Per quanto mi riguarda questo è l’ultimo capitolo della triade divinatoria de
“La Vita Agrissima”, cioè un attraversamento ironico, un po’ crudele e un po’
veritiero sui comportamenti degli scrittori. E – si badi bene – di tutte le
tipologie di scrittori: scriventi, poeti, poetastri, critici, narratori,
cantastorie, ecc. Insomma, tutti coloro che tentano di salire sulla barca che
affonda dell’editoria tradizionale, dove ormai non più soltanto le persone
serie, ma anche “i nani e le ballerine” degli anni Ottanta spadroneggiano di qua
e di là dalla scrivania.
Questo ultimo round riguarda un aspetto importante nella vita bibliografica di
ogni autore: come si creano le reputazioni letterarie? Si creano nei fasti del
palcoscenico, o nelle ombre del retropalco? Siamo in un momento storico in cui
gli attori letterari si mescolano più che in anni passati, trattenendo in loro
più mestieri e ruoli, soprattutto i critici fanno gli scrittori, gli accademici
fanno i poeti, i giornalisti fanno i narratori, i magistrati fanno i giallisti e
gli acrobati insegnano nelle scuole di scrittura creativa. Siamo tutti noi,
sconsiderati esercitatori di ego, che viviamo una vita agrissima a resistere in
un mondo sempre più a caccia di una specie in via di estinzione: la lettrice e
il lettore.
Ma torniamo alla domanda sulla reputazione di questa terza puntata de “La Vita
Agrissima”. La reputazione è un valore positivo che parla di qualcuno per come
gli altri lo vedono, quindi un vero e proprio giudizio esterno che può
determinare in positivo una carriera e custodirla post mortem. E anche nella
storia di un autore vale forse un buon inizio, come a scuola, per cui la
reputazione procederà secondo il primo giudizio rilevato. Ma non è sempre così.
E comunque: come si creano le reputazioni letterarie?
Ecco un elenco di modalità, divise per cinque tipologie.
La prima sono i modi canonici. Intendo, per esempio, il potere – non proprio il
potere politico o economico, ma piuttosto il potere relazionale, la capacità di
porsi favorevolmente di fronte agli altri. In questo caso è sempre utile una
presentazione autorevole di qualcuno che conta qualcosa, o ne ha l’aria. Oppure
i soldi possono aiutare nel breve periodo a una degna pubblicità, che però ha le
gambe corte. Su questa falsa riga si può citare pure il sesso, come veicolo
attrattivo di attenzione e considerazione. Infine l’esercizio della pietà:
saperla usare in maniera efficace ponendosi in una condizione di minorità può
suscitare forti emozioni nell’interlocutore o nei giovani critici che si
addentrano nella selva oscura letteraria e hanno il futuro a disposizione per
tenere un autore a galla, oppure ignorarlo.
La seconda sono i modi impersonali. Vale a dire il caso: una serie di situazioni
fortunate inanellate dietro una serie di presentazioni eccellenti. Oppure
il caos, come quando uno accompagna l’amico a presentare un romanzo a un editore
e l’editore sceglie l’accompagnatore… Un altro elemento è la fortuna che, come
da tradizione, è cieca.
La terza tipologia sono i modi fantasiosi. Cioè il vero talento, oppure
l’inganno, o l’uso di un nome falso che richiama qualcosa di grande. L’inganno è
quello che mi affascina più di altri, perché richiede astuzia e mente criminale
in chi lo esercita. È l’unico tipo per cui porto un esempio: Max Aub quando
inventò la biografia di un pittore che non era mai esistito e la critica d’arte
cadde nell’inganno, fino a pretendere una mostra dei suoi quadri che Max Aub
organizzò: al vernissage dichiarò la falsità dei suoi propositi. Il nome falso è
interessante: con uno pseudonimo si può ovviare a pregiudizi incancreniti sul
proprio nome – serve sangue freddo, alla Mr. Ripley. Il talento sta nei modi
fantasiosi perché è una condizione cui credo poco, o almeno la metto in
posizione condizionata dalla fortuna e dall’impegno, e ritengo possa essere
anche la maniera del soggetto di presentarsi. Il talento esiste, ma non è
direttamente proporzionale alla reputazione. Si può avere un gran talento
sprecato.
La quarta tipologia sono i modi borghesi. Per esempio la costruzione del merito,
la parrocchia e la bandina. La costruzione del merito pare quasi una reputazione
composta con pedissequa costanza ingegneristica, attenti a nominare sempre le
persone giuste, ringraziare a dovere chi si deve, ossequiare grandemente e
financo idolatrare chi bisogna, insomma darsi da fare per darsi un’aria di
merito. La parrocchia e la bandina potrebbero stare insieme. Tuttavia
la parrocchia nasce su un precetto morale, o su un manifesto ideologico: si fa
parte della solita parrocchia se costruiamo un cerchio tribale dentro cui gli
adepti sono famiglia e gli esterni rimangono inconsapevoli e incolti, gentaglia
che non può capire la profondità dei militanti. La parrocchia aiuta a mantenere
una degna reputazione anche una volta scomparsi, perché ci sarà sempre un
discepolo disposto a tramandare la carriera di chi lo ha preceduto nel posto
dove nessuno vorrebbe mai andare. La bandina invece, potrebbe essere un’alleanza
momentanea per un fine temporaneo, che serve comunque a far crescere la
reputazione dei soci della bandina, ma non ha vincoli morali, piuttosto è
contraddistinta da un mero utilitarismo.
Infine ci sono i modi strani. Insomma, un po’ il My Way sinatriano, cioè
faccio a modo mio. E di modi “a modo mio” se ne possono trovare moltissimi, per
questo sono difficilmente catalogabili, e al momento mi sfuggono…
Alessandro Agostinelli
*In copertina: una litografia di Roland Topor del 1968
L'articolo La vita agrissima 3. Inganno, soldi, caos. Ovvero: sui metodi per
costruirsi una reputazione letteraria proviene da Pangea.
Tag - Alessandro Agostinelli
1.
Probabilmente è stato un pomeriggio di sabato. Un sabato d’agosto di cui adesso
non ricordo il clima. Sembra quasi che, per quanto mi riguarda, la memoria non
comprenda la meteorologia. Eravamo a Tellaro e, a occhio e croce, erano più di
trenta anni fa. Tomaso Kemeny sembrava il comandante in capo. Capello lungo,
quasi sulle spalle con riporto centrale, bocca carnosa e sguardo magnetico.
