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La vita agrissima 3. Inganno, soldi, caos. Ovvero: sui metodi per costruirsi una reputazione letteraria
Per quanto mi riguarda questo è l’ultimo capitolo della triade divinatoria de “La Vita Agrissima”, cioè un attraversamento ironico, un po’ crudele e un po’ veritiero sui comportamenti degli scrittori. E – si badi bene – di tutte le tipologie di scrittori: scriventi, poeti, poetastri, critici, narratori, cantastorie, ecc. Insomma, tutti coloro che tentano di salire sulla barca che affonda dell’editoria tradizionale, dove ormai non più soltanto le persone serie, ma anche “i nani e le ballerine” degli anni Ottanta spadroneggiano di qua e di là dalla scrivania. Questo ultimo round riguarda un aspetto importante nella vita bibliografica di ogni autore: come si creano le reputazioni letterarie? Si creano nei fasti del palcoscenico, o nelle ombre del retropalco? Siamo in un momento storico in cui gli attori letterari si mescolano più che in anni passati, trattenendo in loro più mestieri e ruoli, soprattutto i critici fanno gli scrittori, gli accademici fanno i poeti, i giornalisti fanno i narratori, i magistrati fanno i giallisti e gli acrobati insegnano nelle scuole di scrittura creativa. Siamo tutti noi, sconsiderati esercitatori di ego, che viviamo una vita agrissima a resistere in un mondo sempre più a caccia di una specie in via di estinzione: la lettrice e il lettore. Ma torniamo alla domanda sulla reputazione di questa terza puntata de “La Vita Agrissima”. La reputazione è un valore positivo che parla di qualcuno per come gli altri lo vedono, quindi un vero e proprio giudizio esterno che può determinare in positivo una carriera e custodirla post mortem. E anche nella storia di un autore vale forse un buon inizio, come a scuola, per cui la reputazione procederà secondo il primo giudizio rilevato. Ma non è sempre così. E comunque: come si creano le reputazioni letterarie? Ecco un elenco di modalità, divise per cinque tipologie. La prima sono i modi canonici. Intendo, per esempio, il potere – non proprio il potere politico o economico, ma piuttosto il potere relazionale, la capacità di porsi favorevolmente di fronte agli altri. In questo caso è sempre utile una presentazione autorevole di qualcuno che conta qualcosa, o ne ha l’aria. Oppure i soldi possono aiutare nel breve periodo a una degna pubblicità, che però ha le gambe corte. Su questa falsa riga si può citare pure il sesso, come veicolo attrattivo di attenzione e considerazione. Infine l’esercizio della pietà: saperla usare in maniera efficace ponendosi in una condizione di minorità può suscitare forti emozioni nell’interlocutore o nei giovani critici che si addentrano nella selva oscura letteraria e hanno il futuro a disposizione per tenere un autore a galla, oppure ignorarlo. La seconda sono i modi impersonali. Vale a dire il caso: una serie di situazioni fortunate inanellate dietro una serie di presentazioni eccellenti. Oppure il caos, come quando uno accompagna l’amico a presentare un romanzo a un editore e l’editore sceglie l’accompagnatore… Un altro elemento è la fortuna che, come da tradizione, è cieca. La terza tipologia sono i modi fantasiosi. Cioè il vero talento, oppure l’inganno, o l’uso di un nome falso che richiama qualcosa di grande. L’inganno è quello che mi affascina più di altri, perché richiede astuzia e mente criminale in chi lo esercita. È l’unico tipo per cui porto un esempio: Max Aub quando inventò la biografia di un pittore che non era mai esistito e la critica d’arte cadde nell’inganno, fino a pretendere una mostra dei suoi quadri che Max Aub organizzò: al vernissage dichiarò la falsità dei suoi propositi. Il nome falso è interessante: con uno pseudonimo si può ovviare a pregiudizi incancreniti sul proprio nome – serve sangue freddo, alla Mr. Ripley. Il talento sta nei modi fantasiosi perché è una condizione cui credo poco, o almeno la metto in posizione condizionata dalla fortuna e dall’impegno, e ritengo possa essere anche la maniera del soggetto di presentarsi. Il talento esiste, ma non è direttamente proporzionale alla reputazione. Si può avere un gran talento sprecato. La quarta tipologia sono i modi borghesi. Per esempio la costruzione del merito, la parrocchia e la bandina. La costruzione del merito pare quasi una reputazione composta con pedissequa costanza ingegneristica, attenti a nominare sempre le persone giuste, ringraziare a dovere chi si deve, ossequiare grandemente e financo idolatrare chi bisogna, insomma darsi da fare per darsi un’aria di merito. La parrocchia e la bandina potrebbero stare insieme. Tuttavia la parrocchia nasce su un precetto morale, o su un manifesto ideologico: si fa parte della solita parrocchia se costruiamo un cerchio tribale dentro cui gli adepti sono famiglia e gli esterni rimangono inconsapevoli e incolti, gentaglia che non può capire la profondità dei militanti. La parrocchia aiuta a mantenere una degna reputazione anche una volta scomparsi, perché ci sarà sempre un discepolo disposto a tramandare la carriera di chi lo ha preceduto nel posto dove nessuno vorrebbe mai andare. La bandina invece, potrebbe essere un’alleanza momentanea per un fine temporaneo, che serve comunque a far crescere la reputazione dei soci della bandina, ma non ha vincoli morali, piuttosto è contraddistinta da un mero utilitarismo. Infine ci sono i modi strani. Insomma, un po’ il My Way sinatriano, cioè faccio a modo mio. E di modi “a modo mio” se ne possono trovare moltissimi, per questo sono difficilmente catalogabili, e al momento mi sfuggono… Alessandro Agostinelli  *In copertina: una litografia di Roland Topor del 1968 L'articolo La vita agrissima 3. Inganno, soldi, caos. Ovvero: sui metodi per costruirsi una reputazione letteraria proviene da Pangea.
