambardella
*In copertina: un disegno di Guido Reni (1575-1642), “Studio di putti in volo”
L'articolo “Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?” Lettera di Vincenzo
Gambardella a Maria Borio proviene da Pangea.
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Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono
ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più
famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una
proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò
pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione
critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955,
sessantanove anni dopo la sua morte.
Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la
vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie
televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto,
c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe
fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo
esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio
Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia
femminile – se non addirittura femminista.
Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che
questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore,
2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in
secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è
interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati
scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative
dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma.
Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura
creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta
irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta
contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le
poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare
dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua
produzione.
La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata
insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una
versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo
carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano,
infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e
sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando
fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”.
Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana
contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima
silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni,
Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da
Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La
poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).
Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di
Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha
affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione
fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo
limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.
Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham,
tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense
contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella
selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra
diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo
nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti?
Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia
autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta
di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata
nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio
tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e
letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono
le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of
grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla
botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e
leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva,
esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca
di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione.
Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del
ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo
“andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare
sempre la rima?
La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti
cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le
corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e
delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una
specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi.
La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di
Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle
traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo
rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e
indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni
altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in
movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina,
contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una
tangibile universalità.
Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da
rendere in italiano?
Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si
rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di
stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori”
in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…,
l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che
descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane.
Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di
essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi –
addirittura rovinati, storpiati?
Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per
questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive
soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia
come forma di intelligenza.
L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come
elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea?
C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a
tuo parere?
L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di
straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione:
un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia
rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza
che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell
it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di
senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in
schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta
proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per
interrogare.
“Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor
Crollo –”. Commenteresti questi versi?
Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il
decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo
dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se
la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta?
L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse
della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente,
Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a
un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si
verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con
l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a
interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non
è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile
dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece
possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”,
ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato
tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al
vaglio di un’interrogazione.
Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per
interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa
visione?
Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e
decreazione continua di rapporti.
Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al
volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione
nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della
propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato
maggiormente questi aspetti?
Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è
anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono
filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo
modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”,
cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza
umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva
metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche
complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e
metafisica, Montale è vicino a Dickinson.
Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo.
“Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali
sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily
Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla
realtà?
Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si
tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a
quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con
caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi
nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione
del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse
potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio
dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso.
Anna Taravella
**
657
Io abito nella Possibilità –
Una Casa più bella della Prosa –
Più abbondante di Finestre –
Più ricca di Porte –
Di Camere come Cedri –
Inespugnabili dall’Occhio –
E come Tetto Eterno
Le volte del Cielo –
Di Visitatori – i più belli –
Per il Lavorìo – Questo –
Dispiegare ampio delle mie strette Mani
A raccogliere il Paradiso –
*
1129
Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua –
Il successo sta in un Circuito
Troppo brillante per la nostra debole Delizia
La sorpresa stupenda della Verità
Come il Fulmine che per i Bambini si attenua
Con spiegazioni soavi
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi –
*
599
C’è un dolore – così totale –
Che ingoia l’Essere –
Poi copre l’Abisso con lo Stordimento –
Così la Memoria può passarci
Intorno – Attraverso – Sopra –
Come chi in un Delirio –
Vada sicuro – un occhio aperto –
Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso –
*
997
Sgretolarsi non è l’Atto di un istante
Una pausa fondamentale,
I processi di Disgregazione
Sono Decadimenti organizzati –
Prima c’è una Ragnatela sull’Anima
Una Pellicina di Polvere
Un Tarlo nell’Asse
Una Ruggine Primaria –
La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo
Consequenziale e lento –
Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto
Scivolare – è la legge del Signor Crollo –
*
258
C’è un certo Taglio di luce,
Pomeriggi d’Inverno –
Che opprime, come la Gravità
Delle Melodie da Cattedrali –
Una Ferita celeste, ci procura –
Noi non troviamo la cicatrice,
Ma un’intima differenza,
Dove è ciò che conta –
Nessuno può insegnarla – Nessuno –
È il Sigillo della Disperazione –
Un’afflizione imperiale
Mandata a noi dall’Aria –
Quando arriva, il Paesaggio ascolta –
Le Ombre – trattengono il respiro –
Quando se ne va, è come la Distanza
Negli occhi della Morte –
*
642
Bandire – Me da Me stessa –
Ne avessi l’Arte –
La mia Fortezza invincibile
Da Ogni Cuore –
Ma poiché Io stessa – Mi assalto –
Come potrei aver pace
Se non soggiogando
La Coscienza?
E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra
Come potrebbe essere
Se non Abdicando –
Me – da Me?
Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob
Blakesley, Crocetti, 2025
L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con
Maria Borio proviene da Pangea.