Questo sguardo l’ha mantenuto nel tempo, anche quando l’età segnava massimamente
il volto e l’andamento. Ma come fa il comandante in capo a sorridere sempre,
stare spesso in silenzio e stazionare staticamente come un monumento ovunque si
fermi? Cercherò di spiegarlo.
Ho conosciuto Tomaso Kemeny nel Golfo dei Poeti, in quella Liguria levantina che
toglie il fiato per il disegno del paesaggio. Ed è stato un impatto quasi
perturbante. Provavo simpatia, ma anche un filo di inquietudine per la sua
figura.
Ci sono individui che portano con sé un’aura. Tomaso era uno di questi. La sua
presenza era al contempo normale presenza e ieratica apparizione, come se
trattenesse nella propria persona un dualismo di carnale e spirituale. Credo sia
sempre stata questa dualità l’energia sottile che viaggiava da lui stesso alle
relazioni umane che instaurava. Certamente era possibile cogliere in questo
poeta lussurioso e garbato la fisionomia di un padre o di uno zio benevolo, di
un signore d’altri tempi. E di questo mondo borghese e rassicurante parlava
anche casa sua in Viale Romagna a Milano. Eppure Tomaso portava con sé anche un
non so che di transilvano. Era una specie di daimon che interferiva tra mondo
terreno e mondo divino. E lo faceva con la poesia.
*
2.
Per alcuni anni Tellaro è stato il nostro luogo di incontro. Con me e Tomaso
tanti poeti e poetesse che, estate dopo estate, amavano incontrarsi per
l’aperitivo fino a notte inoltrata, leggendo poesie in faccia all’orizzonte.
Sopra Lerici, Angelo Tonelli, poeta e grecista tra i più importanti in Italia,
organizza Altramarea, una rassegna di poesia informale e bellissima. Siamo tutti
noi, ormai da decenni, dentro questo mondo minuto della poesia e sappiamo chi
siamo. Conosciamo chi prende e chi dà, chi ruba e chi regala, chi se la tira e
chi è timido: i poeti sono umorali e si pensano eterni. Perché se non ti pensi
eterno che razza di poeta sei? Diciamo dunque che tra tutti i luoghi dove la
poesia mi ha portato, Tellaro è quello più puro e più libero. Fuori da ogni
logica di potere, lontano dal marchiano do ut des ricorrente, sorretto soltanto
da Angelo e dalla sua fede nel vento, nei greci e nella spuma marina.
Soprattutto qui l’anima gentile di Tomaso Kemeny trovava il respiro vitale
dell’amicizia e del vitalismo dannunziano. Poi ci sono state le parate poetiche,
come quella in costume alla stazione Santa Maria Novella di Firenze, o il Komos
a Sarzana. Ma queste sono altre storie.
*
3.
Per tutto il 2004 mi trasferii a Milano. A un certo punto lavoravo a Radio 24. E
fu quell’anno che la frequentazione tra me e Tomaso diventò più intensa. Ci
piaceva fare l’aperitivo da Zucca in Galleria, quando non era cambiato tutto e
Milano aveva ancora qualche atmosfera austro-ungarico e, per contrasto,
popolare.
Lavorai tutta l’estate, mentre Tomaso se n’era andato, come sempre, al mare
nella casa ligure. Poi, una mattina di settembre lo chiamai perché era morto
Giovanni Raboni. Lo seppi subito: era il vantaggio di lavorare per una testata
giornalistica. Lui disse: “dobbiamo andare al funerale”.
Il giorno stabilito arrivammo in tram al Monumentale. Entrammo e nella Cappella
centrale c’era il libro delle firme. E noi firmammo. Poi salutammo Maurizio
Cucchi e restammo un po’ nella camera ardente. Non ricordo di cosa parlavamo, ma
adesso mi sembra di ricordare che stavamo parlando un po’ troppo per essere a un
funerale. E rammento anche il nostro atteggiamento che aveva una postura di
totale rispetto per il momento, ma che altrettanto aveva un briciolo di
osservazione distaccata dalla cerimonia. C’era nel nostro sentimento comune un
incrocio tra il detto bianciardiano che sostiene che ai funerali non si deve
essere tristi e quello di Elias Canetti che di fronte alla morte dice che gli
esseri umani valutano con positività che loro sono ancora in piedi, in vita e
non orizzontali, cioè il morto è lì al posto loro, per decretare che non sono
loro i morti. Restammo comunque a fare azione fedele di commiato per un grande
personaggio della cultura milanese e italiana come Raboni. E poi andammo a fare
l’aperitivo da Zucca.
*
4.
Il 18 novembre 2006 eravamo alla Casa della Cultura di Heidelberg. La cosa
incredibile di quella serata è che i tedeschi pagavano un biglietto per entrare
ad ascoltare dei poeti italiani, che leggevano in italiano. Questa cosa mi è
sempre rimasta impressa nella memoria: persone che in massima parte non
capiscono una parola di quello che vanno ascoltando e, nonostante questo, pagano
un biglietto per farlo. L’organizzazione impeccabile di questa serata e dei
nostri quattro giorni là era opera di Antonio Staude, un bravissimo filologo e
traduttore di madre lingua italiana e tedesca, nipote di Tiziano Terzani da
parte di padre e di Giorgio Colli da parte di madre. Staude aveva organizzato
questo viaggio poetico (con l’aiuto di Angelo Tonelli) e ci dava impegni e orari
stringenti per corrispondere al programma di lavoro molto teutonico. Con me e
Tomaso c’erano, tra gli altri, Valentino Zeichen, Salvatore Smedile, Gabriella
Galzio, Francesco Macciò, Dieter Schlesak e lo stesso Tonelli.
Eravamo arrivati in aereo a Francoforte. Da lì, in autobus, ci eravamo spostati
a Heidelberg. Il gruppo di poeti viaggianti doveva partecipare al World Poetry
Festival – poeZone 4, con una giornata dedicata: “Una notte italiana – Dichtung
aus Italien”.