November 27, 2025 / Pangea
La morte è un’altra cosa. Sussurri, aperitivi e viaggi in memoria di Tomaso Kemeny
1. Probabilmente è stato un pomeriggio di sabato. Un sabato d’agosto di cui adesso non ricordo il clima. Sembra quasi che, per quanto mi riguarda, la memoria non comprenda la meteorologia. Eravamo a Tellaro e, a occhio e croce, erano più di trenta anni fa. Tomaso Kemeny sembrava il comandante in capo. Capello lungo, quasi sulle spalle con riporto centrale, bocca carnosa e sguardo magnetico. Questo sguardo l’ha mantenuto nel tempo, anche quando l’età segnava massimamente il volto e l’andamento. Ma come fa il comandante in capo a sorridere sempre, stare spesso in silenzio e stazionare staticamente come un monumento ovunque si fermi? Cercherò di spiegarlo. Ho conosciuto Tomaso Kemeny nel Golfo dei Poeti, in quella Liguria levantina che toglie il fiato per il disegno del paesaggio. Ed è stato un impatto quasi perturbante. Provavo simpatia, ma anche un filo di inquietudine per la sua figura. Ci sono individui che portano con sé un’aura. Tomaso era uno di questi. La sua presenza era al contempo normale presenza e ieratica apparizione, come se trattenesse nella propria persona un dualismo di carnale e spirituale. Credo sia sempre stata questa dualità l’energia sottile che viaggiava da lui stesso alle relazioni umane che instaurava. Certamente era possibile cogliere in questo poeta lussurioso e garbato la fisionomia di un padre o di uno zio benevolo, di un signore d’altri tempi. E di questo mondo borghese e rassicurante parlava anche casa sua in Viale Romagna a Milano. Eppure Tomaso portava con sé anche un non so che di transilvano. Era una specie di daimon che interferiva tra mondo terreno e mondo divino. E lo faceva con la poesia. * 2. Per alcuni anni Tellaro è stato il nostro luogo di incontro. Con me e Tomaso tanti poeti e poetesse che, estate dopo estate, amavano incontrarsi per l’aperitivo fino a notte inoltrata, leggendo poesie in faccia all’orizzonte. Sopra Lerici, Angelo Tonelli, poeta e grecista tra i più importanti in Italia, organizza Altramarea, una rassegna di poesia informale e bellissima. Siamo tutti noi, ormai da decenni, dentro questo mondo minuto della poesia e sappiamo chi siamo. Conosciamo chi prende e chi dà, chi ruba e chi regala, chi se la tira e chi è timido: i poeti sono umorali e si pensano eterni. Perché se non ti pensi eterno che razza di poeta sei? Diciamo dunque che tra tutti i luoghi dove la poesia mi ha portato, Tellaro è quello più puro e più libero. Fuori da ogni logica di potere, lontano dal marchiano do ut des ricorrente, sorretto soltanto da Angelo e dalla sua fede nel vento, nei greci e nella spuma marina. Soprattutto qui l’anima gentile di Tomaso Kemeny trovava il respiro vitale dell’amicizia e del vitalismo dannunziano. Poi ci sono state le parate poetiche, come quella in costume alla stazione Santa Maria Novella di Firenze, o il Komos a Sarzana. Ma queste sono altre storie. * 3. Per tutto il 2004 mi trasferii a Milano. A un certo punto lavoravo a Radio 24. E fu quell’anno che la frequentazione tra me e Tomaso diventò più intensa. Ci piaceva fare l’aperitivo da Zucca in Galleria, quando non era cambiato tutto e Milano aveva ancora qualche atmosfera austro-ungarico e, per contrasto, popolare. Lavorai tutta l’estate, mentre Tomaso se n’era andato, come sempre, al mare nella casa ligure. Poi, una mattina di settembre lo chiamai perché era morto Giovanni Raboni. Lo seppi subito: era il vantaggio di lavorare per una testata giornalistica. Lui disse: “dobbiamo andare al funerale”. Il giorno stabilito arrivammo in tram al Monumentale. Entrammo e nella Cappella centrale c’era il libro delle firme. E noi firmammo. Poi salutammo Maurizio Cucchi e restammo un po’ nella camera ardente. Non ricordo di cosa parlavamo, ma adesso mi sembra di ricordare che stavamo parlando un po’ troppo per essere a un funerale. E rammento anche il nostro atteggiamento che aveva una postura di totale rispetto per il momento, ma che altrettanto aveva un briciolo di osservazione distaccata dalla cerimonia. C’era nel nostro sentimento comune un incrocio tra il detto bianciardiano che sostiene che ai funerali non si deve essere tristi e quello di Elias Canetti che di fronte alla morte dice che gli esseri umani valutano con positività che loro sono ancora in piedi, in vita e non orizzontali, cioè il morto è lì al posto loro, per decretare che non sono loro i morti. Restammo comunque a fare azione fedele di commiato per un grande personaggio della cultura milanese e italiana come Raboni. E poi andammo a fare l’aperitivo da Zucca. * 4. Il 18 novembre 2006 eravamo alla Casa della Cultura di Heidelberg. La cosa incredibile di quella serata è che i tedeschi pagavano un biglietto per entrare ad ascoltare dei poeti italiani, che leggevano in italiano. Questa cosa mi è sempre rimasta impressa nella memoria: persone che in massima parte non capiscono una parola di quello che vanno ascoltando e, nonostante questo, pagano un biglietto per farlo. L’organizzazione impeccabile di questa serata e dei nostri quattro giorni là era opera di Antonio Staude, un bravissimo filologo e traduttore di madre lingua italiana e tedesca, nipote di Tiziano Terzani da parte di padre e di Giorgio Colli da parte di madre. Staude aveva organizzato questo viaggio poetico (con l’aiuto