Il primo giorno passò in assoluta libertà di fare, brigare, passeggiare,
dormire. Il secondo giorno ci toccò una riunione notturna. Dopo cena eravamo
costretti a un’assemblea per organizzare la giornata fatidica. Appesantiti dal
cibo e dal vino saliamo al primo piano di un istituto culturale di cui Staude
aveva le chiavi. La stanza era grande e il riscaldamento non era in funzione.
Faceva freddo. Tomaso si era seduto ed era rimasto imbacuccato nel suo pastrano,
col cappello in testa e i guanti. Appena seduto chiuse gli occhi. Dormiva.
Angelo Tonelli tentava una scaletta dei nostri interventi poetici del pomeriggio
successivo alla Biblioteca centrale e della sera alla Casa della Cultura. Io
dissi qualcosa, Valentino ribatté qualcos’altro, Staude precisò alcune cose.
Tomaso dormiva. Mi avvicinai alla lavagna e tentai un elenco di nominativi con
scansione dei tempi. Angelo Tonelli corresse. Tomaso dormiva. Valentino non era
d’accordo. Si discuteva e citammo due poeti, io Caproni e Valentino non ricordo
chi. Ci sfottevamo. Poi ci mettemmo tutti a ridere. Tomaso dormiva.
Quando ormai stremati dall’ora tarda e dall’alcol decidemmo di andare a dormire,
qualcuno doveva prendersi la briga di svegliare Tomaso. E tutti ci chiedevamo
chi l’indomani avrebbe detto a Tomaso cosa avevamo scelto anche per lui che
dormiva nella scaletta dei due eventi di lettura.
Il giorno dopo alla Biblioteca, Angelo Tonelli, nonostante avessimo chiarissimo
dalla notte precedente l’ordine degli interventi, disse che avrebbe ripetuto la
scaletta e gli argomenti, soprattutto per Tomaso. Ma Tomaso, già seduto al
tavolo si voltò verso di lui e disse con estrema esattezza il nome di chi
avrebbe cominciato, l’intervento e il tema precedente al suo, e quello
successivo. La notte prima aveva sentito tutto. Aveva dormito? Aveva fatto finta
di dormire? Non si sa. La realtà è che sapeva già tutto.
*
5.
Sono passati molti anni. Ogni volta che andavo a Milano lo chiamavo e se
c’incastrava ci vedevamo per il solito aperitivo. Un anno mi invitò a presentare
un mio libro alla Casa della Poesia, che aveva contribuito a far nascere e
crescere.
Poi nel 2019, mentre stavo costruendo il progetto del viaggio sulle orme di
Leonardo Da Vinci, un viaggio in scooter da Vinci fino ad Amboise in Francia,
con dieci tappe intermedie (progetto raccontato in alcuni video e in un libro,
intitolato Da Vinci su tre ruote), lo invitai come testimone della tappa
milanese. Ci vedemmo da Frank a Porta Venezia e ci divertimmo molto a registrare
l’intervista. Era affaticato, ma ancora molto reattivo. Furono abbracci e
sorrisi. Poi tutto è precipitato e gli anni dopo sono stati solo telefonate. Poi
più neanche quelle.
A questo punto però serve fare un passo indietro.
*
6.
Nel 2007 ci vedemmo qualche volta a Milano e poi Tomaso venne in Toscana per
parlare di un suo poema che voleva assolutamente pubblicare nella mia collana di
libri di poesia. Per questo serve portare qualche fatto.
Dal 2000 avevo fondato la collana Poesia di Edizioni ETS. Fino al 2007 erano
usciti alcuni libri che restano primizie italiane: l’antologia sulla guerra e la
madre di Roberto Carifi, la prima traduzione italiana del poema Premio Pulitzer
1967 di George Oppen, il primo libro italiano di José Tolentino Mendonca,
il Canto Pisano di Sam Hamill e alcune altri importanti titoli. Tomaso mi
propose un suo poema, me ne parlò, me lo fece leggere e lo pubblicammo a
settembre 2007. Il titolo, visto con gli occhi di adesso, è tutto un
programma: La morte è un’altra cosa.
Ho ripreso in mano questo libro. Tomaso scriveva:
> “e quando la luce tornerà alla luce sente che
> tutto il potere sarà della poesia
> dell’esistenza finalmente
> anche per l’impossibilità innata
> di venire a patti con la vita”.
Sembra un testamento. Sembrano versi scritti per la sua dipartita, perché sono
tanto aderenti a ciò che Tomaso era e pensava. E adesso che Tomaso è morto
questi versi risuonano fortissimi.
Questo poemetto parla di giovani (che Tomaso frequentava per l’insegnamento
universitario e nel mondo della poesia), ma soprattutto parla del fatto che
dalla fantasia scaturisce l’utopia, cioè un anelito umano verso le stelle,
quello che Tomaso definiva “frutto inconsumabile dell’immaginazione umana”,
chiudendo la sua nota ai versi con la convinzione “che l’utopia non può morire”.
Questo era Tomas Kemeny. Per questo ci mancherà, lui daimon mezzo umano e mezzo
divino. Forse la sua frase più rappresentativa era proprio questa specie di
preveggenza che volle ficcare nel libro per dimostrare che davvero la morte è
un’altra cosa e che infine, quando la luce tornerà alla luce, tutto il potere
sarà della poesia.
Avanti, Tomaso! Stai bene!
Alessandro Agostinelli
L'articolo La morte è un’altra cosa. Sussurri, aperitivi e viaggi in memoria di
Tomaso Kemeny proviene da Pangea.
Come se la passano oggi gli scrittori? Stanno in giro per librerie? Si sono dati
alla macchia, scomparendo dalla mondanità? Oppure stanno a giornate sui social?
Ecco, piuttosto l’ultima. Dove vivono oggi gli scrittori, quelli bravi e quelli
ciuchi, quelli famosi e quelli sconosciuti? A giornate sui social a pontificare
su tutto, su ciò che conoscono e su ciò che non conoscono. Come qualsiasi
cittadino normale? Ebbene sì, come ogni persona normale. Ma è pur vero che lo
scrittore non è tanto normale, come figura sociale (non social) intendo. Ma
questa è soltanto una stupida illazione.
Personalmente passo troppo tempo su facebook e quando me ne accorgo mi faccio
schifo, ma proseguo comunque in questa oscena attività. Un amico bibliotecario,
una volta scrisse su facebook che si sarebbe allontanato per un po’ dai social
perché voleva scrivere. Alcuni discutono di tutto; altri parlano solo di libri.
E mi chiedo: esisterà in futuro qualcosa di cui scrivere che sarà fuori dai
social, dalla rete, dalle piattaforme online, dalle riviste digitali? Lo spero,
ma non credo.
Non moriremo cartacei, come non siamo morti democristiani (si diceva così una
volta…). Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che
interessa tutti: come andrà a finire…
Dunque, in questa seconda puntata della “Vita Agrissima”, affronteremo alcune
tipologie dentro le quali gli scrittori (e si intende al solito tutta la
compagine: scriventi, poeti e poteastri, ghost, ecc.), a differenza della prima
puntata, non hanno alcun riferimento reale. Tutto quello che segue è inventato…
*
Critici e ipocriti
“Ho letto il libro di Tizio. Intanto, per me, c’è un errore sintattico alla fine
di pagina 137. Poi come fa il personaggio di Caio a parlare con quel tono? È
inverosimile”. E tu chiedi – tutto avviene tramite messaggistica, nulla è ancora
pubblico – “ma la storia? La storia è bella?”. E lo scrittore criticone risponde
che è senza infamia e senza lode, ma gli manca l’ultimo capitolo.
Il giorno dopo leggi il suo post sui social: “Quando lo stile di un autore
dimostra ancora una volta la forza della narrativa italiana. Lo conosco bene e
so che lui è maestro nel trovare il giusto tono per ogni personaggio, come
dimostra Caio in questo suo ultimo lavoro. Complimenti Tizio, è il tuo libro
migliore”…
Sipario.
*
Lecchini
Dicesi lecchino chi si complimenta in modo eccessivo, senza ragioni valide per
farlo. Di solito il lecchino agisce nei confronti di un collega più famoso o
reputato più importante, e che, a suo avviso, potrebbe aiutarlo nelle sue
prossime “mosse letterarie”.
Uno dei modi migliori è sollevare uno scrittore affranto da qualche questione
extraletteraria, confortandolo con un commento sotto al suo post malinconico,
tipo: “non ti curare di questi sfaceli quotidiani, tu hai la letteratura che ti
(ci) conforta, e in questo campo sei un maestro”.
La sottospecie è il controlecchino simpatico, cioè colui che prova a conquistare
la confidenza di uno scrittore che reputa più addentro alle cose editoriali,
usando l’ironia, lo sfottò, l’ammicco, l’occhiolino. La tattica è più sfrontata,
ma se funziona maggiormente efficace, perché l’opera di lecchinaggio tout
court stucca facilmente.
Ahimé.
*
Lamentosi
“Se un editore, dico uno, avesse compreso per tempo il senso profondo di questo
libro che ho scritto ormai 10 anni fa, forse oggi avremmo compreso meglio la
questione del [inserire un argomento a piacere]”. Questo lamento pare più adatto
alla saggistica, ma sta bene pure nei settori letterari della narrativa e della
poesia.
Il lamento non è soltanto relativo a una pubblicazione mancata, ma anche a un
libro che ha avuto poca risonanza, in cui l’editore non si è speso in promozione
e da cui l’autore auspicava maggiore eco mediatica. Solitamente ai lamentosi
viene bene anche una seconda parte di orgoglio risentito in cui scrivono:
“comunque, in un mondo editoriale caduto così in basso, sono felice di non aver
preso parte a tale riflusso commerciale”.
Olé.
*
Fenomeni
Dicesi fenomeno colui che pensa di essere più figo degli altri. La categoria è
vastissima, di cui una sottospecie, forse la peggiore, è quella dei fenomeni che
condiscono i loro post di esecrabile falsa umiltà. Tipo: “sono seduto a un
tavolino fronte mare, ho ritrovato un vecchio libro di Gogol e mi infliggo
questa medicina, mentre tutti intorno a me sono curvi sopra i loro cellulari”.
Tra i fenomeni ci sono gli assertivi, cioè quegli scrittori che credono di
essere un’autorità in materia (che ne so, di gialli, di fantasy, di qualcosa) e
tracciano post come fossero confini statuali. A puro titolo di esempio quel che
segue.
Sottotesto non scritto: [attualmente sono il miglior narratore di genere
poliziesco]. Testo del post sui social: “nel genere poliziesco una buona storia
necessita di due cose fondamentali X e Y, perché soltanto così abbiamo la storia
perfetta”. E sotto sbrodolamento di commenti entusiastici da parte dei
followers.
Evviva.
*
Ingrati
Non so se il numero degli scrittori ingrati sui social sia alto o basso.
Certamente l’ingratitudine è una delle attività più crudeli. Mettiamo che
abbiate organizzato la presentazione di un libro per conto di una casa editrice.
Avete invitato l’autore del libro e lo avete messo in contatto direttamente con
l’editore, tipo Giulio Einaudi o Elvira Sellerio (meglio citare persone
scomparse…) – è ovviamente un esempio incongruo. Ecco! Alla fine dell’evento lo
scrittore fa un bel post sui social, tagga tutti e ringrazia tutti, tranne voi.
Perché? Certi comportamenti umani sono insondabili, ma anche parecchio stronzi!
Tiè!
*
Citazionisti
“Come non essere d’accordo con questa frase di Franz Kafka: [segue frase]”.
“Come non sottoscrivere questa massima di Seneca: [segue massima]”.
“Come non emozionarsi di fronte a questa poesia di Auden: (seguono versi)”.
Grazie al pene! Non avete scelto citazioni dal Dizionario etimologico storico
dei termini medici di Enrico Marcovecchio. Kafka, Seneca, Auden. Vi piace
vincere facile eh?
Ma c’è anche chi, sui social, lancia sfide di citazioni, tipo questa:
“Indovinate chi è il mio scrittore preferito (non andate a cercare su google,
furbacchioni): Svetta su entrambi un Himalaya di vite in movimento”.
E poi gli autocitazionisti. Ecco un plausibile esempio: “Sgomento, sgomento di
una guerra ingiusta/ senza cuore avanzano coloro che non restano umani. Non sono
parole di Ghandi e nemmeno di Tolstoj, questi versi li trovate nella mia ultima
raccolta, Il cielo diviso. #nowar”.
Forza!