di Angelo Tonelli) e ci dava impegni e orari stringenti per corrispondere al programma di lavoro molto teutonico. Con me e Tomaso c’erano, tra gli altri, Valentino Zeichen, Salvatore Smedile, Gabriella Galzio, Francesco Macciò, Dieter Schlesak e lo stesso Tonelli. Eravamo arrivati in aereo a Francoforte. Da lì, in autobus, ci eravamo spostati a Heidelberg. Il gruppo di poeti viaggianti doveva partecipare al World Poetry Festival – poeZone 4, con una giornata dedicata: “Una notte italiana – Dichtung aus Italien”. Il primo giorno passò in assoluta libertà di fare, brigare, passeggiare, dormire. Il secondo giorno ci toccò una riunione notturna. Dopo cena eravamo costretti a un’assemblea per organizzare la giornata fatidica. Appesantiti dal cibo e dal vino saliamo al primo piano di un istituto culturale di cui Staude aveva le chiavi. La stanza era grande e il riscaldamento non era in funzione. Faceva freddo. Tomaso si era seduto ed era rimasto imbacuccato nel suo pastrano, col cappello in testa e i guanti. Appena seduto chiuse gli occhi. Dormiva. Angelo Tonelli tentava una scaletta dei nostri interventi poetici del pomeriggio successivo alla Biblioteca centrale e della sera alla Casa della Cultura. Io dissi qualcosa, Valentino ribatté qualcos’altro, Staude precisò alcune cose. Tomaso dormiva. Mi avvicinai alla lavagna e tentai un elenco di nominativi con scansione dei tempi. Angelo Tonelli corresse. Tomaso dormiva. Valentino non era d’accordo. Si discuteva e citammo due poeti, io Caproni e Valentino non ricordo chi. Ci sfottevamo. Poi ci mettemmo tutti a ridere. Tomaso dormiva. Quando ormai stremati dall’ora tarda e dall’alcol decidemmo di andare a dormire, qualcuno doveva prendersi la briga di svegliare Tomaso. E tutti ci chiedevamo chi l’indomani avrebbe detto a Tomaso cosa avevamo scelto anche per lui che dormiva nella scaletta dei due eventi di lettura. Il giorno dopo alla Biblioteca, Angelo Tonelli, nonostante avessimo chiarissimo dalla notte precedente l’ordine degli interventi, disse che avrebbe ripetuto la scaletta e gli argomenti, soprattutto per Tomaso. Ma Tomaso, già seduto al tavolo si voltò verso di lui e disse con estrema esattezza il nome di chi avrebbe cominciato, l’intervento e il tema precedente al suo, e quello successivo. La notte prima aveva sentito tutto. Aveva dormito? Aveva fatto finta di dormire? Non si sa. La realtà è che sapeva già tutto. * 5. Sono passati molti anni. Ogni volta che andavo a Milano lo chiamavo e se c’incastrava ci vedevamo per il solito aperitivo. Un anno mi invitò a presentare un mio libro alla Casa della Poesia, che aveva contribuito a far nascere e crescere. Poi nel 2019, mentre stavo costruendo il progetto del viaggio sulle orme di Leonardo Da Vinci, un viaggio in scooter da Vinci fino ad Amboise in Francia, con dieci tappe intermedie (progetto raccontato in alcuni video e in un libro, intitolato Da Vinci su tre ruote), lo invitai come testimone della tappa milanese. Ci vedemmo da Frank a Porta Venezia e ci divertimmo molto a registrare l’intervista. Era affaticato, ma ancora molto reattivo. Furono abbracci e sorrisi. Poi tutto è precipitato e gli anni dopo sono stati solo telefonate. Poi più neanche quelle. A questo punto però serve fare un passo indietro. * 6. Nel 2007 ci vedemmo qualche volta a Milano e poi Tomaso venne in Toscana per parlare di un suo poema che voleva assolutamente pubblicare nella mia collana di libri di poesia. Per questo serve portare qualche fatto. Dal 2000 avevo fondato la collana Poesia di Edizioni ETS. Fino al 2007 erano usciti alcuni libri che restano primizie italiane: l’antologia sulla guerra e la madre di Roberto Carifi, la prima traduzione italiana del poema Premio Pulitzer 1967 di George Oppen, il primo libro italiano di José Tolentino Mendonca, il Canto Pisano di Sam Hamill e alcune altri importanti titoli. Tomaso mi propose un suo poema, me ne parlò, me lo fece leggere e lo pubblicammo a settembre 2007. Il titolo, visto con gli occhi di adesso, è tutto un programma: La morte è un’altra cosa. Ho ripreso in mano questo libro. Tomaso scriveva:  > “e quando la luce tornerà alla luce sente che  > tutto il potere sarà della poesia  > dell’esistenza finalmente  > anche per l’impossibilità innata  > di venire a patti con la vita”.  Sembra un testamento. Sembrano versi scritti per la sua dipartita, perché sono tanto aderenti a ciò che Tomaso era e pensava. E adesso che Tomaso è morto questi versi risuonano fortissimi. Questo poemetto parla di giovani (che Tomaso frequentava per l’insegnamento universitario e nel mondo della poesia), ma soprattutto parla del fatto che dalla fantasia scaturisce l’utopia, cioè un anelito umano verso le stelle, quello che Tomaso definiva “frutto inconsumabile dell’immaginazione umana”, chiudendo la sua nota ai versi con la convinzione “che l’utopia non può morire”. Questo era Tomas Kemeny. Per questo ci mancherà, lui daimon mezzo umano e mezzo divino. Forse la sua frase più rappresentativa era proprio questa specie di preveggenza che volle ficcare nel libro per dimostrare che davvero la morte è un’altra cosa e che infine, quando la luce tornerà alla luce, tutto il potere sarà della poesia. Avanti, Tomaso! Stai bene! Alessandro Agostinelli L'articolo La morte è un’altra cosa. Sussurri, aperitivi e viaggi in memoria di Tomaso Kemeny proviene da Pangea.