*
Autoprodotti
Sono coloro che hanno scritto un testo, l’hanno impaginato a piacere, hanno
scelto un’immagine autoprodotta, e hanno mandato tutto in stampa presso una
piattaforma tipografica digitale. Hanno ricevuto a casa un certo numero di copie
del loro romanzo e adesso ne lodano le qualità sui social. E sotto valanghe di
cuoricini dei parenti. I più astuti tra quelli che si autoproducono i libri,
senza un editore, sono coloro che convincono l’amic* del cuore a fare il post in
vece loro e tratteggiare tutte le qualità del racconto.
Amen!
Alessandro Agostinelli
*In copertina: un’opera di Roland Topor
L'articolo La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di
scrittori da social proviene da Pangea.
Ricorsivamente ci poniamo le solite domande. Come si diventa scrittori? C’è una
formula segreta? C’è una chiave che bisogna portarsi appresso? Si deve conoscere
qualcuno che conta?
Ecco le domande che spesso sento fare a qualche aitante e giovane erudito.
Mentre da parte mia, a questo punto della storia, la domanda è piuttosto
un’altra: perché sto passando la mia vita a scrivere? Ma questa è un’altra
storia.
*
Editoria in crisi, proposte in rialzo
Le vendite dei libri sono in calo; il numero degli scrittori aumenta. È
difficile spiegare come possa reggersi in piedi un sistema del genere. Il
settore editoriale è forse l’unico in cui mentre la barca affonda tutti vogliono
salirci sopra.
La categoria che prendo in esame è nell’accezione più larga possibile. Quindi
per scrittori intendo scriventi, poeti, poetastri, narratori, prosivendoli,
saggisti, ghost writer, ecc. Questo perché tanto, nella migliore delle ipotesi,
il 99% di noi scomparirà dall’orizzonte letterario nazionale nel giro di qualche
decennio dalla propria dipartita da questa terra. Alcuni resteranno per aver
invaso le pagine dei giornali dei loro tempi, altri perché saranno precipitati
nei manuali scolastici e altri perché qualche erede compiacente (che avrà gusto
o necessità di ricevere ancora i diritti sulle opere) si darà un sacco da fare
per mantenere viva l’attenzione sullo scalpo del proprio familiare – ed è una
delle cose migliori che possano capitare a un autore. Ma forse questo è una
maniera arcaica di vedere la cosa.
*
Social e AI
Potrebbe essere che qualcuno resterà sui social, con la sua pagina che sarà
riempita di contenuti pure dopo la sua morte, dalla moglie che conosceva la
password, da un amico, da una figlia, da un parente, da un’associazione di fans
sfegatati. Resteranno solo tre frasi espunte da un romanzo e per quelle tre
frasi resterà il nome dello sventurato. Una vita passata a scrivere centinaia di
pagine, quando bastava aver scritto tre trite frasi a effetto et voilà, era
bell’e fatto!
Oppure, qualcuno scopre online dei testi di un bravo scrittore, non assurto alla
fama modesta del mondo letterario, indica una traccia romanzesca e inserisce in
un programma di AI generativa grandi brani di quello scrittore, creando una
nuova opera.
Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che
interessa tutti: come andrà a finire. Ma per sapere come andrà a finire, c’è da
vedere prima come si può cominciare, cioè qualche maniera di diventare
scrittori. Ecco allora sette modi per pubblicare, in cui qualcuno di voi
potrebbe riconoscersi. Con sorpresa finale (non andate a leggere subito la
fine).
*
Censo Sei ricco, hai beni e risorse da spendere: puoi ottenere, più o meno, ciò
che desideri. Quindi anche una pubblicazione presso un editore, più o meno noto.
Se poi il tuo testo non ha qualcosa di buono da utilizzare per un libro, pace.
Resta il fatto che se le doti letterarie non bastano, con i soldi potrai pagare
un ghost writer e il gioco è fatto.
Amicizia Se conosci l’editor di un grande editore e ce l’hai in pugno sei a buon
punto. Sei proprio amico, puoi chiedergli di pubblicare il tuo libro. Questa
modalità resta la più sanguigna e improbabile perché – sia detto senza remore –
gli editor non hanno amici, non tengono famiglia e sono tutelati nella privacy
più delle spie di Sua Maestà britannica… Meglio conoscere il proprietario della
casa editrice. A lui oggi raramente dicono di no (ti accontenterai di un “fuori
collana”).
Sesso Sei giovane. Uomo o donna non fa differenza. Sei giovane e vuoi diventare
scritt*. Qua conta un po’ la bellezza, ma soprattutto le armi classiche della
seduzione, che sono sempre un incrocio tra santità e puttanaio. Aprire le porte
dell’editoria col sesso è un modo banale di entrarci.
Tenacia Puoi occupare l’atrio della casa editrice. Piazzarti per giorni,
settimane, mesi accampato là dentro, con sottobraccio i fogli del tuo romanzo
che tu ritieni indispensabile all’umanità. Soprattutto deve essere questo il tuo
convincimento, non di meno: un libro indispensabile. Forse, stremato dalla tua
costanza, ci sarà qualche impiegato che trova la maniera di portarti di fronte
al giudice supremo della casa editrice.
Fortuna Ci sono vari livelli di fortuna. C’è chi vince un concorso solo perché,
un po’ come l’allineamento positivo dei pianeti in astrologia, la giuria ha
letto quel testo in un momento favorevole per ciascun giurato. Della serie:
questo testo non è un capolavoro, ma è quello che mi ha meno disturbato, o più
divertito, o meno addormentato, o più interrogato, o… ad libitum. C’è chi ha
inviato un dattiloscritto per posta e ora quel testo staziona da mesi in una
busta sotto una pila di altre buste, accanto a pile di altre buste, sulle
scrivanie addossate al muro di un ufficio editoriale. L’editore incontra il suo
consigliere alla pubblicazione, alza una pila, toglie delle buste e ne prende
una a caso, la tua. Ecco, al lettore il testo piace. Si va in stampa.
Bravura Sei bravo. Lo sai. Te lo hanno detto scrittori affermati e agenti
letterari svogliati. Prendi il libro e lo porti alla casa editrice della tua
città che lo pubblica. L’editore è piccolo, il mondo editoriale non si accorge
di nulla. Sei bravo. Te l’hanno detto. Pubblichi, non si sa come, con un editore
importante, il libro non è spinto sulla stampa, il mondo editoriale non si
accorge di nulla. Sei bravo. Pubblichi con un editore conosciuto che segue il
libro e lo pubblicizza. Vendi poco più di mille copie, il mondo editoriale non
si accorge di nulla.