November 10, 2025 / Pangea
La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di scrittori da social
Come se la passano oggi gli scrittori? Stanno in giro per librerie? Si sono dati alla macchia, scomparendo dalla mondanità? Oppure stanno a giornate sui social? Ecco, piuttosto l’ultima. Dove vivono oggi gli scrittori, quelli bravi e quelli ciuchi, quelli famosi e quelli sconosciuti? A giornate sui social a pontificare su tutto, su ciò che conoscono e su ciò che non conoscono. Come qualsiasi cittadino normale? Ebbene sì, come ogni persona normale. Ma è pur vero che lo scrittore non è tanto normale, come figura sociale (non social) intendo. Ma questa è soltanto una stupida illazione. Personalmente passo troppo tempo su facebook e quando me ne accorgo mi faccio schifo, ma proseguo comunque in questa oscena attività. Un amico bibliotecario, una volta scrisse su facebook che si sarebbe allontanato per un po’ dai social perché voleva scrivere. Alcuni discutono di tutto; altri parlano solo di libri. E mi chiedo: esisterà in futuro qualcosa di cui scrivere che sarà fuori dai social, dalla rete, dalle piattaforme online, dalle riviste digitali? Lo spero, ma non credo. Non moriremo cartacei, come non siamo morti democristiani (si diceva così una volta…). Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che interessa tutti: come andrà a finire… Dunque, in questa seconda puntata della “Vita Agrissima”, affronteremo alcune tipologie dentro le quali gli scrittori (e si intende al solito tutta la compagine: scriventi, poeti e poteastri, ghost, ecc.), a differenza della prima puntata, non hanno alcun riferimento reale. Tutto quello che segue è inventato… *  Critici e ipocriti “Ho letto il libro di Tizio. Intanto, per me, c’è un errore sintattico alla fine di pagina 137. Poi come fa il personaggio di Caio a parlare con quel tono? È inverosimile”. E tu chiedi – tutto avviene tramite messaggistica, nulla è ancora pubblico – “ma la storia? La storia è bella?”. E lo scrittore criticone risponde che è senza infamia e senza lode, ma gli manca l’ultimo capitolo. Il giorno dopo leggi il suo post sui social: “Quando lo stile di un autore dimostra ancora una volta la forza della narrativa italiana. Lo conosco bene e so che lui è maestro nel trovare il giusto tono per ogni personaggio, come dimostra Caio in questo suo ultimo lavoro. Complimenti Tizio, è il tuo libro migliore”… Sipario. * Lecchini Dicesi lecchino chi si complimenta in modo eccessivo, senza ragioni valide per farlo. Di solito il lecchino agisce nei confronti di un collega più famoso o reputato più importante, e che, a suo avviso, potrebbe aiutarlo nelle sue prossime “mosse letterarie”. Uno dei modi migliori è sollevare uno scrittore affranto da qualche questione extraletteraria, confortandolo con un commento sotto al suo post malinconico, tipo: “non ti curare di questi sfaceli quotidiani, tu hai la letteratura che ti (ci) conforta, e in questo campo sei un maestro”. La sottospecie è il controlecchino simpatico, cioè colui che prova a conquistare la confidenza di uno scrittore che reputa più addentro alle cose editoriali, usando l’ironia, lo sfottò, l’ammicco, l’occhiolino. La tattica è più sfrontata, ma se funziona maggiormente efficace, perché l’opera di lecchinaggio tout court stucca facilmente. Ahimé. * Lamentosi “Se un editore, dico uno, avesse compreso per tempo il senso profondo di questo libro che ho scritto ormai 10 anni fa, forse oggi avremmo compreso meglio la questione del [inserire un argomento a piacere]”. Questo lamento pare più adatto alla saggistica, ma sta bene pure nei settori letterari della narrativa e della poesia. Il lamento non è soltanto relativo a una pubblicazione mancata, ma anche a un libro che ha avuto poca risonanza, in cui l’editore non si è speso in promozione e da cui l’autore auspicava maggiore eco mediatica. Solitamente ai lamentosi viene bene anche una seconda parte di orgoglio risentito in cui scrivono: “comunque, in un mondo editoriale caduto così in basso, sono felice di non aver preso parte a tale riflusso commerciale”. Olé. * Fenomeni Dicesi fenomeno colui che pensa di essere più figo degli altri. La categoria è vastissima, di cui una sottospecie, forse la peggiore, è quella dei fenomeni che condiscono i loro post di esecrabile falsa umiltà. Tipo: “sono seduto a un tavolino fronte mare, ho ritrovato un vecchio libro di Gogol e mi infliggo questa medicina, mentre tutti intorno a me sono curvi sopra i loro cellulari”. Tra i fenomeni ci sono gli assertivi, cioè quegli scrittori che credono di essere un’autorità in materia (che ne so, di gialli, di fantasy, di qualcosa) e tracciano post come fossero confini statuali. A puro titolo di esempio quel che segue. Sottotesto non scritto: [attualmente sono il miglior narratore di genere poliziesco]. Testo del post sui social: “nel genere poliziesco una buona storia necessita di due cose fondamentali X e Y, perché soltanto così abbiamo la storia perfetta”. E sotto sbrodolamento di commenti entusiastici da parte dei followers. Evviva.  * Ingrati Non so se il numero degli scrittori ingrati sui social sia alto o basso. Certamente l’ingratitudine è una delle attività più crudeli. Mettiamo che abbiate organizzato la presentazione di un libro per conto di una casa editrice. Avete invitato l’autore del libro e lo avete messo in contatto direttamente con l’editore, tipo Giulio Einaudi o Elvira Sellerio (meglio citare persone scomparse…) – è ovviamente un esempio incongruo. Ecco! Alla fine dell’evento lo scrittore fa un bel post sui social, tagga tutti e ringrazia tutti, tranne voi. Perché? Certi comportamenti umani sono insondabili, ma anche parecchio stronzi! Tiè! *  Citazionisti “Come non essere d’accordo con questa frase di Franz Kafka: [segue frase]”. “Come non sottoscrivere questa massima di Seneca: [segue massima]”. “Come non emozionarsi di fronte a questa poesia di Auden: (seguono versi)”. Grazie al pene! Non avete scelto citazioni dal Dizionario etimologico storico dei termini medici di Enrico Marcovecchio. Kafka, Seneca, Auden. Vi piace vincere facile eh? Ma c’è anche chi, sui social, lancia sfide di citazioni, tipo questa: “Indovinate chi è il mio scrittore preferito (non andate a cercare su google, furbacchioni): Svetta su entrambi un Himalaya di vite in movimento”.  E poi gli autocitazionisti. Ecco un plausibile esempio: “Sgomento, sgomento di una guerra ingiusta/ senza cuore avanzano coloro che non restano umani. Non sono parole di Ghandi e nemmeno di Tolstoj, questi versi li trovate nella mia ultima raccolta, Il cielo diviso. #nowar”. Forza!  * Autoprodotti Sono coloro che hanno scritto un testo, l’hanno impaginato a piacere, hanno scelto un’immagine autoprodotta, e hanno mandato tutto in stampa presso una piattaforma tipografica digitale. Hanno ricevuto a casa un certo numero di copie del loro romanzo e adesso ne lodano le qualità sui social. E sotto valanghe di cuoricini dei parenti. I più astuti tra quelli che si autoproducono i libri, senza un editore, sono coloro che convincono l’amic* del cuore a fare il post in vece loro e tratteggiare tutte le qualità del racconto. Amen! Alessandro Agostinelli *In copertina: un’opera di Roland Topor L'articolo La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di scrittori da social proviene da Pangea.