Circostanze Un agente letterario accetta di curare i tuoi interessi editoriali.
Proponi due libri. Il primo non se lo fila nessuno e tu ritenevi fosse il
migliore. Quello che invece avevi scritto controvoglia viene pubblicato perché –
dice l’agente – era proprio l’argomento che l’editore stava cercando…
*
Post Scriptum
Questi modi di pubblicare corrispondono a storie vere di alcuni scrittori in
carne e ossa, di cui qui non menzionerò nemmeno il soprannome.
Alessandro Agostinelli
*In copertina: Ernest Hemingway, uno scrittore
L'articolo La vita agrissima. Sette modi per diventare scrittori proviene da
Pangea.
C’era una volta un tizio che si sedeva davanti a un tavolo. Aveva un quaderno e
una penna. Scriveva. Oppure aveva una macchina da scrivere, o un computer. E
scriveva. Questa è la favola che oggi ci illude esista ancora un tempo per
scrivere. Non voglio dire che non esista più. Dico solo che oggi ha uno statuto
debole.
Li vedo già i colleghi poeti e scrittori che storcono la bocca: ma come,
l’autore! su dai, la creatività! Sono anch’io disperato come loro, mi muovo a
tentoni in un presente che rosola a fuoco lento (ma neanche troppo lento) le
certezze intellettuali e letterarie di soli vent’anni fa.
Non so se sia una notizia vera. Oggi esiste questo universo delle cosiddette
“fake news” che avvelenano menti e coscienze degli individui. Spesso si
diffondono tramite i social, perché sono il mezzo in cui tutti noi siamo più
indifesi di fronte al desiderio di scovare qualcosa da mettere in mostra nella
nostra vetrina, sul nostro profilo. Comunque, ho fatto le dovute verifiche del
caso: è in vendita, a varie centinaia di dollari (sotto il migliaio comunque). È
la Poetry Camera, cioè la macchina fotografica poetica. Si inquadra qualcosa e,
poco dopo, quest’aggeggio sputa una poesia composta dalla sua intelligenza
artificiale.
A inizi Duemila lavoravo in radio e abitavo a Milano. Sui Navigli c’era un tizio
che scriveva, a pagamento, poesie su commissione. Bastava dirgli a chi volevi
regalare la poesia e fornirgli qualche elemento tematico o caratteriale della
persona e lui ti sfornava una bella poesia lì per lì. Pensate che, negli anni
’60, pure Jack Kerouac, il vagabondo perditempo sulle strade d’America, si era
rintanato nella capanna di Henry Miller, per scrivere un romanzo su commissione.
Era Big Sur. E se pure il più anarchico degli scrittori aveva ceduto a un libro
a richiesta, voleva dire che tutto era possibile.
E infatti, a distanza di alcuni decenni, il possibile è diventata un’invenzione
di Carolyn Zhang e Ryan Mather, due informatici creativi che hanno preso un
dispositivo di Raspberry Pi che cattura le immagini e, interagendo con GPT-4 di
OpenAI, genera poesie, produce testi poetici, pure di generi differenti. Si può
prediligere gli haiku, oppure un sonetto, o un limerick, o altro. E già a questo
punto ci sarebbe una miriade di considerazioni da fare. La più evidente è che
con questa macchina fotografica poetica non dobbiamo nemmeno durare fatica a
scrivere un elenco di parole che l’intelligenza artificiale usa per comporci
sopra una poesia. La caratteristica della Poetry Cam è che si inquadra un bel
tramonto e via, la macchina secerne la poesia stampata sopra un pezzo del
rullino di carta, e il dispositivo non salva in digitale questo testo.
Praticamente, in un baleno siamo di fronte all’uso avanzato dell’intelligenza
artificiale e all’uso arcaico della carta come unico supporto che “ricorda”,
cioè archivia il risultato. A essere uno psico-qualcosa o un socio-qualcosa ce
ne sarebbero di discorsi da fare…
Alla parte romantica di me stesso, di fronte a questo rilievo della carta,
verrebbe da dire “vedi, la carta è ancora il supporto migliore, la carta non
tradisce”. Ma poi una vocina cinica mi dice che magari qualcuno in antichità,
quando inventarono la carta, potrebbe aver detto “questa novità della carta non
durerà, vuoi mettere le tavolette di pietra incise, le tavolette di pietra non
tradiscono”.
Alessandro Agostinelli
L'articolo Intorno alla magnifica invenzione della “Poetry Cam”, la macchina
fotografica poetica proviene da Pangea.
1.
Vorrei raccontare un esperimento che ho fatto tempo fa.
Ho preso 10 spettatori. Ho fatto vedere loro lo spezzone di un film con un
attore che non sa recitare. In 9 si sono accorti della cattiva recitazione.
Poi ho preso 10 lettori. Ho dato loro da leggere alcune poesie con testi banali
e melensi. Soltanto 4 di loro si sono accorti della bruttezza.
Ai 10 spettatori ho chiesto quanti di loro avrebbero voluto fare l’attore.
Soltanto uno mi ha detto che in gioventù aveva pensato di iscriversi a una
scuola per attori.
Ai 10 lettori ho chiesto quanti di loro avrebbero desiderato scrivere poesia, e
8 di loro mi hanno detto che scrivono e avrebbero voluto farmi leggere le loro
poesie.
I risultati di questo semplice “esperimento” (al di là della sua sciocca
inutilità statistica) mostrano di per sé alcune evidenze:
a. una consistente differenza tra spettatori e lettori;
b. una consapevolezza degli spettatori, rispetto ai lettori, del fatto che la
recitazione è anche una tecnica da studiare;
c. la presunta facilità della poesia per chiunque abbia appreso a scrivere a
scuola;
d. la capacità di individuare “errori” nell’arte performativa è superiore a
quella di riconoscere “errori” nel testo scritto.
Al di là della miriade di poeti della domenica, anche tra quelli pubblicati
spesso ci si riferisce ormai quasi esclusivamente a una accessibilità della
poesia. Cioè ci si riferisce più alla domanda che all’offerta. In sostanza ci si
occupa di marketing, cioè di ragionamenti e azioni che si fondano sulle
“esigenze” del lettore – intercettare il lettore, si dice. Questo è ciò che
cercano gli editori. E questo è il loro lavoro. Ma non dovrebbe essere quello
del poeta.