October 24, 2025 / Pangea
La vita agrissima. Sette modi per diventare scrittori
Ricorsivamente ci poniamo le solite domande. Come si diventa scrittori? C’è una formula segreta? C’è una chiave che bisogna portarsi appresso? Si deve conoscere qualcuno che conta? Ecco le domande che spesso sento fare a qualche aitante e giovane erudito. Mentre da parte mia, a questo punto della storia, la domanda è piuttosto un’altra: perché sto passando la mia vita a scrivere? Ma questa è un’altra storia. * Editoria in crisi, proposte in rialzo Le vendite dei libri sono in calo; il numero degli scrittori aumenta. È difficile spiegare come possa reggersi in piedi un sistema del genere. Il settore editoriale è forse l’unico in cui mentre la barca affonda tutti vogliono salirci sopra. La categoria che prendo in esame è nell’accezione più larga possibile. Quindi per scrittori intendo scriventi, poeti, poetastri, narratori, prosivendoli, saggisti, ghost writer, ecc. Questo perché tanto, nella migliore delle ipotesi, il 99% di noi scomparirà dall’orizzonte letterario nazionale nel giro di qualche decennio dalla propria dipartita da questa terra. Alcuni resteranno per aver invaso le pagine dei giornali dei loro tempi, altri perché saranno precipitati nei manuali scolastici e altri perché qualche erede compiacente (che avrà gusto o necessità di ricevere ancora i diritti sulle opere) si darà un sacco da fare per mantenere viva l’attenzione sullo scalpo del proprio familiare – ed è una delle cose migliori che possano capitare a un autore. Ma forse questo è una maniera arcaica di vedere la cosa. * Social e AI Potrebbe essere che qualcuno resterà sui social, con la sua pagina che sarà riempita di contenuti pure dopo la sua morte, dalla moglie che conosceva la password, da un amico, da una figlia, da un parente, da un’associazione di fans sfegatati. Resteranno solo tre frasi espunte da un romanzo e per quelle tre frasi resterà il nome dello sventurato. Una vita passata a scrivere centinaia di pagine, quando bastava aver scritto tre trite frasi a effetto et voilà, era bell’e fatto! Oppure, qualcuno scopre online dei testi di un bravo scrittore, non assurto alla fama modesta del mondo letterario, indica una traccia romanzesca e inserisce in un programma di AI generativa grandi brani di quello scrittore, creando una nuova opera. Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che interessa tutti: come andrà a finire. Ma per sapere come andrà a finire, c’è da vedere prima come si può cominciare, cioè qualche maniera di diventare scrittori. Ecco allora sette modi per pubblicare, in cui qualcuno di voi potrebbe riconoscersi. Con sorpresa finale (non andate a leggere subito la fine). * Censo Sei ricco, hai beni e risorse da spendere: puoi ottenere, più o meno, ciò che desideri. Quindi anche una pubblicazione presso un editore, più o meno noto. Se poi il tuo testo non ha qualcosa di buono da utilizzare per un libro, pace. Resta il fatto che se le doti letterarie non bastano, con i soldi potrai pagare un ghost writer e il gioco è fatto. Amicizia Se conosci l’editor di un grande editore e ce l’hai in pugno sei a buon punto. Sei proprio amico, puoi chiedergli di pubblicare il tuo libro. Questa modalità resta la più sanguigna e improbabile perché – sia detto senza remore – gli editor non hanno amici, non tengono famiglia e sono tutelati nella privacy più delle spie di Sua Maestà britannica… Meglio conoscere il proprietario della casa editrice. A lui oggi raramente dicono di no (ti accontenterai di un “fuori collana”). Sesso Sei giovane. Uomo o donna non fa differenza. Sei giovane e vuoi diventare scritt*. Qua conta un po’ la bellezza, ma soprattutto le armi classiche della seduzione, che sono sempre un incrocio tra santità e puttanaio. Aprire le porte dell’editoria col sesso è un modo banale di entrarci. Tenacia Puoi occupare l’atrio della casa editrice. Piazzarti per giorni, settimane, mesi accampato là dentro, con sottobraccio i fogli del tuo romanzo che tu ritieni indispensabile all’umanità. Soprattutto deve essere questo il tuo convincimento, non di meno: un libro indispensabile. Forse, stremato dalla tua costanza, ci sarà qualche impiegato che trova la maniera di portarti di fronte al giudice supremo della casa editrice. Fortuna Ci sono vari livelli di fortuna. C’è chi vince un concorso solo perché, un po’ come l’allineamento positivo dei pianeti in astrologia, la giuria ha letto quel testo in un momento favorevole per ciascun giurato. Della serie: questo testo non è un capolavoro, ma è quello che mi ha meno disturbato, o più divertito, o meno addormentato, o più interrogato, o… ad libitum. C’è chi ha inviato un dattiloscritto per posta e ora quel testo staziona da mesi in una busta sotto una pila di altre buste, accanto a pile di altre buste, sulle scrivanie addossate al muro di un ufficio editoriale. L’editore incontra il suo consigliere alla pubblicazione, alza una pila, toglie delle buste e ne prende una a caso, la tua. Ecco, al lettore il testo piace. Si va in stampa. Bravura Sei bravo. Lo sai. Te lo hanno detto scrittori affermati e agenti letterari svogliati. Prendi il libro e lo porti alla casa editrice della tua città che lo pubblica. L’editore è piccolo, il mondo editoriale non si accorge di nulla. Sei bravo. Te l’hanno detto. Pubblichi, non si sa come, con un editore importante, il libro non è spinto sulla stampa, il mondo editoriale non si accorge di nulla. Sei bravo. Pubblichi con un editore conosciuto che segue il libro e lo pubblicizza. Vendi poco più di mille copie, il mondo editoriale non si accorge di nulla. Circostanze Un agente letterario accetta di curare i tuoi interessi editoriali. Proponi due libri. Il primo non se lo fila nessuno e tu ritenevi fosse il migliore. Quello che invece avevi scritto controvoglia viene pubblicato perché – dice l’agente – era proprio l’argomento che l’editore stava cercando… * Post Scriptum Questi modi di pubblicare corrispondono a storie vere di alcuni scrittori in carne e ossa, di cui qui non menzionerò nemmeno il soprannome. Alessandro Agostinelli *In copertina: Ernest Hemingway, uno scrittore L'articolo La vita agrissima. Sette modi per diventare scrittori proviene da Pangea.
October 10, 2025 / Pangea
Intorno alla magnifica invenzione della “Poetry Cam”, la macchina fotografica poetica
C’era una volta un tizio che si sedeva davanti a un tavolo. Aveva un quaderno e una penna. Scriveva. Oppure aveva una macchina da scrivere, o un computer. E scriveva. Questa è la favola che oggi ci illude esista ancora un tempo per scrivere. Non voglio dire che non esista più. Dico solo che oggi ha uno statuto debole. Li vedo già i colleghi poeti e scrittori che storcono la bocca: ma come, l’autore! su dai, la creatività! Sono anch’io disperato come loro, mi muovo a tentoni in un presente che rosola a fuoco lento (ma neanche troppo lento) le certezze intellettuali e letterarie di soli vent’anni fa. Non so se sia una notizia vera. Oggi esiste questo universo delle cosiddette “fake news” che avvelenano menti e coscienze degli individui. Spesso si diffondono tramite i social, perché sono il mezzo in cui tutti noi siamo più indifesi di fronte al desiderio di scovare qualcosa da mettere in mostra nella nostra vetrina, sul nostro profilo. Comunque, ho fatto le dovute verifiche del caso: è in vendita, a varie centinaia di dollari (sotto il migliaio comunque). È la Poetry Camera, cioè la macchina fotografica poetica. Si inquadra qualcosa e, poco dopo, quest’aggeggio sputa una poesia composta dalla sua intelligenza artificiale. A inizi Duemila lavoravo in radio e abitavo a Milano. Sui Navigli c’era un tizio che scriveva, a pagamento, poesie su commissione. Bastava dirgli a chi volevi regalare la poesia e fornirgli qualche elemento tematico o caratteriale della persona e lui ti sfornava una bella poesia lì per lì. Pensate che, negli anni ’60, pure Jack Kerouac, il vagabondo perditempo sulle strade d’America, si era rintanato nella capanna di Henry Miller, per scrivere un romanzo su commissione. Era Big Sur. E se pure il più anarchico degli scrittori aveva ceduto a un libro a richiesta, voleva dire che tutto era possibile. E infatti, a distanza di alcuni decenni, il possibile è diventata un’invenzione di Carolyn Zhang e Ryan Mather, due informatici creativi che hanno preso un dispositivo di Raspberry Pi che cattura le immagini e, interagendo con GPT-4 di OpenAI, genera poesie, produce testi poetici, pure di generi differenti. Si può prediligere gli haiku, oppure un sonetto, o un limerick, o altro. E già a questo punto ci sarebbe una miriade di considerazioni da fare. La più evidente è che con questa macchina fotografica poetica non dobbiamo nemmeno durare fatica a scrivere un elenco di parole che l’intelligenza artificiale usa per comporci sopra una poesia. La caratteristica della Poetry Cam è che si inquadra un bel tramonto e via, la macchina secerne la poesia stampata sopra un pezzo del rullino di carta, e il dispositivo non salva in digitale questo testo. Praticamente, in un baleno siamo di fronte all’uso avanzato dell’intelligenza artificiale e all’uso arcaico della carta come unico supporto che “ricorda”, cioè archivia il risultato. A essere uno psico-qualcosa o un socio-qualcosa ce ne sarebbero di discorsi da fare… Alla parte romantica di me stesso, di fronte a questo rilievo della carta, verrebbe da dire “vedi, la carta è ancora il supporto migliore, la carta non tradisce”. Ma poi una vocina cinica mi dice che magari qualcuno in antichità, quando inventarono la carta, potrebbe aver detto “questa novità della carta non durerà, vuoi mettere le tavolette di pietra incise, le tavolette di pietra non tradiscono”. Alessandro Agostinelli  L'articolo Intorno alla magnifica invenzione della “Poetry Cam”, la macchina fotografica poetica proviene da Pangea.