Quando si parla del lettore, di quale lettore si parla? Ovviamente di un lettore
generico, di un lettore-tipo, vale a dire di un lettore medio, uno che non
esiste in concreto, ma che a furia di nominarlo con tanta bramosia si palesa.
Questo lettore inesistente si palesa nella maniera della pubblicabilità, quel
modo che trascina poesia e letteratura nella mediocrità, in un ambito cordiale
che tutto mastica e tutto digerisce.
Partiamo da qui: la cordialità in poesia è un’aberrazione.
Non è questo lo scopo del poeta. Non è questo il terreno della poesia.
*
2.
Ma che cos’è oggi la poesia?
La domanda è pertinente, la risposta è difficile da individuare. È vero però che
da un decennio è emersa in molti titoli di autori conosciuti una certa
semplificazione a tutto tondo. E ultimamente c’è pure una caratteristica
diffusa, cioè la ricerca costante di una folgorazione finale. Si trovano
accorati pay-off in forma di poesia: soluzioni fulminee, apologhi icastici,
sviolinate con ciliegina. Si trovano raramente poesie, nel senso specifico del
mezzo. Siamo in un mondo in cui la poesia somiglia all’atto diarroico di dover
per forza disporre con impeto parole su un foglio, come una volta le diapositive
delle vacanze.
Oltre a questa tendenza a disporre testi poetici con finali a effetto, senza che
il testo stesso, che precede questi finali, abbia uno stile adeguato nella
creazione di un processo motivato che porta a tale finale, ci sono altre
caratteristiche negative alla base della produzione diffusa di poesia attuale. E
mi piace citarne almeno una. Vale a dire che spesso molte poesie contemporanee
scrivono esattamente ciò che vogliono dire. Non è coerenza tra pensiero e
scritto: è cronaca.
Ma una cosa è raccontare in poesia una domenica in vespa (come fa Sereni in un
testo formidabile), altra cosa è fare i compiti andando a capo a caso e
raccontando pedissequamente la passeggiata in un bosco, un semaforo rosso nel
corso principale, l’affetto per la nonna, e in più utilizzando tutta una serie
di inutili aggettivi decorativi.
La poesia non dovrebbe solo dire esattamente ciò che vuole dire. Di più. Se, per
esempio, uso la parola “ramarro” in una poesia devo avere la consapevolezza che
quella parola non appartiene al mio testo, ma soprattutto al mondo della poesia,
perché ne hanno scritto Dante e Montale. La tradizione – come si chiama – serve
anche a questo: a tonificare in novità un tema antico. La profondità di un testo
poetico non è soltanto in quello che racconta, ma come lo dice. E oggi,
purtroppo, l’empatico desiderio di rendersi protagonisti delle proprie emozioni
porta molti a esporre sentimenti in forme semplificate, invece di verticalizzare
(in alto o in basso) le profondità di idee o viscere. Purtroppo oggi si leggono
sempre più testi poetici che intendono esattamente ciò che vogliono intendere,
senza alcuna “ambiguità”. Mentre è proprio sulla polisemia che si gioca spesso
la forza di una poesia.
Finché questi prodotti poetici restano nella casa vasta della poesia-facile, nel
suo senso lato di “affare emotivo”, va benissimo. Del resto alcuni di questi
prodotti diventano anche titoli librari di successo, e vengono pubblicati con
ottime tirature. Eppure credo avesse ragione Ungaretti quando diceva: “La poesia
è poesia quando porta in sé un segreto. Se la poesia è decifrabile nel modo più
elementare, non è più poesia”.
*
3.
Veniamo così a un altro argomento. Cosa dovrebbe accadere quando il punto non è
il mercato librario, ma la poesia-poesia?
Forse la poesia dovrebbe essere, prima di tutto, la semplificata complessità di
un lungo rapporto con la tradizione e con la lingua. E certo anche il fulmineo
processo creativo emozionale. La poesia dovrebbe essere, prima di ogni altra
cosa, la parte consistente di un lavoro sulla lingua. La metrica è la musica
della poesia e chi non la conosce fa la stessa figura del direttore d’orchestra
che non sa leggere la musica sullo spartito. Certo, si può ignorare la metrica,
come si può fare immondizia dell’armonia, ma si deve conoscere e si deve sapere
che cosa si sta facendo.
In definitiva, il poeta ha soltanto la lingua, l’uso della lingua, i suoi
modelli e i suoi labirinti, le sue opportunità e le sue forme, come destinazione
e come destino. E per raccontare qualcosa che abbia la parvenza di un lavoro
nella poesia forse non basta una vita. Una vita di letture abbondanti, una vita
di studi continui, una vita di lunghe passeggiate in solitudine per sgranchirsi
la mente, una vita di riscritture chiarificatrici. Non si può definire un poeta
da un libro, da un lampo improvviso che acceca, ma da una competenza acquisita
nel tempo, possibilmente attraverso un’opera composta da più prove, da una
carriera svolta in maniera appartata in questo fragile piccolo mondo delle
parole.
*
4.
Capisco che in un mondo fatto di social e onnipresenze virtuali le persone
pensino al concetto di tempo e di storia come un lungo presente spalmato
esclusivamente sulla loro età, sulla loro brevità di vita. Tuttavia la cultura
dovrebbe scucire dagli occhi il velo che ci attanaglia, invece di farne viva
cordialità e simpatica e amorevole eroina che tutto rasserena.
I libri e la poesia soprattutto ci fanno vivere nella consapevolezza di una
lingua. Nella tradizione letteraria italiana la poesia ha un ruolo soverchiante
sulla prosa. Questa tradizione può essere solcata o essere tradita, ma soltanto
attraverso di essa possiamo concepire un passato che serve ancora comprendere e
in questa maniera guardare a un futuro da inventare.
Ecco dunque che la poesia non è il gioco iperbolico delle chiuse a impatto,
concepite come manifesti 6×3 che ti si parano davanti, quando svolti sulla
tangenziale. La poesia non è empatia sentimentale, non è la sociologica versione
del dolore. Forse questo funziona per i social, la tv, i rotocalchi. Ma non per
il fragile piccolo mondo della poesia-poesia.
Certamente i social (e facebook su tutti – pur con il suo declino, essendo una
piattaforma legata a una popolazione anziana) hanno avuto il merito di rendere
più diffuse molte frasi letterarie. Molte poesie famose sono rimbalzate di post
in post rendendosi fruibili a numeri enormi di persone. I social contribuiscono
a una specie di “democratizzazione” della punta dell’iceberg letterario. Vale a
dire che milioni di utenti si ritrovano a leggere pezzi di brani letterari,
spunti narrativi, frasi tagliate, brevi testi poetici.
Tutto ciò però conferma la superficialità di questo approccio e fissa alcuni
passi di letterature di vari Paesi del Mondo in frasi granitiche scolpite nella
pietra. Come una canzone ascoltata per tutta un’estate diventa un tormentone e
dopo un anno non abbiamo più orecchie per ascoltarla e ce ne dobbiamo separare o
dimenticare, anche una poesia di Giorgio Caproni, continuamente postata sui
social ci risulta prima o poi stucchevole. “Anche oggi pernici?”, diceva un
padrone al cuoco in un testo di Swift, per dire che anche un piatto prelibato
può dare disgusto se lo mangi sempre.
Che cos’è dunque questo desiderio di chiunque di rendere “poetico” un attimo
della propria esistenza, attraverso una riflessione emotiva postata tramite una
poesia ricorrente? Credo sia l’inconsapevole certezza che la parola declinata in
forma poetica ha una forza intrinseca che, come un solfeggio, batte e leva, cioè
misura il ritmo della nostra anima emotiva. Tuttavia questo non basta a
descrivere i contorni della poesia-poesia, ma soltanto la forza della lingua al
servizio dell’atto poetico. Perché in verità la poesia non è tutta nelle pagine
dei libri, ma nella natura. È da questo grande libro incommensurabile che spesso
si traggono, con il lavoro nella lingua, le emozioni delle parole.
*
5.
Tuttavia, come forse abbiamo lasciato intuire, il segno della poesia-poesia non
ha largo campo nella società e all’interno dei suoi mezzi di comunicazione.
Perciò resta complesso (e impossibile qui) indagare quanto i dispostivi
tecnologici abbiano modificato e influiscano sulla percezione della
poesia-poesia, preferendo solitamente una poesia-facile, cioè “meccanismi
poetici” più superficiali e semplificati. Questi ultimi sono la voce-guida
“culturale” dei nostri tempi. Tempi che non mostrano più un’identità collettiva,
checché ne dicano o sperino i governanti; tempi che non vedono una fase di
ricostruzione collettiva, come accadde nel secondo dopoguerra; tempi che erodono
la razionalità in favore di emotività adolescenziale.
È finita la vita in diretta, cioè quel legame individuale e collettivo che i
mezzi di comunicazione (tv, radio, stampa, editoria) organizzavano per gli
italiani. Dal momento in cui ogni individuo ha potuto avere un dispositivo
personale, la visione e la pubblicazione on-demand hanno soppiantato la visione
e la pubblicazione tramite terzi, si è perduto, in questa frammentazione, anche
il valore della poesia-poesia.
Con la denatalità degli italiani, l’arrivo di molti immigrati da varie parti del
mondo, il gergo invasivo dei social e dei giochi elettronici, l’uso dell’inglese
della tecnologia, i ricorrenti gerghi giovanili (derivanti più o meno dalla
musica pop), l’ideologia woke e le sue declinazioni linguistiche, i sempre più
spiccati ritorni ad accenti regionali nelle radio e nelle televisioni nazionali,
siamo di fronte a un tempo formato da molte alloglossie. Non sembra esserci più
un sistema di una lingua maggioritaria, come è stato fino ai primi anni Ottanta
del Novecento, attraverso i canali RAI.
Allora potrebbe essere forse la poesia-facile a stabilire nuove regole e nuovi
principi? La sua diffusione sui social, la sua elementare comprensibilità, la
sua affabilità nelle forme semplificatorie di cui abbiamo detto all’inizio di
questo testo, potrebbero suggerire un sentiero, che mette d’accordo lingua
scritta e lingua parlata. Infatti, ormai l’uso dei vari dispositivi tecnologici
permette una commistione molto forte tra scritto e parlato, con uno scivolamento
del primo in favore del secondo.
Senza dubbio una società è coesa laddove si individua un sistema linguistico
corrente e comune, un impianto di base minimo non soltanto per la comunicazione
concreta, ma che sappia anche muovere dal linguaggio alle emozioni e dunque a un
immaginario possibile di riferimento. Senz’altro la poesia-facile sta avendo
successo per questa riduzione di complessità, per una
certa adolescenziazione sociale e culturale, che è anche, in parte, una rinuncia
alla razionalità e alla responsabilità. Invece di offrire agli adolescenti una
formazione, attraverso la letteratura, che li traghetti al mondo adulto, si è
recentemente attaccata superficialmente la tradizione letteraria cercando di
nasconderla, emendarla, epurarla. Al tempo stesso si pubblicano e si promuovono
“casi letterari” di poesia-facile, si adolescentizza, in chiave esclusivamente
emotiva, la produzione poetica contemporanea. Non mi sembra un buon programma di
crescita individuale e collettiva. E certo voglio credere che servirà ancora
qualcuno che sappia muovere le trame sottili e adulte della poesia-poesia. Di
questo spero che la comunità attuale dei letterati e dei responsabili
dell’editoria continuino ad averne consapevolezza.
Alessandro Agostinelli
*
Alessandro Agostinelli, scrittore e poeta. Ha pubblicato il romanzo Benedetti da
Parker (2017); alcuni saggi sul cinema americano; i reportage di
viaggio Giordania stilografica (2023), Da Vinci su tre ruote (2019), Honolulu
Baby (2011); le raccolte di poesia Le vive stagioni (2023), Il materiale
fragile (2021), L’ospite perfetta – Sonetti italiani (2020) e in Spagna En el
rojo de Occidente (2014). Ha lavorato a Radio 24, Radio RAI Tre, L’Espresso.
Fondatore del Festival del Viaggio. Dirige la collana Poesia di Edizioni ETS.
L'articolo La poesia-facile e la poesia-poesia proviene da Pangea.