July 18, 2025 / Pangea
La poesia-facile e la poesia-poesia
1. Vorrei raccontare un esperimento che ho fatto tempo fa. Ho preso 10 spettatori. Ho fatto vedere loro lo spezzone di un film con un attore che non sa recitare. In 9 si sono accorti della cattiva recitazione. Poi ho preso 10 lettori. Ho dato loro da leggere alcune poesie con testi banali e melensi. Soltanto 4 di loro si sono accorti della bruttezza. Ai 10 spettatori ho chiesto quanti di loro avrebbero voluto fare l’attore. Soltanto uno mi ha detto che in gioventù aveva pensato di iscriversi a una scuola per attori. Ai 10 lettori ho chiesto quanti di loro avrebbero desiderato scrivere poesia, e 8 di loro mi hanno detto che scrivono e avrebbero voluto farmi leggere le loro poesie. I risultati di questo semplice “esperimento” (al di là della sua sciocca inutilità statistica) mostrano di per sé alcune evidenze: a. una consistente differenza tra spettatori e lettori; b. una consapevolezza degli spettatori, rispetto ai lettori, del fatto che la recitazione è anche una tecnica da studiare; c. la presunta facilità della poesia per chiunque abbia appreso a scrivere a scuola; d. la capacità di individuare “errori” nell’arte performativa è superiore a quella di riconoscere “errori” nel testo scritto. Al di là della miriade di poeti della domenica, anche tra quelli pubblicati spesso ci si riferisce ormai quasi esclusivamente a una accessibilità della poesia. Cioè ci si riferisce più alla domanda che all’offerta. In sostanza ci si occupa di marketing, cioè di ragionamenti e azioni che si fondano sulle “esigenze” del lettore – intercettare il lettore, si dice. Questo è ciò che cercano gli editori. E questo è il loro lavoro. Ma non dovrebbe essere quello del poeta. Quando si parla del lettore, di quale lettore si parla? Ovviamente di un lettore generico, di un lettore-tipo, vale a dire di un lettore medio, uno che non esiste in concreto, ma che a furia di nominarlo con tanta bramosia si palesa. Questo lettore inesistente si palesa nella maniera della pubblicabilità, quel modo che trascina poesia e letteratura nella mediocrità, in un ambito cordiale che tutto mastica e tutto digerisce. Partiamo da qui: la cordialità in poesia è un’aberrazione. Non è questo lo scopo del poeta. Non è questo il terreno della poesia. * 2. Ma che cos’è oggi la poesia? La domanda è pertinente, la risposta è difficile da individuare. È vero però che da un decennio è emersa in molti titoli di autori conosciuti una certa semplificazione a tutto tondo. E ultimamente c’è pure una caratteristica diffusa, cioè la ricerca costante di una folgorazione finale. Si trovano accorati pay-off in forma di poesia: soluzioni fulminee, apologhi icastici, sviolinate con ciliegina. Si trovano raramente poesie, nel senso specifico del mezzo. Siamo in un mondo in cui la poesia somiglia all’atto diarroico di dover per forza disporre con impeto parole su un foglio, come una volta le diapositive delle vacanze. Oltre a questa tendenza a disporre testi poetici con finali a effetto, senza che il testo stesso, che precede questi finali, abbia uno stile adeguato nella creazione di un processo motivato che porta a tale finale, ci sono altre caratteristiche negative alla base della produzione diffusa di poesia attuale. E mi piace citarne almeno una. Vale a dire che spesso molte poesie contemporanee scrivono esattamente ciò che vogliono dire. Non è coerenza tra pensiero e scritto: è cronaca. Ma una cosa è raccontare in poesia una domenica in vespa (come fa Sereni in un testo formidabile), altra cosa è fare i compiti andando a capo a caso e raccontando pedissequamente la passeggiata in un bosco, un semaforo rosso nel corso principale, l’affetto per la nonna, e in più utilizzando tutta una serie di inutili aggettivi decorativi. La poesia non dovrebbe solo dire esattamente ciò che vuole dire. Di più. Se, per esempio, uso la parola “ramarro” in una poesia devo avere la consapevolezza che quella parola non appartiene al mio testo, ma soprattutto al mondo della poesia, perché ne hanno scritto Dante e Montale. La tradizione – come si chiama – serve anche a questo: a tonificare in novità un tema antico. La profondità di un testo poetico non è soltanto in quello che racconta, ma come lo dice. E oggi, purtroppo, l’empatico desiderio di rendersi protagonisti delle proprie emozioni porta molti a esporre sentimenti in forme semplificate, invece di verticalizzare (in alto o in basso) le profondità di idee o viscere. Purtroppo oggi si leggono sempre più testi poetici che intendono esattamente ciò che vogliono intendere, senza alcuna “ambiguità”. Mentre è proprio sulla polisemia che si gioca spesso la forza di una poesia. Finché questi prodotti poetici restano nella casa vasta della poesia-facile, nel suo senso lato di “affare emotivo”, va benissimo. Del resto alcuni di questi prodotti diventano anche titoli librari di successo, e vengono pubblicati con ottime tirature. Eppure credo avesse ragione Ungaretti quando diceva: “La poesia è poesia quando porta in sé un segreto. Se la poesia è decifrabile nel modo più elementare, non è più poesia”. * 3. Veniamo così a un altro argomento. Cosa dovrebbe accadere quando il punto non è il mercato librario, ma la poesia-poesia? Forse la poesia dovrebbe essere, prima di tutto, la semplificata complessità di un lungo rapporto con la tradizione e con la lingua. E certo anche il fulmineo processo creativo emozionale. La poesia dovrebbe essere, prima di ogni altra cosa, la parte consistente di un lavoro sulla lingua. La metrica è la musica della poesia e chi non la conosce fa la stessa figura del direttore d’orchestra che non sa leggere la musica sullo spartito. Certo, si può ignorare la metrica, come si può fare immondizia dell’armonia, ma si deve conoscere e si deve sapere che cosa si sta facendo. In definitiva, il poeta ha soltanto la lingua, l’uso della lingua, i suoi modelli e i suoi labirinti, le sue opportunità e le sue forme, come destinazione e come destino. E per raccontare qualcosa che abbia la parvenza di un lavoro nella poesia forse non basta una vita. Una vita di letture abbondanti, una vita di studi continui, una vita di lunghe passeggiate in solitudine per sgranchirsi la mente, una vita di riscritture chiarificatrici. Non si può definire un poeta da un libro, da un lampo improvviso che acceca, ma da una competenza acquisita nel tempo, possibilmente attraverso un’opera composta da più prove, da una carriera svolta in maniera appartata in questo fragile piccolo mondo delle parole. * 4. Capisco che in un mondo fatto di social e onnipresenze virtuali le persone pensino al concetto di tempo e di storia come un lungo presente spalmato esclusivamente sulla loro età, sulla loro brevità di vita. Tuttavia la cultura dovrebbe scucire dagli occhi il velo che ci attanaglia, invece di farne viva cordialità e simpatica e amorevole eroina che tutto rasserena. I libri e la poesia soprattutto ci fanno vivere nella consapevolezza di una lingua. Nella tradizione letteraria italiana la poesia ha un ruolo soverchiante sulla prosa. Questa tradizione può essere solcata o essere tradita, ma soltanto attraverso di essa possiamo concepire un passato che serve ancora comprendere e in questa maniera guardare a un futuro da inventare. Ecco dunque che la poesia non è il gioco iperbolico delle chiuse a impatto, concepite come manifesti 6×3 che ti si parano davanti, quando svolti sulla tangenziale. La poesia non è empatia sentimentale, non è la sociologica versione del dolore. Forse questo funziona per i social, la tv, i rotocalchi. Ma non per il fragile piccolo mondo della poesia-poesia. Certamente i social (e facebook su tutti – pur con il suo declino, essendo una piattaforma legata a una popolazione anziana) hanno avuto il merito di rendere più diffuse molte frasi letterarie. Molte poesie famose sono rimbalzate di post in post rendendosi fruibili a numeri enormi di persone. I social contribuiscono a una specie di “democratizzazione” della punta dell’iceberg letterario. Vale a dire che milioni di utenti si ritrovano a leggere pezzi di brani letterari, spunti narrativi, frasi tagliate, brevi testi poetici. Tutto ciò però conferma la superficialità di questo approccio e fissa alcuni passi di letterature di vari Paesi del Mondo in frasi granitiche scolpite nella pietra. Come una canzone ascoltata per tutta un’estate diventa un tormentone e dopo un anno non abbiamo più orecchie per ascoltarla e ce ne dobbiamo separare o dimenticare, anche una poesia di Giorgio Caproni, continuamente postata sui social ci risulta prima o poi stucchevole. “Anche oggi pernici?”, diceva un padrone al cuoco in un testo di Swift, per dire che anche un piatto prelibato può dare disgusto se lo mangi sempre. Che cos’è dunque questo desiderio di chiunque di rendere “poetico” un attimo della propria esistenza, attraverso una riflessione emotiva postata tramite una poesia ricorrente? Credo sia l’inconsapevole certezza che la parola declinata in forma poetica ha una forza intrinseca che, come un solfeggio, batte e leva, cioè misura il ritmo della nostra anima emotiva. Tuttavia questo non basta a descrivere i contorni della poesia-poesia, ma soltanto la forza della lingua al servizio dell’atto poetico. Perché in verità la poesia non è tutta nelle pagine dei libri, ma nella natura. È da questo grande libro incommensurabile che spesso si traggono, con il lavoro nella lingua, le emozioni delle parole. * 5. Tuttavia, come forse abbiamo lasciato intuire, il segno della poesia-poesia non ha largo campo nella società e all’interno dei suoi mezzi di comunicazione. Perciò resta complesso (e impossibile qui) indagare quanto i dispostivi tecnologici abbiano modificato e influiscano sulla percezione della poesia-poesia, preferendo solitamente una poesia-facile, cioè “meccanismi poetici” più superficiali e semplificati. Questi ultimi sono la voce-guida “culturale” dei nostri tempi. Tempi che non mostrano più un’identità collettiva, checché ne dicano o sperino i governanti; tempi che non vedono una fase di ricostruzione collettiva, come accadde nel secondo dopoguerra; tempi che erodono la razionalità in favore di emotività adolescenziale. È finita la vita in diretta, cioè quel legame individuale e collettivo che i mezzi di comunicazione (tv, radio, stampa, editoria) organizzavano per gli italiani. Dal momento in cui ogni individuo ha potuto avere un dispositivo personale, la visione e la pubblicazione on-demand hanno soppiantato la visione e la pubblicazione tramite terzi, si è perduto, in questa frammentazione, anche il valore della poesia-poesia. Con la denatalità degli italiani, l’arrivo di molti immigrati da varie parti del mondo, il gergo invasivo dei social e dei giochi elettronici, l’uso dell’inglese della tecnologia, i ricorrenti gerghi giovanili (derivanti più o meno dalla musica pop), l’ideologia woke e le sue declinazioni linguistiche, i sempre più spiccati ritorni ad accenti regionali nelle radio e nelle televisioni nazionali, siamo di fronte a un tempo formato da molte alloglossie. Non sembra esserci più un sistema di una lingua maggioritaria, come è stato fino ai primi anni Ottanta del Novecento, attraverso i canali RAI. Allora potrebbe essere forse la poesia-facile a stabilire nuove regole e nuovi principi? La sua diffusione sui social, la sua elementare comprensibilità, la sua affabilità nelle forme semplificatorie di cui abbiamo detto all’inizio di questo testo, potrebbero suggerire un sentiero, che mette d’accordo lingua scritta e lingua parlata. Infatti, ormai l’uso dei vari dispositivi tecnologici permette una commistione molto forte tra scritto e parlato, con uno scivolamento del primo in favore del secondo. Senza dubbio una società è coesa laddove si individua un sistema linguistico corrente e comune, un impianto di base minimo non soltanto per la comunicazione concreta, ma che sappia anche muovere dal linguaggio alle emozioni e dunque a un immaginario possibile di riferimento. Senz’altro la poesia-facile sta avendo successo per questa riduzione di complessità, per una certa adolescenziazione sociale e culturale, che è anche, in parte, una rinuncia alla razionalità e alla responsabilità. Invece di offrire agli adolescenti una formazione, attraverso la letteratura, che li traghetti al mondo adulto, si è recentemente attaccata superficialmente la tradizione letteraria cercando di nasconderla, emendarla, epurarla. Al tempo stesso si pubblicano e si promuovono “casi letterari” di poesia-facile, si adolescentizza, in chiave esclusivamente emotiva, la produzione poetica contemporanea. Non mi sembra un buon programma di crescita individuale e collettiva. E certo voglio credere che servirà ancora qualcuno che sappia muovere le trame sottili e adulte della poesia-poesia. Di questo spero che la comunità attuale dei letterati e dei responsabili dell’editoria continuino ad averne consapevolezza. Alessandro Agostinelli * Alessandro Agostinelli, scrittore e poeta. Ha pubblicato il romanzo Benedetti da Parker (2017); alcuni saggi sul cinema americano; i reportage di viaggio Giordania stilografica (2023), Da Vinci su tre ruote (2019), Honolulu Baby (2011); le raccolte di poesia Le vive stagioni (2023), Il materiale fragile (2021), L’ospite perfetta – Sonetti italiani (2020) e in Spagna En el rojo de Occidente (2014). Ha lavorato a Radio 24, Radio RAI Tre, L’Espresso. Fondatore del Festival del Viaggio. Dirige la collana Poesia di Edizioni ETS. L'articolo La poesia-facile e la poesia-poesia proviene da Pangea.
April 18, 2025 / Pangea